Cari amici ed amiche.
Sul blog "Storia e verità", ho trovato questo articolo scritto da Alberto Rosselli ed intitolato "La nascita e la caduta dell'Impero Ottomano":
"La storia dell’impero ottomano è stata lunga, gloriosa e densa di
avvenimenti che hanno coinvolto e segnato, direttamente o
indirettamente, lo sviluppo sia dell’Europa che quello di altre vaste
regioni del Nord Africa e del Medio Oriente. Per molti secoli, a partire
dal 1300, l’impero ottomano ha infatti rappresentato un grande ed
importante organismo politico, etnico, religioso e militare.
All’origine di questa complessa e possente struttura imperiale furono
le numerose migrazioni dei popoli provenienti dall’Asia centrale. Da
questo immenso territorio, tra il IV e il V secolo, gli Unni investirono
direttamente le steppe russe e l’Europa centrale, portando altre
popolazioni ad essi linguisticamente affini ad esercitare nelle epoche
successive un’analoga e costante pressione in direzione della Russia
meridionale e dell’Anatolia dove, verso la metà dell’XI secolo, i turchi
selgiuchidi si insediarono saldamente, sconfiggendo gli eserciti
bizantini a Mantzikert (1071), e determinando l’inizio del declino di
questa civiltà. Ridotta Bisanzio ad un piccolo regno aggrappato alle
sponde del Bosforo, gli oghuz o turcomanni,
convertitisi nel frattempo all’islam, consolidarono la loro presenza su
quasi tutta l’Anatolia e il Medio Oriente, allargando i loro orizzonti
espansionistici anche oltre i confini occidentali dell’ex impero romano
d’Oriente.
Quando nel XIII secolo le armate mongole provenienti dal cuore
dell’Asia incominciarono a spostarsi velocemente verso occidente,
investendo i territori compresi tra la Russiae l’altopiano iraniano,
l’Anatolia turca si frantumò in numerosi principati, tra i quali emerse
quello retto da Osman che, dopo avere conquistato nel 1326 il ricco
centro commerciale di Bursa, fece di quest’ultima località la prima
capitale di uno stato che da lui assunse la denominazione di ottomano,
dando origine ad una dinastia che nell’arco di cinque secoli porterà
sul trono 36 sovrani. I figli di Osman I, Orkhan e ‘Ala ud-Din
getteranno le basi per l’espansione territoriale del neonato regno,
avviando una saggia politica di alleanze – stipulate anche attraverso
matrimoni diplomatici – con le fazioni bizantine in lotta tra di loro, e
combattendo in Anatolia i principati islamici rivali.
Una grande spinta all’espansione imperiale in direzione del
continente europeo la diede Suleyman, figlio di Orkhan che riuscì ad
accerchiare ciò che rimaneva del minuto e traballante impero bizantino.
Dopo avere conquistato Edirne, nel 1361, e dopo avere travolto la
resistenza slava e serba a Cirmen, sulla Maritsa (1371), e a Kosovo
Polie (1389) – dove i turchi massacrarono il fior fiore della nobiltà e
dell’esercito serbi – gli ottomani rafforzarono definitivamente la loro
potestà d’imperio su gran parte della regione balcanica. Nel 1393
conquistarono il regno di Bulgaria, arrivando a minacciare l’Ungheria.
Il re ungherese Sigismondo di Lussemburgo tentò di fermarli ma fu
sconfitto nella battaglia di Nicopoli nel 1396. L’avanzata degli
ottomani fu bloccata dall’emergere del grande condottiero Tamerlano, che
nel 1402 li sconfisse pesantemente ad Ankara, prendendo prigioniero lo
stesso sultano Bayazid II Yildirim (la folgore). Alla morte del
sovrano turco-mongolo tuttavia il suo impero si sfasciò e gli ottomani
poterono risorgere dopo un lungo periodo definito di “interregno” e
riprendere la loro avanzata sotto la guida del sultano Murad II che, nel
1444, a Varna sconfisse un’armata composta da serbi, polacchi e
ungheresi. Nel 1453 sotto il sultano Mehmet II (Maometto II), detto poi Fatih
(il Conquistatore), l’impero ottomano occupò Costantinopoli, facendo
cadere definitivamente l’impero romano d’Oriente. Dopo questa conquista,
Costantinopoli cambiò nome in Istanbul e divenne la nuova capitale (la
chiesa ortodossa di Santa Sofia venne trasformata in una moschea). In
seguito gli ottomani espansero i loro domini annettendo diverse regioni
dell’Asia, del Nord Africa e dei Balcani. Guidati da grandi sultani,
come Selim I – che abbatté il sultanato mamelucco di Siria ed Egitto e
conquistò tutti i paesi arabi del Vicino Oriente – e come Solimano il
Magnifico, gli ottomani entrarono in contrasto con i regni europei per
il predominio sul Mediterraneo. Nel 1521, essi occuparono Belgrado e
nel1526, a Mohàcs, sconfissero il re d’Ungheria e Boemia Luigi II
Jagellone, che morì in combattimento. Nel 1529, gli ottomani assediarono
anche Vienna, che però resistette. Nel 1570, sotto il sultano Selim II,
i turchi conquistarono il possedimento veneziano di Cipro, mettendo in
allarme l’intera Europa cristiana. Nel1571, a Lepanto, una grande flotta
composta da unità veneziane al comando del futuro doge Sebastiano
Venier e da una moltitudine di galee e galeazze appartenenti alla flotta
imperiale spagnola di don Giovanni d’Austria, a quella della Repubblica di Genova (al
comando di Andrea Doria) e a quelle dell’Ordine dei Cavalieri di Rodi e
dello Stato Pontificio (in omaggio alla Chiesa, comandante onorario
supremo della variegata Armata cristiana fu fatto Marcantonio Colonna),
inflisse una dura sconfitta agli ottomani, bloccandone momentaneamente
le mire espansionistiche.
Verso la metà del XVII secolo, tuttavia, i turchi ripresero a
marciare verso ovest, estendendo la loro influenza sull’intera regione
balcanica. Nel 1683, essi tentarono addirittura di piegare l’impero
asburgico, lanciando una nuova offensiva in direzione di Vienna sotto le
cui mura furono però sconfitti. Con questa battuta d’arresto, e in
concomitanza con il progressivo rafforzamento delle potenze europee,
ebbe inizio il lento ma inesorabile processo di indebolimento politico,
diplomatico, militare ed economico dell’impero ottomano: decadenza che,
nell’arco di neanche due secoli, avrebbe trasformato il “terrore della
Cristianità” in un organismo sempre più fragile e alla mercé dell’Europa
delle Grandi Nazioni. Tra il XVIII e il XIX secolo, l’impero Russo
conquistò (come vedremo) ampi territori turchi affacciati sul Mar Nero e
ubicati nell’area del Caucaso. E nel 1821, l’impero ottomano dovette
affrontare la rivolta del popolo greco che fu appoggiata da quasi tutte
le nazioni europee e, nel 1829, con la pace di Adrianopoli,la Sacra
Portafu costretta a sgomberare la penisola ellenica, riconoscendo
l’indipendenza dello stato greco. Tra il 1830 e il 1881, la Francia
strappò l’Algeria e la Tunisia alla Turchia e, nel 1878 e nel 1882,la Gran
Bretagna occupò Cipro e l’Egitto.
Ma fu la Russia, tradizionale nemica della Turchia, ad assestare a
Costantinopoli i colpi più duri e significativi. Tra la seconda metà del
XVIII secolo e il chiudersi di quello successivo, gli zar ingaggiarono
più di una guerra con gli ottomani per la supremazia sulle regioni
caucasiche e per il predominio sul Mar Nero. Un tentativo russo
d’espansione nella penisola balcanica ai danni della Turchia (guerra
russo-turca del 1876-77) si concluse con il trattato di Santo Stefano
(1878) che sottrasse alla Sacra Portala Bessarabiameridionale. Tuttavia,
l’atteggiamento sempre più aggressivo degli zar e le loro eccessive
richieste di compensi territoriali ai danni della Turchia finirono per
indurre la Francia e soprattutto l’Inghilterra a sposare una nuova
politica decisamente più amichevole nei confronti della Sacra Porta.
Verso la metà del XIX secolo, infatti, sia Londra sia Parigi scesero in
campo a fianco dell’impero ottomano, dichiarando guerra alla Russia
(Guerra di Crimea, 1854-1856). Ma a ben vedere, nonostante queste prese
di posizione, la protezione concessa dall’Inghilterra agli ormai deboli
sultani turchi traeva le sue vere origini non certo da generosità, ma da
precisi calcoli politici. Verso la metà del XIX secolo, Inghilterra e
Francia andarono in soccorso della Turchia soprattutto per cercare di
inibire le velleità espansionistiche della Russia, divenuta ormai una
realtà politica e militare troppo pericolosa. Ne conseguì che nella
seconda metà dell’Ottocento le due potenze occidentali cercarono di
limitare lo smembramento definitivo dell’impero ottomano, pur non
rinunciando, come si è visto, ad acquisire a proprio vantaggio territori
e concessioni strappate ai turchi proprio in cambio di un’interessata
ed ambigua alleanza in funzione antirussa. Un atteggiamento –
quest’ultimo – che contribuì ad accelerare ulteriormente lo sfacelo di
un organismo ormai incapace di esercitare nell’arena internazionale una
propria autonoma e dignitosa funzione.
All’inizio del Novecento, la Turchia – che lo zar Nicola I aveva battezzato sarcasticamente il Grande Malato d’Europa
– si era ridotta a svolgere un ruolo politico e diplomatico di profilo
molto basso, subordinato di fatto alle intese e alle strategie
politiche, economiche e militari delle principali potenze occidentali.
Relegato il governo di Costantinopoli ad una condizione di perenne
sudditanza, le grandi nazioni europee cominciarono a spostare apertamene
le loro mire espansionistiche verso il Mediterraneo e il Medio Oriente
ottomano: area, quest’ultima, ritornata strategica in seguito
all’apertura, avvenuta nel 1869, del Canale di Suez. La particolare
situazione interna della regione, abitata da minoranze etniche e
religiose abbastanza irrequiete, suggeriva agli statisti europei manovre
molto spregiudicate, ma nel contempo poneva loro preoccupanti
interrogativi.
Il vuoto di potere che si sarebbe inevitabilmente verificato in
seguito ad un eventuale e definitivo crollo dell’apparato amministrativo
e militare turco in Medio Oriente, inquietava non poco i diplomatici
occidentali, in gara tra di loro per spartirsi il ricco bottino.
L’Inghilterra, ad esempio, temeva che possibili disordini in Palestina
potessero compromettere la sicurezza del Canale di Suez e quella delle
sue linee di collegamento con l’India. Mentre la Francia, che nutriva
esplicite ambizioni sulla Siria e sul Libano, paventava l’intrusione in
Terra Santa di pericolosi antagonisti come Germania e Russia. La corte
di San Pietroburgo, dal canto suo, sperava invece in un rapido tracollo
turco per raggiungere l’area degli Stretti e i tanto agognati “mari
caldi”. Il kaiser ambiva ad aprire alla potente industria
tedesca i mercati orientali, minacciando nello stesso tempo l’egemonia
britannica in Egitto, Persia e India. L’Austria, infine, non aspettava
altro che l’impero turco si indebolisse ulteriormente per espandersi nei
Balcani e per assoggettare l’Albania.
un rapido processo di occidentalizzazione degli apparati burocratici
ed istituzionali dello Stato sembrava infatti l’unica alternativa
possibile alla frantumazione territoriale o – peggio – alla
colonizzazione dell’impero da parte di potenze europee.
Alla fine dell’Ottocento, con l’ascesa al potere dell’ultimo
autocrate ottomano, Abdul Hamid II (1842-1918), la Turchia era in
effetti piombata nel più totale caos politico ed economico. Davanti alla
sfida del mondo moderno, gli ultimi sovrani della Sacra Porta si erano
dimostrati ancora una volta incapaci di elaborare soluzioni atte a
salvare l’impero dalla rovina. Secondo le correnti riformiste formatesi
alla fine del XIX secolo, i principali obiettivi da raggiungere erano
innanzitutto la creazione di un solido esecutivo sotto la guida del gran visir
(il capo dei ministri del Sultano), l’introduzione di garanzie
costituzionali di matrice liberale, la riforma della giustizia, la
razionalizzazione del sistema fiscale ed economico e l’apertura di
scuole pubbliche laiche, soprattutto tecniche. Si trattava in sostanza
di un piano gigantesco ed estremamente impegnativo che, tuttavia, solo
in minima parte poté essere realizzato a causa di svariati fattori.
L’impero ottomano mancava innanzitutto della necessaria coesione
politica interna; non era in sostanza una nazione ma un insieme di
popoli assai diversi gli uni dagli altri. La classe dirigente non faceva
capo ad un medesimo gruppo etnico e culturale: molti suoi membri
appartenevano a razze molto diverse ed antagoniste che, spesso, non
avevano in comune neanche la lingua. Oltreal turco, gli idiomi più
diffusi erano il curdo, l’armeno, il greco, l’arabo e i diversi dialetti
balcanici, caucasici e mesopotamici. Questa antica differenziazione
aveva fatto sì che i vari nuclei etnici e linguistici, gelosi delle
proprie tradizioni, vivessero molto distaccati gli uni dagli altri. In
uno stato teocratico come la Turchia, la religione avrebbe dovuto
giocare un ruolo fondamentale nel processo di omogeneizzazione
nazionale. Nondimeno, la massima autorità governativa turca – il sultano
– che si sovrapponeva alla più importante carica religiosa imperiale,
il califfo (diretto successore temporale e spirituale di Maometto) era
accettata in maniera differente dalle varie correnti interne dell’islam.
I sunniti, setta di maggioranza, riconoscevano la doppia natura politica e religiosa del sultano-califfo, mentre al contrario, gli sciiti
ponevano pesanti riserve sulla duplice funzione del capo dello stato.
Senza contare che un buon 25% della popolazione dell’impero ottomano
professava una fede diversa da quella mussulmana. Sul territorio
vivevano comunità greco-ortodosse, cattoliche romane, cattoliche armene,
gregoriane armene, ebraiche, protestante, cristiano-maronite,
cristiano-nestoriane, uniate siriane, monofisite, samaritane ed altre
ancora.
Il fattore religioso tendeva quindi ad assumere un effetto politico
negativo, favorendo la frammentazione e le ambizioni autonomistiche dei
vari gruppi. Ciononostante, ancora alla fine dell’Ottocento, le alte
cariche del governo continuavano ad ignorare o ad eludere questo ed
altri problemi. I funzionari ragionavano come se molte delle province
dell’impero – soltanto nominalmente assoggettate e controllate da
Costantinopoli (come ad esempio la regione arabica dell’Asir o la costa
nord-orientale araba) – fossero i tasselli di un organismo ancora
omogeneo e compatto. Guarnigioni turche, è vero, erano presenti in tutte
le province, ma spesso i governatori locali faticavano ad imporre
un’effettiva autorità sul territorio. Fuori dalle grandi città gli
amministratori non avevano alcun potere e vi erano distretti nei quali
le tribù e le etnie locali non soltanto si rifiutavano di obbedire, ma
addirittura imbracciavano le armi contro la burocrazia e l’esercito
regolare. In quei distretti, come l’Armenia, le regioni caucasiche e
quelle arabe bagnate dal Mar Rosso (l’Hegiaz e l’Asir) l’amministrazione
risultava talmente debole e disorganizzata da non riuscire a riscuotere
nemmeno i normali tributi. La riscossione delle tasse era un problema
che interessava quasi tutto l’impero, tanto da costringere molto spesso
il governo centrale a delegare a terzi questa fondamentale funzione. Per
fare un esempio, nel 1914, il 95% delle imposte veniva raccolto da
esattori privati.
All’inizio del XX secolo, anche in grandi città come Costantinopoli,
il governo non era riuscito ad innescare quel processo di
modernizzazione amministrativa, strutturale ed infrastrutturale che ai
giovani dirigenti civili e militari imbevuti di idee e di concetti
occidentali appariva indispensabile per la rinascita del paese. Le
condizioni delle strade e delle costruzioni ad uso abitativo e pubblico
erano pessime. Nella capitale l’illuminazione elettrica fu introdotta soltanto nel 1912, anno in cui, dopo secoli di inattività,
venne avviato un primo progetto di rifacimento della rete fognaria e di
bonifica dei malsani quartieri della città vecchia infestati da topi e
cani randagi. Molte delle opere che – seppure tardivamente – furono
progettate o approntate dovettero essere finanziate con capitali
occidentali, soprattutto tedeschi. A questo proposito, si calcola che,
dalla fine del XIX secolo allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la
Turchia abbia usufruito dell’equivalente di circa 63 milioni di sterline
impiegati per l’avviamento di opere pubbliche e strade, per l’apertura
di miniere, per l’incentivazione dell’agricoltura e della coltivazione
della seta e per l’apertura di banche. Nel 1911, un gruppo industriale
straniero ottenne l’appalto per l’installazione di un sistema telefonico
a Costantinopoli e a Smirne ma risulta che nel 1914 fossero funzionanti
soltanto poche centinaia di apparecchi.
Soprattutto nel settore delle grandi opere e dei trasporti la
situazione appariva realmente disastrosa. A parte la realizzazione,
avvenuta in tempi piuttosto rapidi, della lunga linea ferrata che
collegava la capitale a Baghdad e a Medina (l’opera fu portata a termine
grazie all’apporto di tecnici e capitali tedeschi), all’interno
dell’impero non esistevano che pochi collegamenti di scarsa capacità.
Nel 1901, anno dell’apertura dei cantieri della Costantinopoli-Baghdad,
il sultano Abdul Hamid dichiarò con orgoglio di avere investito per la
realizzazione di quest’opera sette milioni di sterline. Se si eccettuano
queste realizzazioni, oggettivamente importanti, in campo ferroviario,
rimaneva da riprogettare l’intero apparato stradale dell’impero,
costituito da un intreccio disordinato di malconce piste in terra
battuta, assolutamente inadatte per i moderni mezzi a motore, peraltro
assai poco diffusi. A questo proposito sembra che nel 1914 le vetture a
benzina circolanti in tutto il territorio imperiale fossero appena 187.
Nella convinzione – in realtà fondata – che soltanto una profonda
ristrutturazione interna avrebbe potuto salvare la Turchia dal
definitivo collasso, un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito dalle
idee innovatrici e liberali, deciderà di dare un volto nuovo a quello
che alla fine del XIX secolo era ancora un piccolo movimento
rivoluzionario: il Partito dei Giovani Turchi. Gli obiettivi che si
posero tre dei principali leader del movimento – Mustafa Kemal
(1881-1938), Enver Pascià (1881-1922) e Talaat Pascià (1874-1921) –
erano molto ambiziosi e di difficile realizzazione, anche perché tra il
1876 e il 1909, cioè durante il regno di Abdul Hamid, la libera attività
politica era considerata praticamente un reato. Nel 1878 il sultano,
uomo dispotico e retrogrado, aveva abolito la costituzione concessa solo
pochi anni prima e sciolto il parlamento dopo appena ventiquattro mesi
di attività, costringendo tutti gli oppositori ad operare in regime di
clandestinità.
Fu proprio in questo periodo che in Turchia iniziarono a proliferare
le prime società segrete, analoghe a quella dei Giovani Turchi. Si
trattava di raggruppamenti di intellettuali e militari che si
ispiravano, almeno per i primi tempi, alle formazioni rivoluzionarie
europee dell’Ottocento e, in particolare, alla Carboneria italiana. Se
la polizia politica di Hamid riuscì quasi subito a scoprire e ad
annientare le associazioni attive nella capitale, essa non poté invece
neutralizzare quei nuclei che avevano le loro sedi segrete a Salonicco,
la città più “europea” dell’impero. E nella località greca i
rappresentanti delle più importanti organizzazioni non si erano lasciati
sfuggire l’occasione di allacciare buoni rapporti con gli ufficiali
“modernisti” appartenenti alla Terza Armata ottomana, il cui comando si
trovava appunto a Salonicco. Tra questi vi era Ahmed Jemal Pascià
(1872-1922) che successivamente avrebbe svolto un ruolo di primo piano
nelle vicende belliche turche del primo conflitto mondiale, ed Enver
Pascià che, alla fine del conflitto, si sarebbe recato in Asia Centrale
per mettersi a capo del movimento ribelle “panturanista”, venendo poi
ucciso dai bolscevichi
All’inizio del nuovo secolo, a Salonicco, Talaat Pascià, già ministro
degli Interni, aveva fondato il CUP (Comitato per l’Unione e il
Progresso), un organismo che in seguito avrebbe costituito il nucleo
fondamentale del Partito dei Giovani Turchi. Il CUP, che poteva fare
conto su un’organizzazione ed una struttura interni piuttosto solide,
praticava rituali di cooptazione molto simili a quelli di una vera e
propria setta segreta. La procedura di affiliazione alla società fondata
da Talaat contemplava infatti un pittoresco cerimoniale che culminava
con un giuramento solenne sul Corano e su un’arma da fuoco.
Il terzo personaggio chiave del Partito dei Giovani Turchi, Mustafa
Kemal, si formò anch’egli nell’ambiente più consono, cioè nell’esercito
(ai primi del Novecento, le forze armate rappresentavano una delle poche
istituzioni efficienti dell’impero). Kemal ebbe modo di scalare
abbastanza velocemente tutti i gradini della gerarchia militare e
politica, approfondendo nel contempo i suoi studi. Ammesso nel 1897 alla
Scuola Cadetti di Monastir e passato, due anni dopo, alla Scuola di
Guerra di Harbiye (Costantinopoli), Kemal “il Perfetto” (appellativo che
si era guadagnato da ragazzo per le sue doti di eccellente e
carismatico studente) assorbì molto rapidamente le nuove idee diffuse in
Turchia dagli ufficiali ottomani che avevano avuto modo di frequentare
le accademie militari straniere, soprattutto quelle tedesche e francesi.
Nel 1904, completata la sua formazione militare alla Scuola di Harbiye,
Kemal ottenne il grado di capitano.
Nel 1905, proprio a causa delle sue idee liberali, il suo nome fu
iscritto nel libro nero della polizia segreta del sultano Abdul Hamid.
Sospettato di idee rivoluzionarie, Kemal fu quindi trasferito per
punizione a Damasco dove tuttavia riuscì ad entrare in contatto con
altri piccoli gruppi sovversivi e con i capi della neonata
organizzazione clandestina che si batteva per l’indipendenza nazionale
araba. Preoccupato di dare alla Turchia, entro tempi molto brevi, un
assetto moderno e unitario e di scongiurare lo spettro della
disgregazione, Mustafa Kemal, che era progressista ma anche un fervente
patriota, prese le distanze dalle organizzazioni separatiste e
anti-turche e nel 1905, aDamasco, fondò il movimento segreto
nazionalista chiamato Vatan ve Hürriyet (Patria e Libertà). E
sempre nel 1907, egli riuscì a rientrare in Macedonia per unirsi agli
uomini del Comitato Unione e Progresso che stavano progettando un colpo
di stato contro il Sultano. Nonostante il suo ascendente e il suo
naturale acume politico, Kemal non raggiunse, tuttavia, i più alti gradi
della gerarchia del Comitato, forse a causa della sua riluttanza nel
rispettare i rituali segreti e quasi mistici di questa organizzazione.
Quando nel 1908 scoppiò la violenta e riuscita sommossa contro il
Sultano, Mustafa Kemal, che non aveva ancora responsabilità politiche di
primo piano all’interno del partito dei Giovani Turchi, si limitò a
svolgere un ruolo puramente militare in difesa del nuovo regime contro i
tentativi di restaurazione orditi da Abdul Hamid.
Dopo il 1909, con la deposizione di Hamid, la figura del sultano fu
drasticamente ridimensionata e l’impero ottomano poté imboccare la via
di un processo di occidentalizzazione. Negli anni che precedettero lo
scoppio della Prima Guerra Mondiale, Mustafa Kemal rimase abbastanza
distante dalla politica, occupandosi soprattutto dell’ammodernamento
dell’esercito. In quel periodo strinse rapporti di amicizia con i capi
del comando militare tedesco e favorì l’arrivo in Turchia di consiglieri
militari di Berlino. Questa scelta di campo portò come conseguenza ad
un irrigidimento del dialogo diplomatico tra Costantinopoli e le altre
potenze, in primo luogo conla Russiache, al pari della Francia
dell’Inghilterra, non vedeva di buon occhio infiltrazioni tedesche di
alcun tipo in Turchia e nel Vicino Oriente.
Il biennio 1911-1913 fu un periodo assai difficile per l’impero. Dopo
aver ingaggiato la guerra con il Regno d’Italia, la Sublime
Portadovette affrontare, nel corso della Prima Guerra Balcanica del
1912, la coalizione formata da Bulgaria, Grecia, Montenegro e Serbia,
subendo una dura sconfitta e dovendo sottoscrivere, il 30 maggio 1913,
l’umiliante trattato di pace di Londra. La coalizione balcanica
sottrasse infatti a Costantinopoli la quasi totalità dei territori
europei ancora in suo possesso. Pochi mesi dopo (il 29 giugno 1913),
l’impero ottomano si trovò nuovamente coinvolto nella Seconda Guerra
Balcanica, (questa volta furono Montenegro, Serbia, Romania, Grecia e
Turchia a schierarsi contro la Bulgaria), nel corso della quale, grazie
all’abilità dimostrata da capi militari come Enver, i turchi riuscirono a
riacquistare alcune porzioni della Tracia, compresa la città di
Adrianopoli. Fu proprio in occasione di questo conflitto che Enver prese
in pugno la situazione guidando una rivolta interna contro la Sublime
Porta.Isuoi seguaci assassinarono il ministro della Guerra, assumendo il
controllo dell’importante dicastero che il 4 gennaio 1914 fu affidato a
Enver. Leader del Movimento come Talaat, Halil Bey e Mehmed Jevad
assunsero anch’essi ruoli strategici all’interno della nuova
nomenclatura ottomana. Fu comunque immediata cura di Enver e dei suoi
compagni lasciare l’incarico di Primo Ministro ad un uomo totalmente
estraneo al movimento, il principe Said Halim che, in qualità di gran visir
e in virtù delle sue doti di rispettabilità, conferì prestigio e
attendibilità al nuovo governo riformatore. Conquistato il potere, il
Partito dei Giovani Turchi dovette iniziare a confrontarsi con le altre
potenze europee che continuavano a considerare l’impero ottomano come
una potenziale terra di conquista.
Molti gruppi industriali e finanziari europei si dichiararono ben
disposti a fornire alla Turchia i mezzi e le attrezzature di cui
necessitava, anche se in cambio pretendevano di controllarne lo sviluppo
economico attraverso la concessione e la gestione diretta delle
industrie e delle infrastrutture, come quelle ferroviarie, o anche
mediante forme di appalto esclusive e a lungo termine. D’altra parte,
l’impero non possedeva ancora università e scuole nelle quali formare
tecnici e burocrati specializzati. Il suo vasto territorio produceva
soltanto manodopera scarsamente specializzata e una grande massa di
poveri agricoltori e pastori analfabeti. Quindi, se il governo
desiderava nuove industrie o nuove ferrovie doveva giocoforza rivolgersi
agli europei.
I gruppi finanziari occidentali potevano, inoltre, mantenere un
preponderante controllo sulle stesse casse dello Stato ottomano, che non
era in grado né di gestire la bilancia dei pagamenti, né di condurre i
propri affari in maniera proficua. Nel 1875, la Sublime Portasi era
accorta di non poter tenere fede ad accordi concernenti il suo debito
pubblico, ammontante ad oltre 1.000 milioni di dollari e, nel 1881, il
Sultano era stato costretto ad emanare un decreto con cui affidava agli
europei la gestione del deficit economico del governo turco:
un’umiliazione che non andò giù né alla vecchia classe dirigente, né ai
giovani nazionalisti turchi. Fu creato uno speciale bureau,
diretto da operatori occidentali, autorizzato a controllare quasi un
quarto dell’economia dell’impero. Da questo organismo dipendevano tutte
le decisioni in materia di dazi doganali per prodotti di largo consumo,
come gli alcolici, il sale, il pesce e perfino i francobolli. In questo
modo, la Sublime Porta non era più padrona del proprio tesoro e delle
proprie dogane. La pressoché totale schiavitù dell’impero nei confronti
del potere finanziario, economico e politico straniero trovava la sua
esemplificazione più evidente nelle capitolazioni, un sistema
che era visto come fumo negli occhi dai Giovani Turchi. Si trattava di
un particolare tipo di accordo, o meglio un compromesso, che permetteva
agli europei di mantenere posizioni economiche assolutamente
privilegiate all’interno dell’impero, e che per numerose ragioni poneva
gli stessi stranieri sotto l’esclusiva giurisdizione dei rispettivi
consolati, anziché sotto quella delle autorità ottomane.
Per uscire da questa deprecabile quanto pericolosa situazione di
sudditanza e per garantire all’impero una nuova autonomia politica ed
economica, il Partito dei Giovani Turchi – e nella fattispecie Enver –
decise di puntare tutte le proprie energie su un progetto relativamente
nuovo: cercare di allearsi con una forte potenza straniera,
possibilmente non confinante, che, in cambio della concessione di
particolari favori, accettasse di ricoprire il ruolo di unica nazione
protettrice dell’integrità economica, politica e territoriale turca,
almeno fino a quando l’impero non fosse stato in grado di svincolarsi
dalla sua tutela e svilupparsi con le proprie forze.
Fu proprio in quest’ottica che Enver e il suo partito avviarono accordi segreti con la Germania del kaiser
Guglielmo II (1859-1941), l’unica nazione europea che, in virtù della
sua forza economica, delle sue malcelate mire espansionistiche in
oriente e della rivalità militare che la contrapponeva alla Russia e
all’Inghilterra, poteva garantire un appoggio concreto e duraturo.
Inizialmente, i tentativi di approccio con Berlino non furono tuttavia
coronati da successo. Il 22 luglio 1914, il gran visir
autorizzò Enver (che aveva soggiornato diverso tempo a Berlino) a
contattare l’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, Hans von Wangenheim.
Questi però, dopo essersi consultato con il proprio governo, respinse
la proposta non ritenendola interessante.
La delusione di Enver venne però compensata da un fatto nuovo e per
certi versi decisivo ai fini di un possibile avvicinamento tra Germania e
Turchia. Alla fine del luglio 1914, il governo inglese – dietro
pressioni del Primo Lord dell’Ammiragliato Sir Winston Churchill
(1874-1965) – decise di bloccare la consegna di due navi da guerra (le
corazzate Reshadieh e Sultan Osman I) che erano state commissionate dal governo turco ai cantieri navali britannici Vickers & Armstrong.
Questa mossa, che suscitò le vivaci proteste di Costantinopoli, indusse
la Germania a riesaminare la proposta di Enver, favorendo una ripresa
dei colloqui. Questi furono riavviati con la benedizione dello stesso kaiser
Guglielmo II che vedeva nell’operato di Churchill (deciso a
rinforzarela Royal Navy in funzione antitedesca) un chiaro atteggiamento
di ostilità. Come da copione, infatti, le due unità da guerra
sequestrate dal governo inglese vennero poi messe a disposizione della
flotta da guerra di Sua Maestà.
Il 28 luglio (proprio il giorno in cui l’Austria-Ungheria dichiarò
guerra alla Serbia, provocando la mobilitazione generale dell’esercito
russo) i leader ottomani inviarono a Berlino una bozza di trattato che
fu subito sottoposta all’attenzione del Cancelliere Theobald von
Bethmann Hollweg. Quest’ultimo – nonostante i traumatici cambiamenti che
si erano verificati all’interno del quadro politico e diplomatico
europeo – si dimostrò contrario ad un impegno troppo compromettente e
foriero di scarsi vantaggi, almeno perla Germania. Hollwegreputava
infatti un eventuale apporto militare della Turchia contro l’Inghilterra
ela Russiacome del tutto irrilevante, opinione d’altra parte condivisa
anche da molti esperti militari prussiani dell’epoca. Il 1° agosto,
tuttavia, il Ministro della Guerra turco Enver ebbe un decisivo
colloquio con l’ambasciatore von Wangenheim e con il capo della missione
militare tedesca in Turchia, generale Otto Liman von Sanders, nel corso
del quale le parti concordarono una nuova e più dettagliata bozza di
intesa. E fu proprio durante quell’incontro che i parlamentari turchi
appresero la notizia della dichiarazione di guerra della Germania alla
Russia.
Il 5 agosto, quando ormai la Germania e l’Austria si trovavano in
stato di belligeranza con Francia, Inghilterra e Russia, il capo di
Stato Maggiore dell’Esercito tedesco Erich von Falkenhayn si disse
finalmente favorevole ad un’alleanza militare con la Turchia: opinione
subito avallata dal kaiser. Von Falkenhayn fin dalle prime
avvisaglie di guerra – e cioè subito dopo l’attentato di Serajevo ai
danni dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria (28 giugno 1914) –
aveva attribuito “una grande importanza” ad una eventuale
entrata in guerra della Turchia a fianco dell’Austria-Ungheria e della
Germania. Innanzitutto perché l’impero ottomano avrebbe potuto sbarrare
l’afflusso dei rifornimenti da parte delle ricche colonie dell’impero
britannico all’Inghilterra e, in secondo luogo, perché avrebbe obbligato
le potenze alleate di Londra – Russia e Francia – a distogliere molte
forze, di terra e di mare, dai confini tedeschi per avviarle verso il
Caucaso e l’area del Mediterraneo.
Il trattato segreto stipulato da Turchia e Germania contemplava, tra
l’altro, la pianificazione di una comune strategia difensiva e offensiva
da attuarsi in collaborazione con l’Austria, potenza che aderì
anch’essa al patto. Secondo i termini di questo accordo, l’impero
ottomano sarebbe dovuto entrare nel conflitto a fianco degli Imperi
Centrali non appenala Russiaavesse aperto le ostilità contro questi
ultimi. Tuttavia, per dare tempo alla sua lenta macchina da guerra di
mettersi in moto, il governo di Costantinopoli ebbe facoltà di
dichiararsi ufficialmente neutrale anche dopo l’apertura delle ostilità
da parte dell’Austria e della Germania, per proseguire con relativa
calma e sicurezza la sua mobilitazione generale.
Nonostante quest’ultima clausola, ad accelerare il processo destinato
a trascinare in guerra la Turchia intervenne un fatto nuovo. Il 7
agosto 1914, dietro ordine segreto dello stesso kaiser, l’Ammiragliato germanico dispose che due sue unità (l’incrociatore pesante Goeben e l’incrociatore leggero Breslau, che si trovavano in
navigazione nel Mediterraneo occidentale) effettuassero alcuni attacchi
contro alcune basi francesi in Algeria, per poi fare rotta sui
Dardanelli, cioè in acque interdette alle unità militari di tutto il
mondo da un vecchio trattato internazionale firmato anche dalla
Germania. Il 3 agosto, dopo avere bombardato i porti francesi di Bona e
Philippeville ed essersi poi spostate a Messina per rifornirsi di acqua e
carbone, le navi tedesche puntarono verso l’Egeo e il Mar di Marmara.
Venuto al corrente del disegno tedesco, l’Ammiragliato britannico inviò
subito una sua squadra navale – agli ordini dell’ammiraglio Sir Berkeley
Milne – incontro alle due navi nemiche, ma l’agguato che avrebbe dovuto
svolgersi poco lontano dalla costa ionica calabrese fallì. L’ammiraglio
tedesco Wilhelm Souchon, che comandava la squadra germanica riuscì
infatti a sfuggire all’intercettazione nemica con una repentina manovra,
raggiungendo senza ulteriori problemi il Mar di Marmara.
Per evitare un’immediata dichiarazione di guerra da parte di
Inghilterra, Francia e Russia, il governo di Costantinopoli decise di
acquisire le due unità. E da parte sua l’Inghilterra cercò di fare buon
viso a cattivo gioco, compiendo sforzi per assicurarsi almeno la
neutralità dell’impero ottomano. Londra arrivò ad offrire al gran visir garanzie circa l’indipendenza e l’integrità del suo impero, promettendogli larghe concessioni per quanto concerneva le capitolazioni.
Questo tentativo di riavvicinamento giunse però troppo tardi. L’8
settembre, la Sacra Porta annunciò l’abrogazione unilaterale delle capitolazioni
e dei relativi privilegi concessi alle potenze straniere, comprese
Germania e Austria, anche se poche settimane più tardi queste ultime due
nazioni riotterranno nuovamente i loro vantaggi. Il 29 ottobre, il
governo turco ruppe definitivamente gli indugi, inviando nel Mar Nero
alcune sue navi da guerra, appoggiate dagli incrociatori Goeben e Breslau, per
bombardare le fortezze russe di Odessa, Sebastopoli, Nikolajev,
Novorossijsk e Teodosia. Mossa che, il 1° novembre 1914, costrinse la
Russia a dichiarare guerra alla Turchia: dichiarazione che il 5 novembre
fu imitata anche dai governi di Parigi e Londra. Enver e il partito dei
Giovani Turchi avevano raggiunto – anche se con molta fatica – il loro
scopo, trascinando tuttavia il loro paese in un’avventura altamente
rischiosa. Il 14 novembre, il Sultano di Costantinopoli, nella sua veste
di Califfo, proclamò la Guerra Santa (jihad) contro tutti i
Paesi ostili alla Turchia. Ma questa solenne dichiarazione, seguita
nella capitale da grandi manifestazioni popolari di giubilo, avrebbe
realmente sortito l’effetto sperato dal Califfo? In una sua
corrispondenza privata, l’ambasciatore tedesco si dichiarò dal canto suo
piuttosto scettico, osservando che “la jihad avrebbe convinto soltanto una piccola parte dei mussulmani sparsi per il mondo a schierarsi con gli imperi centrali”. Profezia destinata a rivelarsi esatta.
La partecipazione dell’impero ottomano alla Prima Guerra Mondiale si
sviluppò assai male ed ebbe esiti disastrosi. Va ricordato, infatti, che
proprio in occasione del conflitto, nel 1915, il governo turco avviò il
sistematico annientamento fisico della minoranza cristiana armena (di
cui parleremo più avanti) che, già in passato, era stata sottoposta a
crudeli vessazioni. E’ stato calcolato che tra il 1915 e il 1918, le
forze armate e di polizia ottomane, appoggiate da reparti curdi, abbiano
sterminato non meno di un milione di armeni. Ma torniamo alla guerra.
Nonostante il fallimento dello sbarco anglo-britannico a Gallipoli
(1915) e le alterne vicende belliche che, tra il 1914 e il 1916,
infuocarono gli incerti fronti macedone caucasico e mesopotamico, lo
scacchiere del Sinai e le regioni arabe dell’Hegiaz e dello Yemen, a
partire dall’inizio del 1917, le armate britanniche, francesi e quelle
russe (almeno fino al marzo dello stesso anno, cioè in concomitanza con
lo sgretolamento del potere zarista) ripresero l’iniziativa, avanzando
su tutti i fronti ed infliggendo agli eserciti della Sacra Porta dure
sconfitte. Dopo avere conquistato Baghdad (marzo 1917), Gaza, Bersheeva e
Gerusalemme (dicembre 1917) ed avere consolidato, grazie anche al
contributo italiano, il fronte di Salonicco, nell’autunno del 1918 le
forze dell’Intesa costrinsero la Turchia, ormai ridotta alla rovina,
alla resa."
Alberto Rosselli ha scritto un ottimo articolo.
Per un appassionato di storia bizantina come me, questo articolo è un invito a nozze.
L'Impero Ottomano si formò anche grazie alla complicità dell'Occidente.
Infatti, nel 1204 Costantinopoli fu saccheggiata (con la IV Crociata) e l'Impero Bizantino fu sostituito da uno Stato fantoccio, l'Impero Latino d'Oriente, con un sovrano fantoccio Baldovino di Fiandra, un sovrano assoggettato a Venezia.
Questo indebolì l'Impero Bizantino, che era sempre stato un ostacolo per i Turchi.
Poi, nel 1261, i Bizantini tornarono al potere e restaurarono il loro impero con l'imperatore Michele VIII Paleologo.
Però, per i Bizantini non ci fu pace.
Ci furono delle guerre civili, come quella in Asia Minore, sotto il regno dell'Imperatore Andronico II (1282-1328) o quella sotto il regno dell'imperatore Giovanni V (1341-1376/1379-1391).
L'Occidente non mosse un dito per aiutare gli imperatori, favorendo così i Turchi che iniziarono a conquistare le terre dell'impero.
Lo stesso accadde nel 1444, durante la Battaglia di Varna, battaglia contro i Turchi che sarebbe stata decisiva.
L'imperatore Giovanni VIII (1392-1448) fu lasciato solo, nonostante egli fosse andato di persona al Concilio di Ferrara e Firenze (1417-1431) e fosse stato disponibile alla riunificazione tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa.
Purtroppo, fu lasciato solo anche il suo successore, l'ultimo imperatore Costantino XI (1405-1453).
Questi si trovò con i Turchi del sultano Mehmet II alle porte e furono pochi dall'Occidente ad intervenire in suo aiuto.
Il 29 maggio 1453, l'Impero Bizantino cadde e l'Impero Ottomano si prese Costantinopoli, le cui strade furono rosse di sangue.
Molti furono ammazzati dai Turchi ed altri furono deportati.
Per tre giorni, Mehmet lasciò ai suoi soldati, i giannizzeri, ogni libertà di uccidere, saccheggiare e stuprare donne e bambini.
Stando alle cronache, si poterono contare circa 40.000 cadaveri e 50.000 persone furono deportate.
Nella Basilica di Hagia Sophia, ci fu il fatto peggiore.
Ivi si stava celebrando la Messa.
Ad un certo punto, i giannizzeri entrarono nella chiesa sfondando la porta e sgozzarono i preti che celebravano la Messa, ammazzarono le donne che pregavano e stuprarono i bambini sugli altari.
Alla sera dello stesso giorno, la chiesa divenne una moschea.
Costantinopoli venne ribattezzata con il nome di Istanbul ed il sultano Mehmet II assunse il nomignolo di Fatih, ossia "Il Conquistatore".
Egli progettò anche la conquista di Roma e la trasformazione della Basilica di San Pietro in moschea.
Già aveva inventato il nuovo nome turco da dare a Roma ed era Kizil Elma, ossia "Mela rossa".
Questo avvenne sotto gli occhi di un Occidente che iniziò a fare commerci con i Turchi.
Inoltre, nel 1526 ci fu la battaglia di Mohacs tra i Turchi ed cristiani.
Questi ultimi, però, pensavano più a darsele tra loro (essendosi divisi tra protestanti e cattolici) ed i Turchi ebbero la meglio.
Se l'Occidente si fosse comportato in un altro modo, forse, certe cose non sarebbero avvenute e (naturalmente, forse) non ci sarebbe stato neppure il Genocidio armeno.
Purtroppo, ancora oggi noi non abbiamo imparato certe lezioni.
Cordiali saluti.
The Liberty Bell of Italy, una voce per chi difende la libertà...dalla politica alla cultura...come i nostri amici americani, i quali ebbero occasione di udire la celebre campana di Philadelphia nel 1776, quando fu letta la celeberrima Dichiarazione di Indipendenza. Questa è una voce per chi crede nei migliori valori della nostra cultura.
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Il peggio della politica continua ad essere presente
Ringrazio un caro amico di questa foto.
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