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sabato 8 settembre 2012

La Comunità di Destino: principo vitale delle società di Gustave Thibon (1969)

Cari amici ed amiche.

Leggete questo testo di Gustave Thibon (nella foto, 1903-2001) che è stato pubblicato su Facebook nella pagina Comunità di Destino:


"Noi crediamo che la vita delle società sia sottomessa, come quella degli individui, ad un certo numero di leggi immutabili.
La comunità di destino è la prima di queste leggi: laddove essa scompare, i raggruppamenti umani cadono in preda alla sclerosi e all'anarchia. Certo, le leggi che reggono la vita sociale non s'impongono in maniera così immediata e brutale come quelle della vita organica: una collettività, i cui membri non sono più legati tra loro dalla comunità di destino, soccombe meno rapidamente di un corpo privato dell'aria, ma la sua asfissia, pur essendo più lenta, non è meno certa.

1. Che cosa è la comunità di destino?
Il destino di un individuo è l'insieme degli avvenimenti che toccano l'esistenza di tale individuo. Si può dunque dire che esiste comunità di destino tra due o più uomini quando questi uomini condividono spiritualmente o materialmente la stessa esistenza, quando sono sottomessi agli stessi rischi o perseguono gli stessi fini, ecc.
Ma queste indicazioni rimangono assai vaghe e danno adito all'equivoco. Ci sembra capitale distinguere tra due forme molto differenti della comunità di destino.
a ) La comunità di somiglianza
Esiste, in un primo senso, comunità di destino tra un contadino della Provenza e un contadino della Piccardia, tra un operaio metallurgico della Fiat e uno della Renault, tra un marinaio che lavora su una certa nave che percorre le rotte del Pacifico e un marinaio occupato su una linea mediterranea, ecc.... Tutti questi uomini appartengono alla stessa classe sociale, fanno gli stessi lavori e conducono pressappoco lo stesso genere di vita. «I loro destini si assomigliano».
E' su una tale comunità di somiglianza che si appoggiano certi movimenti sociali come i sindacati operai o padronali e soprattutto l'«ideologia di classe».
b) La comunità d'interdipendenza o di solidarietà reciproca
Per comune che sia il loro destino, gli uomini di cui abbiamo ora parlato restano profondamente separati gli uni dagli altri.  Se il contadino provenzale vede il suo raccolto distrutto dall'inondazione, se l'operaio torinese è vittima di una disgrazia, se il marinaio del Pacifico affonda con la sua nave, il contadino piccardo, l'operaio di Billancourt e il marinaio che naviga nel Mediterraneo non ne saranno direttamente toccati.  Prendiamo invece due contadini che coltivano in società lo stesso podere, oppure il macchinista e il meccanico di uno stesso treno, o due marinai imbarcati sulla stessa nave; questi uomini non vivono più soltanto l'uno «come» l'altro, vivono l'uno «per mezzo» dell'altro: i loro destini non sono più soltanto «simili», sono «solidali».
Questa solidarietà dei destini, inoltre, non implica necessariamente la loro somiglianza: il mozzo e il capitano a bordo della stessa nave, l'operaio e il padrone in un'impresa sana, il cittadino e il governante in uno Stato ben costituito occupano situazioni sociali diversissime e non vivono nello stesso modo; essi sono tuttavia intimamente dipendenti l'uno e l'altro: mozzo e capitano, operaio e padrone, cittadino e governante soffriranno o moriranno insieme se la nave affonda, se l'impresa fallisce o se la nazione subisce dei rovesci.  Questa comunità di destino tra esseri che, attraverso la loro diversità di situazione e di vocazione, rimangono strettamente dipendenti gli uni dagli altri, conferisce ai raggruppamenti umani il loro carattere «organico». Così, in un corpo vivente, gli organi più diversi per natura e per funzione vivono, si sviluppano, soffrono e muoiono insieme. L'esempio tipico di una tale comunità è quello della famiglia, la cui stessa struttura implica, tra i diversi esseri che la compongono, un ritmo di scambi quasi altrettanto intimi e continui di quelli che intercorrono tra le membra di uno stesso corpo.  La famiglia costituisce la comunità organica per eccellenza.
E' d'altronde significativo constatare che ogni forma di società rimane sana e vitale nella misura in cui si rende affine alla famiglia: non per caso il termine padrone deriva da padre, non per caso il re era detto padre del popolo e la Chiesa è chiamata madre dei fedeli (la comunione dei santi all'interno della Chiesa è la più alta forma di comunità di destino...).

Chiesa è la più alta forma di comunità di destino...).
Notiamo di sfuggita che, ben più che i legami di sangue, è l'interdipendenza dei destini a costituire l'unità familiare.  L'esperienza prova che i più stretti legami di parentela non bastano più a mantenere uniti degli esseri che vivono lontani gli uni dagli altri e non mettono più in pratica il quotidiano scambievole aiuto. La vecchia domestica che è sempre vissuta nella casa ed ha allevato i bambini, è più vicina a noi e fa parte della famiglia più di una parente lontana.  Val meglio avere un amico vicino che un parente lontano, dicono i contadini...
Questa seconda forma della comunità di destino ci sembra infinitamente più importante e più feconda della prima: è questa a costituire il principio vitale, l'anima delle società.  Così come il cuore di Pietro è più legato al cervello di Pietro che al cuore di Paolo, allo stesso modo il fanciullo è più vicino a suo padre e a sua madre che non agli altri fanciulli, il mozzo è più vicino al capitano che comanda la nave sulla quale lavora che non ai mozzi delle altre navi, il contadino di un villaggio è più vicino all'artigiano dello stesso villaggio che non ai contadini di un'altra regione, ecc.  La comunità di interdipendenza produce l'unità dei raggruppamenti umani.
La comunità di somiglianza invece, per poco che si eriga in assoluto, genera la divisione e il conflitto: con l'unire nello stesso esclusivismo e nello stesso spirito di rivendicazione i membri di una stessa professione o di una stessa casta, fa insorgere gli uni contro gli altri organismi sociali fatti per vivere gli uni per mezzo degli altri.  Qui sta il vizio di certe associazioni professionali costituite a detrimento delle vere comunità naturali, e soprattutto quello della mistica di classe.  Riassumendo, la vera comunità di destino può includere la somiglianza dei destini (esiste, come abbiamo visto, comunità di destino tra gli operai di una stessa fabbrica e i contadini di uno stesso villaggio), ma non la esige; esige, al contrario, la solidarietà organica, l'esistenza di legami vitali tra gli uomini. La prova più lampante dell'importanza vitale della comunità di interdipendenza sta nel fatto che, dovunque essa tenda ad abolirsi, le società non tardano a sfasciarsi.  Le monarchie e le feudalità sono crollate dal momento in cui i monarchi e i signori non hanno più vissuto con il popolo e per il popolo; il padrone che non condivide più il destino dei suoi operai diventa indifferente o odiato; i capi militari che vivono lontano dai loro soldati inaridiscono l'entusiasmo e la disciplina degli eserciti, ecc.  L'assenteismo, che in tutti i campi ha prodotto così profondi guasti, non è altro che il rifiuto della comunità di destino.  Dal momento in cui gli uomini non si sentono più dipendenti gli uni dagli altri nel seno di un'unità che li supera (famiglia, impresa, nazione, chiesa, ecc.) si raggruppano, secondo la somiglianza, in frazioni inorganiche che  reciprocamente si divorano. Si hanno tanti più sindacati padronali o operai quanti meno le imprese sono sane, tante più rivendicazioni di classe quanto minore è la comunione nazionale, ecc. La comunità di destino è il barometro della vitalità e della stabilità delle società.

2. Benefici della comunità di destino.
La comunità di destino presenta vari vantaggi psicologici che influiscono felicemente sulla vita sociale.  In primo luogo favorisce l'amore che è l'anima di ogni unità sociale. E' chiaro che noi amiamo più facilmente l'essere che vive al nostro fianco e condivide le nostre gioie e i nostri rischi, che non un estraneo.  La solidarietà crea un clima favorevole alla simpatia.  Per limitarci ad un solo esempio, pensiamo a quanti che per la loro classe sociale o per le loro funzioni vivevano da estranei, quasi impermeabili gli uni agli altri, hanno imparato a conoscersi e ad amarsi nella vita comune delle trincee nella prima guerra mondiale e nei campi di battaglia durante l'ultima guerra. Inoltre - e queste due realtà ne costituiscono una sola - essa neutralizza l'egoismo, lo piega al servizio del bene comune, giunge a trasformare in fattore di legame uno stato d'animo che, preso in se stesso, è un agente universale di separazione.
L'interdipendenza, infatti, crea quasi automaticamente l'aiuto scambievole. Non c'è stimolo migliore alla dedizione che il sentirsi personalmente toccati dalla disgrazia del proprio simile. I commercianti dei nostri piccoli paesi di una volta, la cui prosperità dipendeva unicamente dalla clientela dei contadini del luogo, sapevano, per organizzare il proprio futuro, consentire larghi crediti alle famiglie oneste e bisognose.  Ne ho visti, nei giorni di grandine, scrutare il cielo con un'angoscia pari a quella dei coltivatori; essi non ignoravano che il loro giro d'affari dipendeva, anch'esso, dal capriccio degli elementi. L'impiegato delle poste o l'insegnate, invece, senza essere moralmente inferiori ai commercianti, contemplavano con indifferenza la grandine cadere: il loro stipendio mensile, il loro «standing» di vita non ne erano toccati.
Quando La Fontaine scrive: «Se il tuo vicino viene a morire, è su di te che cade il fardello...» questi versi presuppongono l'esistenza di destini solidali.  Al limite, ciascuno dei due fratelli siamesi non aveva bisogno di lezioni di morale per amare il suo «prossimo» come se stesso...
«Uno stato sociale è sano nella misura in cui tende a diminuire la tensione tra l'interesse e il dovere, è malsano nella misura in cui tende ad aggravarla».
A coloro che, per amore di elevazione e di purezza morale, pretenderebbero il contrario, noi risponderemmo: preferite il nulla all'imperfezione?
La soppressione della comunità di destino, creando una situazione in cui l'aiuto reciproco e la cura del prossimo non sono più possibili che sotto la forma di un disinteresse eroico, costituisce il peggior solvente dei legami sociali, in quanto finisce di fatto per abbandonare le masse umane, che non sono composte né di eroi né di santi, a tutti i risucchi di un egoismo senza contrappeso.  Queste vedute vengono d'altronde fin troppo confermate dallo spettacolo della società attuale. Il sentimento della comunità di destino permette anche all'individuo di superarsi nel tempo e nello spazio: lo inclina verso quelle imprese a lunga scadenza che sono come germi di eternità nella vita delle società.  Opere come la costruzione di cattedrali, o l'elaborazione millenaria della liturgia implicavano una continuità vivente tra gli individui nello spazio e le generazioni nel tempo: nelle epoche in cui questa continuità scompare, gli uomini disperdono i loro sforzi e producono soltanto opere di corto respiro, senza legame e senza unità...
3. Condizioni della comunità di destino
A) «La gerarchia e la diversità degli organismi sociali» costituiscono una delle basi della comunità di destino.  Riprendiamo il nostro paragone biologico. Gli organi di un corpo non sono uguali tra di loro; alcuni hanno dei «privilegi»: il cervello, per esempio, si riposa più dello stomaco, e questo più del cuore e dei polmoni, e sono appunto queste «ineguaglianze» che, convergendo verso un fine comune, creano l'unità dell'organismo.  Lo stesso accade per il «corpo» sociale; la sua unità è fondata sull'ineguaglianza e la gerarchia delle funzioni; è in epoche come il Medioevo, in cui le differenze sociali e i privilegi erano portati alla loro suprema espressione, che gli uomini hanno vissuto con la massima profondità la loro comunità di destino: la gioia del popolo alla nascita di un figlio di re, la partecipazione di tutte le professioni, di tutte le classi alla costruzione di una cattedrale o alla partenza per una Crociata costituiscono un'abbastanza chiara testimonianza di questa unanimità sociale.  Si è del resto troppo dimenticato, nel nostro secolo di piattezza egualitaria, che le ineguaglianze e i privilegi non hanno in sé nulla che possa ferire o indignare i membri inferiori della gerarchia: basta che questi si sentano legati ai loro signori da un'anima e un fine comuni.  «Finché l'unità persiste, l'ineguaglianza non è offensiva». Nelle epoche sane del feudalesimo, il servo chino sulla gleba non era geloso del signore, il quale, senza lavorare con le proprie mani, difendeva tutto il feudo con la sua spada, più di quanto il cuore, che batte senza sosta, non invidi il riposo notturno del cervello. Ho conosciuto ancora alcuni vecchi abitanti di villaggio che parlavano, con un accento di fierezza «personale», della nobiltà e del lusso del signore del luogo. Quella nobiltà e quel lusso infatti, in un certo senso, appartenevano anche a loro: essi vi partecipavano nell'anima di quella realtà viva che era la comunità contadina. L'invidia nasce d'altronde dalla rottura della comunità di destino.  Invidiare qualcuno significa confessare implicitamente che si è separati da lui. Laddove c'è comunione, non può esserci invidia, poiché si è una cosa sola con il prossimo, e il suo successo, la sua felicità, sono anche i nostri. L'invidia nasce e s'accresce nella misura in cui il legame vitale si allenta e l'individuo, separato dalle sue fonti, riduce l'universo a se stesso.  Allora lo spettacolo del successo o della felicità altrui, dei quali nessuna arteria nutritizia gli comunica il calore e la pienezza, gli sembra un'offesa personale. «Si invidia necessariamente ciò che non si ha modo di condividere»; al limite, l'uomo straniero a tutti gli uomini è il nemico di tutti gli uomini. La comunità di destino non ha dunque nessun rapporto con l'egualitarismo, ne è anzi l'antidoto. Laddove essa esiste veramente, neppure la più dura disciplina sociale genera la rivolta. Le vecchie domestiche d'una volta, così devote al loro padroni, lavoravano ed obbedivano più strettamente delle attuali «collaboratrici familiari», ma esisteva comunità di destino tra loro e i loro padroni: facevano parte della casa, dove le si teneva fino alla morte.  Lo stesso accadeva nell'esercito.  I poteri degli ufficiali sui soldati sono infinitamente più estesi in tempo di guerra, in quanto i capi condividono la sorte dei loro uomini, mentre in tempo di pace, per allentata che sia la disciplina, non esiste alcuna solidarietà tra il destino del soldato, civile trapiantato in caserma, e quello dell'ufficiale che lo comanda.  Così è appunto nei periodi di pace o di allentamento della disciplina che l'antimilitarismo maggiormente fiorisce.


B) «L'esistenza di piccoli gruppi umani relativamente stabili nel tempo e nello spazio» ci sembra essere una condizione non meno essenziale della comunità di destino.  In sé, e quale che sia la forma di società nella quale vivono, tutti gli uomini sono solidali gli uni con gli altri.  Ma la comunità di destino dà i suoi frutti soltanto se è sentita, vissuta dal di dentro, soltanto se può esprimersi attraverso la coscienza e il sentimento del «noi». Ora, questo passaggio dall'io al noi postula d'esistenza di raggruppamenti relativamente ristretti.  La comunità di destino è vissuta, per eccellenza, nella famiglia; ed è anche vissuta tra i membri dell'equipaggio di una stessa nave, tra i lavoratori di una stessa piccola impresa, tra gli abitanti di uno stesso villaggio.
Lo è molto meno tra gli innumerevoli navigatori di una compagnia marittima, tra i membri di un'immensa impresa anonima, tra gli abitanti di una regione...Da ciò l'importanza vitale delle cellule sociali di base: sarebbe necessario che la società fosse costruita in maniera tale che ci si potesse innalzare, di piccolo gruppo in piccolo gruppo, fino al vertice della gerarchia, senza che a nessun livello il contatto umano andasse perduto. L'annientamento delle piccole comunità naturali in cui gli uomini si sentono responsabili gli uni degli altri, a profitto di un funzionarismo capitalista o statale, mina dalla base le virtù sociali.  La comunità di destino «vissuta» è legata all'esistenza di un «prossimo»: occorre che l'uomo possa vedere e toccare gli esseri di cui è solidale. «I nostri contadini amano i loro casali - dice benissimo Vauvenargues -; i romani erano presi da passione per la loro patria finché questa non era che un piccolo borgo; quando divenne più potente, l'amore di patria non fu più tanto vivo; una città, signora dell'universo, era troppo vasta per il cuore dei suoi abitanti. Gli uomini non sono nati per amare le grandi cose». O piuttosto, sono nati per amare le grandi cose attraverso le piccole. Gli individui senza un luogo, senza una famiglia, senza un mestiere vivo, coloro che non hanno da difendere, come dice Péguy: «Il loro focolare e il loro fuoco e i poveri onori delle case paterne», non hanno alcuna ragione per votarsi ad una collettività tanto vasta come la nazione. In tutti i campi, l'attaccamento al sensibile e al particolare precede e condiziona l'amore dello spirituale e dell'universale. Al limite, è questo il senso di una delle frasi più umane, più «incarnate» della Scrittura: «Chi non ama suo fratello che vede, come potrà amare Dio che non vede?».  Ma il sentimento del noi non si crea di punto in bianco.  Come tutto ciò che deve incarnarsi, esige un tempo d'incubazione e di crescita; è il frutto di una lunga abitudine degli esseri e delle cose; postula l'esistenza di radici in un determinato ambiente sociale. Un minimo di durata, di stabilità dei gruppi umani è dunque preliminarmente richiesto per il sentimento della comunità di destino. La vita in ambiente relativamente chiuso, l'attaccamento personale ed ereditario ad una professione o ad una classe contribuiscono a rinsaldare i legami vitali tra gli uomini. Inversamente, la moltiplicazione e la rapidità degli scambi tra ambienti diversi, la rottura delle tradizioni familiari e professionali, la «generalizzata ed anarchica sete di ascesa sociale», l'instabilità dei proletari e dei funzionari sballottati senza posa da un lavoro o da un luogo all'altro - tutti questi peccati dell'Occidente contemporaneo si alleano per sottrarre ai mortali il senso del proprio comune destino.  Quale che sia la sua qualità d'animo, un uomo non può attaccarsi agli esseri e alle cose in mezzo ai quali è soltanto di passaggio.  Non basta, perché il grano germogli, che possieda tutta la sua virtù germinativa, gli occorre anche un palmo di terra dove radicarsi.  Benché separato dai contadini per la natura delle sue funzioni, un impiegato dello Stato che rimanga a lungo nello stesso paese si integra a poco a poco nella comunità locale (ha intrecciato relazioni nell'ambiente, ha visto morire i vecchi e crescere i fanciulli, si sente e lo si sente del paese...); se invece volteggia da un paese all'altro, come è oggi il caso più frequente, resta eternamente estraneo a tutto e a tutti.  Ora abbiamo fatto allusione a quello sconsiderato appetito di ascesa sociale che contribuisce ad infrangere i quadri della comunità di destino. Ciò ci conduce a considerare, in funzione del nostro soggetto, il problema delle «élite» dirigenti. E' essenziale, allo scopo di evitare la zuffa generale, il paniere di granchi delle ambizioni scatenate, che, per la grande maggioranza degli uomini, il desiderio di eccellere e di salire rimanga contenuto in un quadro determinato: professione, ambiente sociale ereditario, ecc. Soltanto in questo modo si può creare una «élite» che rimanga attaccata con tutte le sue fibre all'ambiente che ha la missione di difendere e fecondare. Il signore vandeano che, invece di svolazzare a Versailles, si occupava del suo feudo natale, l'artigiano che faceva un capolavoro e diveniva maestro della sua arte, servivano la comunità meglio di qualsiasi ambizioso dei nostri giorni che guasta lo spirito delle folle per entrare in Parlamento. Quella pseudo «èlite» che si serve del proprio ambiente primitivo come di un trampolino per raggiungere potere ed onori, ha perso lo spirito di comunità, e tende, con il suo esempio, a rovinarlo nelle masse. Il popolo ha bisogno di «animatori» che lo sostengano e lo rappresentino dall'interno, e non di «conduttori» che lo manovrino e lo sfruttino dal di fuori.".

Vorrei ringraziare l'amico Andrea Casiere che ha messo questo testo su Facebook,
Tra l'altro, lo stesso Casiere ha commentato il mio articolo intitolato "L'amicizia, il Vangelo ed il giorno d'oggi" in questo modo:

"Amore, sia esso di amicizia o meno, è donare senza vincoli. Sono sempre stato convinto che il motto del cardinale Newman - cor ad cor loquitur- possa essere un consiglio utilissimo in materia. Parlare al cuore dell'uomo, anche quando il nostro prossimo è rivolto contro di noi, parlare con il cuore all'uomo soprattutto quando prevale tra di noi il male e la cattiveria. La verità non è logica ma esperienza sensibile e credo che, seppure con sforzo immane (in questo possiamo solo tentare di essere immagine di Dio, che nella sua perfezione ha donato indiscriminatamente a tutti) possiamo arrivare a far capire anche ai "peggiori" compaesani.

Pur non avendoti mai conosciuto di persona, capisco che molte nostre idee sono comuni e non tanto per il contenuto, quanto (come direbbe Nicolàs Gomez Davila) per l'impulso che le genera. Anche questa è comunità di destino e d'intenti per me, e vale da amicizia sincera, pur non avendo un suo lato materiale.".


Ringrazio Andrea. La stima e l'amicizia sono perfettamente reciproci.
Fa piacere vedere che un ragazzo di soli ventuno anni segua queste cose e sia interessato a temi così complessi e profondi.
Entrando nel tema, io penso che ogni uomo sia figlio delle sue opere e di quelle delle persone che gli stanno intorno.
Ad esempio, nel bene e nel male, io, Antonio Gabriele Fucilone, sono figlio delle mie opere e di quelle delle persone che mi stanno intorno.
O meglio, Dio è il Padre di tutti gli uomini.
Non sono state le mie opere e quelle degli altri a mettere al mondo me e le altre persone.
Però, le opere che io ho fatto e quelle fatte dagli altri hanno ripercussioni su me stesso e su chi mi circonda.
Ecco perché il concetto di libero arbitrio (che è diverso da quello di libertarismo) va di pari passo con quello di responsabilità verso sé stessi e verso le altre persone.
Un'azione fatta o non fatta ha ripercussioni su sé stessi e sulle altre persone, sia nel bene e sia nel male, e travalica quelli che sono i veri legami di sangue.
Il familismo (che è cosa ben diversa dal vero valore della famiglia come cellula della società) ed il tribalismo non sono altro che la negazione di una vera "koinonia"  tra persone e dell'umanità.
Cordiali saluti. 

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Ringrazio un caro amico di questa foto.