Cari amici ed amiche.
Leggete questo testo di Gustave Thibon (nella foto, 1903-2001) che è stato pubblicato su Facebook nella pagina Comunità di Destino:
"Noi crediamo che la vita delle società sia sottomessa, come quella degli individui, ad un certo numero di leggi immutabili.
La
comunità di destino è la prima di queste leggi: laddove essa scompare, i
raggruppamenti umani cadono in preda alla sclerosi e all'anarchia.
Certo, le leggi che reggono la vita sociale non s'impongono in maniera
così immediata e brutale come quelle della vita organica: una
collettività, i cui membri non sono più legati tra loro dalla comunità
di destino, soccombe meno rapidamente di un corpo privato dell'aria, ma
la sua asfissia, pur essendo più lenta, non è meno certa.
1. Che cosa è la comunità di destino?
Il
destino di un individuo è l'insieme degli avvenimenti che toccano
l'esistenza di tale individuo. Si può dunque dire che esiste comunità di
destino tra due o più uomini quando questi uomini condividono
spiritualmente o materialmente la stessa esistenza, quando sono
sottomessi agli stessi rischi o perseguono gli stessi fini, ecc.
Ma
queste indicazioni rimangono assai vaghe e danno adito all'equivoco. Ci
sembra capitale distinguere tra due forme molto differenti della
comunità di destino.
a ) La comunità di somiglianza
Esiste,
in un primo senso, comunità di destino tra un contadino della Provenza e
un contadino della Piccardia, tra un operaio metallurgico della Fiat e
uno della Renault, tra un marinaio che lavora su una certa nave che
percorre le rotte del Pacifico e un marinaio occupato su una linea
mediterranea, ecc.... Tutti questi uomini appartengono alla stessa
classe sociale, fanno gli stessi lavori e conducono pressappoco lo
stesso genere di vita. «I loro destini si assomigliano».
E'
su una tale comunità di somiglianza che si appoggiano certi movimenti
sociali come i sindacati operai o padronali e soprattutto l'«ideologia
di classe».
b) La comunità d'interdipendenza o di solidarietà reciproca
Per
comune che sia il loro destino, gli uomini di cui abbiamo ora parlato
restano profondamente separati gli uni dagli altri. Se il contadino
provenzale vede il suo raccolto distrutto dall'inondazione, se l'operaio
torinese è vittima di una disgrazia, se il marinaio del Pacifico
affonda con la sua nave, il contadino piccardo, l'operaio di Billancourt
e il marinaio che naviga nel Mediterraneo non ne saranno direttamente
toccati. Prendiamo invece due contadini che coltivano in società lo
stesso podere, oppure il macchinista e il meccanico di uno stesso treno,
o due marinai imbarcati sulla stessa nave; questi uomini non vivono più
soltanto l'uno «come» l'altro, vivono l'uno «per mezzo» dell'altro: i
loro destini non sono più soltanto «simili», sono «solidali».
Questa
solidarietà dei destini, inoltre, non implica necessariamente la loro
somiglianza: il mozzo e il capitano a bordo della stessa nave, l'operaio
e il padrone in un'impresa sana, il cittadino e il governante in uno
Stato ben costituito occupano situazioni sociali diversissime e non
vivono nello stesso modo; essi sono tuttavia intimamente dipendenti
l'uno e l'altro: mozzo e capitano, operaio e padrone, cittadino e
governante soffriranno o moriranno insieme se la nave affonda, se
l'impresa fallisce o se la nazione subisce dei rovesci. Questa comunità
di destino tra esseri che, attraverso la loro diversità di situazione e
di vocazione, rimangono strettamente dipendenti gli uni dagli altri,
conferisce ai raggruppamenti umani il loro carattere «organico». Così,
in un corpo vivente, gli organi più diversi per natura e per funzione
vivono, si sviluppano, soffrono e muoiono insieme. L'esempio tipico di
una tale comunità è quello della famiglia, la cui stessa struttura
implica, tra i diversi esseri che la compongono, un ritmo di scambi
quasi altrettanto intimi e continui di quelli che intercorrono tra le
membra di uno stesso corpo. La famiglia costituisce la comunità
organica per eccellenza.
E' d'altronde significativo constatare
che ogni forma di società rimane sana e vitale nella misura in cui si
rende affine alla famiglia: non per caso il termine padrone deriva da
padre, non per caso il re era detto padre del popolo e la Chiesa è
chiamata madre dei fedeli (la comunione dei santi all'interno della
Chiesa è la più alta forma di comunità di destino...).
Chiesa è la più alta forma di comunità di destino...).
Notiamo
di sfuggita che, ben più che i legami di sangue, è l'interdipendenza
dei destini a costituire l'unità familiare. L'esperienza prova che i
più stretti legami di parentela non bastano più a mantenere uniti degli
esseri che vivono lontani gli uni dagli altri e non mettono più in
pratica il quotidiano scambievole aiuto. La vecchia domestica che è sempre vissuta nella casa
ed ha allevato i bambini, è più vicina a noi e fa parte della famiglia
più di una parente lontana. Val meglio avere un amico vicino che un
parente lontano, dicono i contadini...
Questa seconda forma della
comunità di destino ci sembra infinitamente più importante e più feconda
della prima: è questa a costituire il principio vitale, l'anima delle
società. Così come il cuore di Pietro è più legato al cervello di
Pietro che al cuore di Paolo, allo stesso modo il fanciullo è più vicino
a suo padre e a sua madre che non agli altri fanciulli, il mozzo è più
vicino al capitano che comanda la nave sulla quale lavora che non ai
mozzi delle altre navi, il contadino di un villaggio è più vicino
all'artigiano dello stesso villaggio che non ai contadini di un'altra
regione, ecc. La comunità di interdipendenza produce l'unità dei
raggruppamenti umani.
La comunità di somiglianza invece, per poco
che si eriga in assoluto, genera la divisione e il conflitto: con
l'unire nello stesso esclusivismo e nello stesso spirito di
rivendicazione i membri di una stessa professione o di una stessa casta,
fa insorgere gli uni contro gli altri organismi sociali fatti per
vivere gli uni per mezzo degli altri. Qui sta il vizio di certe
associazioni professionali costituite a detrimento delle vere comunità
naturali, e soprattutto quello della mistica di classe. Riassumendo, la
vera comunità di destino può includere la somiglianza dei destini
(esiste, come abbiamo visto, comunità di destino tra gli operai di una
stessa fabbrica e i contadini di uno stesso villaggio), ma non la esige;
esige, al contrario, la solidarietà organica, l'esistenza di legami
vitali tra gli uomini. La prova più lampante dell'importanza vitale
della comunità di interdipendenza sta nel fatto che, dovunque essa tenda
ad abolirsi, le società non tardano a sfasciarsi. Le monarchie e le
feudalità sono crollate dal momento in cui i monarchi e i signori non
hanno più vissuto con il popolo e per il popolo; il padrone che non
condivide più il destino dei suoi operai diventa indifferente o odiato; i
capi militari che vivono lontano dai loro soldati inaridiscono
l'entusiasmo e la disciplina degli eserciti, ecc. L'assenteismo, che in
tutti i campi ha prodotto così profondi guasti, non è altro che il
rifiuto della comunità di destino. Dal momento in cui gli uomini non si
sentono più dipendenti gli uni dagli altri nel seno di un'unità che li
supera (famiglia, impresa, nazione, chiesa, ecc.) si raggruppano,
secondo la somiglianza, in frazioni inorganiche che reciprocamente si
divorano. Si hanno tanti più sindacati padronali o operai quanti meno le
imprese sono sane, tante più rivendicazioni di classe quanto minore è
la comunione nazionale, ecc. La comunità di destino è il barometro della
vitalità e della stabilità delle società.
2. Benefici della comunità di destino.
La
comunità di destino presenta vari vantaggi psicologici che influiscono
felicemente sulla vita sociale. In primo luogo favorisce l'amore che è
l'anima di ogni unità sociale. E' chiaro che noi amiamo più facilmente
l'essere che vive al nostro fianco e condivide le nostre gioie e i
nostri rischi, che non un estraneo. La solidarietà crea un clima
favorevole alla simpatia. Per limitarci ad un solo esempio, pensiamo a
quanti che per la loro classe sociale o per le loro funzioni vivevano da
estranei, quasi impermeabili gli uni agli altri, hanno imparato a
conoscersi e ad amarsi nella vita comune delle trincee nella prima
guerra mondiale e nei campi di battaglia durante l'ultima guerra.
Inoltre - e queste due realtà ne costituiscono una sola - essa
neutralizza l'egoismo, lo piega al servizio del bene comune, giunge a
trasformare in fattore di legame uno stato d'animo che, preso in se
stesso, è un agente universale di separazione.
L'interdipendenza,
infatti, crea quasi automaticamente l'aiuto scambievole. Non c'è stimolo
migliore alla dedizione che il sentirsi personalmente toccati dalla
disgrazia del proprio simile. I commercianti dei nostri piccoli paesi di
una volta, la cui prosperità dipendeva unicamente dalla clientela dei
contadini del luogo, sapevano, per organizzare il proprio futuro,
consentire larghi crediti alle famiglie oneste e bisognose. Ne ho
visti, nei giorni di grandine, scrutare il cielo con un'angoscia pari a
quella dei coltivatori; essi non ignoravano che il loro giro d'affari
dipendeva, anch'esso, dal capriccio degli elementi. L'impiegato delle
poste o l'insegnate, invece, senza essere moralmente inferiori ai
commercianti, contemplavano con indifferenza la grandine cadere: il loro
stipendio mensile, il loro «standing» di vita non ne erano toccati.
Quando La Fontaine scrive: «Se il tuo vicino viene a morire, è su di te che cade il fardello...»
questi versi presuppongono l'esistenza di destini solidali. Al limite,
ciascuno dei due fratelli siamesi non aveva bisogno di lezioni di
morale per amare il suo «prossimo» come se stesso...
«Uno
stato sociale è sano nella misura in cui tende a diminuire la tensione
tra l'interesse e il dovere, è malsano nella misura in cui tende ad
aggravarla».
A coloro che, per amore di elevazione e di purezza morale, pretenderebbero il contrario, noi risponderemmo: preferite il nulla all'imperfezione?
La
soppressione della comunità di destino, creando una situazione in cui
l'aiuto reciproco e la cura del prossimo non sono più possibili che
sotto la forma di un disinteresse eroico, costituisce il peggior
solvente dei legami sociali, in quanto finisce di fatto per abbandonare
le masse umane, che non sono composte né di eroi né di santi, a tutti i
risucchi di un egoismo senza contrappeso. Queste vedute vengono
d'altronde fin troppo confermate dallo spettacolo della società attuale.
Il sentimento della comunità di destino permette anche all'individuo di
superarsi nel tempo e nello spazio: lo inclina verso quelle imprese a
lunga scadenza che sono come germi di eternità nella vita delle
società. Opere come la costruzione di cattedrali, o l'elaborazione
millenaria della liturgia implicavano una continuità vivente tra gli
individui nello spazio e le generazioni nel tempo: nelle epoche in cui
questa continuità scompare, gli uomini disperdono i loro sforzi e
producono soltanto opere di corto respiro, senza legame e senza unità...
3. Condizioni della comunità di destino
A) «La gerarchia e la diversità degli organismi sociali»
costituiscono una delle basi della comunità di destino. Riprendiamo il
nostro paragone biologico. Gli organi di un corpo non sono uguali tra
di loro; alcuni hanno dei «privilegi»: il cervello, per esempio, si
riposa più dello stomaco, e questo più del cuore e dei polmoni, e sono
appunto queste «ineguaglianze» che, convergendo verso un fine comune,
creano l'unità dell'organismo. Lo stesso accade per il «corpo» sociale;
la sua unità è fondata sull'ineguaglianza e la gerarchia delle
funzioni; è in epoche come il Medioevo, in cui le differenze sociali e i
privilegi erano portati alla loro suprema espressione, che gli uomini
hanno vissuto con la massima profondità la loro comunità di destino: la
gioia del popolo alla nascita di un figlio di re, la partecipazione di
tutte le professioni, di tutte le classi alla costruzione di una
cattedrale o alla partenza per una Crociata costituiscono un'abbastanza
chiara testimonianza di questa unanimità sociale. Si è del resto troppo
dimenticato, nel nostro secolo di piattezza egualitaria, che le
ineguaglianze e i privilegi non hanno in sé nulla che possa ferire o
indignare i membri inferiori della gerarchia: basta che questi si
sentano legati ai loro signori da un'anima e un fine comuni. «Finché l'unità persiste, l'ineguaglianza non è offensiva».
Nelle epoche sane del feudalesimo, il servo chino sulla gleba non era
geloso del signore, il quale, senza lavorare con le proprie mani,
difendeva tutto il feudo con la sua spada, più di quanto il cuore, che
batte senza sosta, non invidi il riposo notturno del cervello. Ho
conosciuto ancora alcuni vecchi abitanti di villaggio che parlavano, con
un accento di fierezza «personale», della nobiltà e del lusso del
signore del luogo. Quella nobiltà e quel lusso infatti, in un certo
senso, appartenevano anche a loro: essi vi partecipavano nell'anima di
quella realtà viva che era la comunità contadina. L'invidia nasce
d'altronde dalla rottura della comunità di destino. Invidiare qualcuno
significa confessare implicitamente che si è separati da lui. Laddove c'è comunione, non può esserci invidia,
poiché si è una cosa sola con il prossimo, e il suo successo, la sua
felicità, sono anche i nostri. L'invidia nasce e s'accresce nella misura
in cui il legame vitale si allenta e l'individuo, separato dalle sue
fonti, riduce l'universo a se stesso. Allora lo spettacolo del successo
o della felicità altrui, dei quali nessuna arteria nutritizia gli
comunica il calore e la pienezza, gli sembra un'offesa personale. «Si invidia necessariamente ciò che non si ha modo di condividere»;
al limite, l'uomo straniero a tutti gli uomini è il nemico di tutti gli
uomini. La comunità di destino non ha dunque nessun rapporto con
l'egualitarismo, ne è anzi l'antidoto. Laddove essa esiste veramente,
neppure la più dura disciplina sociale genera la rivolta. Le vecchie
domestiche d'una volta, così devote al loro padroni, lavoravano ed
obbedivano più strettamente delle attuali «collaboratrici familiari», ma
esisteva comunità di destino tra loro e i loro padroni: facevano parte
della casa, dove le si teneva fino alla morte. Lo stesso accadeva
nell'esercito. I poteri degli ufficiali sui soldati sono infinitamente
più estesi in tempo di guerra, in quanto i capi condividono la sorte dei
loro uomini, mentre in tempo di pace, per allentata che sia la
disciplina, non esiste alcuna solidarietà tra il destino del soldato,
civile trapiantato in caserma, e quello dell'ufficiale che lo comanda.
Così è appunto nei periodi di pace o di allentamento della disciplina
che l'antimilitarismo maggiormente fiorisce.
B) «L'esistenza di piccoli gruppi umani relativamente stabili nel tempo e nello spazio»
ci sembra essere una condizione non meno essenziale della comunità di
destino. In sé, e quale che sia la forma di società nella quale vivono,
tutti gli uomini sono solidali gli uni con gli altri. Ma la comunità
di destino dà i suoi frutti soltanto se è sentita, vissuta dal di
dentro, soltanto se può esprimersi attraverso la coscienza e il
sentimento del «noi». Ora, questo passaggio dall'io al noi postula
d'esistenza di raggruppamenti relativamente ristretti. La comunità di
destino è vissuta, per eccellenza, nella famiglia; ed è anche vissuta
tra i membri dell'equipaggio di una stessa nave, tra i lavoratori di una
stessa piccola impresa, tra gli abitanti di uno stesso villaggio.
Lo è molto meno tra gli innumerevoli navigatori di una compagnia marittima,
tra i membri di un'immensa impresa anonima, tra gli abitanti di una
regione...Da ciò l'importanza vitale delle cellule sociali di base:
sarebbe necessario che la società fosse costruita in maniera tale che ci
si potesse innalzare, di piccolo gruppo in piccolo gruppo, fino al
vertice della gerarchia, senza che a nessun livello il contatto umano
andasse perduto. L'annientamento delle piccole comunità naturali in cui
gli uomini si sentono responsabili gli uni degli altri, a profitto di un
funzionarismo capitalista o statale, mina dalla base le virtù sociali.
La comunità di destino «vissuta» è legata all'esistenza di un
«prossimo»: occorre che l'uomo possa vedere e toccare gli esseri di cui è
solidale. «I nostri contadini amano i loro casali - dice benissimo Vauvenargues -; i
romani erano presi da passione per la loro patria finché questa non era
che un piccolo borgo; quando divenne più potente, l'amore di patria non
fu più tanto vivo; una città, signora dell'universo, era troppo vasta
per il cuore dei suoi abitanti. Gli uomini non sono nati per amare le
grandi cose». O piuttosto, sono nati per amare le grandi cose
attraverso le piccole. Gli individui senza un luogo, senza una famiglia,
senza un mestiere vivo, coloro che non hanno da difendere, come dice
Péguy: «Il loro focolare e il loro fuoco e i poveri onori delle case paterne»,
non hanno alcuna ragione per votarsi ad una collettività tanto vasta
come la nazione. In tutti i campi, l'attaccamento al sensibile e al
particolare precede e condiziona l'amore dello spirituale e
dell'universale. Al limite, è questo il senso di una delle frasi più
umane, più «incarnate» della Scrittura: «Chi non ama suo fratello che
vede, come potrà amare Dio che non vede?». Ma il sentimento del noi non
si crea di punto in bianco. Come tutto ciò che deve incarnarsi, esige
un tempo d'incubazione e di crescita; è il frutto di una lunga abitudine
degli esseri e delle cose; postula l'esistenza di radici in un
determinato ambiente sociale. Un minimo di durata, di stabilità dei
gruppi umani è dunque preliminarmente richiesto per il sentimento della
comunità di destino. La vita in ambiente relativamente chiuso,
l'attaccamento personale ed ereditario ad una professione o ad una
classe contribuiscono a rinsaldare i legami vitali tra gli uomini. Inversamente, la moltiplicazione e la rapidità degli scambi tra ambienti diversi, la rottura delle tradizioni familiari e professionali, la «generalizzata ed anarchica sete di ascesa sociale»,
l'instabilità dei proletari e dei funzionari sballottati senza posa da
un lavoro o da un luogo all'altro - tutti questi peccati dell'Occidente
contemporaneo si alleano per sottrarre ai mortali il senso del proprio
comune destino. Quale che sia la sua qualità d'animo, un uomo non può
attaccarsi agli esseri e alle cose in mezzo ai quali è soltanto di
passaggio. Non basta, perché il grano germogli, che possieda tutta la
sua virtù germinativa, gli occorre anche un palmo di terra dove
radicarsi. Benché separato dai contadini per la natura delle sue
funzioni, un impiegato dello Stato che rimanga a lungo nello stesso
paese si integra a poco a poco nella comunità locale (ha intrecciato
relazioni nell'ambiente, ha visto morire i vecchi e crescere i
fanciulli, si sente e lo si sente del paese...); se invece volteggia da
un paese all'altro, come è oggi il caso più frequente, resta eternamente
estraneo a tutto e a tutti. Ora abbiamo fatto allusione a quello
sconsiderato appetito di ascesa sociale che contribuisce ad infrangere i
quadri della comunità di destino. Ciò ci conduce a considerare, in
funzione del nostro soggetto, il problema delle «élite» dirigenti. E'
essenziale, allo scopo di evitare la zuffa generale, il paniere di
granchi delle ambizioni scatenate, che, per la grande maggioranza degli
uomini, il desiderio di eccellere e di salire rimanga contenuto in un quadro determinato:
professione, ambiente sociale ereditario, ecc. Soltanto in questo modo
si può creare una «élite» che rimanga attaccata con tutte le sue fibre
all'ambiente che ha la missione di difendere e fecondare. Il signore
vandeano che, invece di svolazzare a Versailles, si occupava del suo
feudo natale, l'artigiano che faceva un capolavoro e diveniva maestro
della sua arte, servivano la comunità meglio di qualsiasi ambizioso dei
nostri giorni che guasta lo spirito delle folle per entrare in
Parlamento. Quella pseudo «èlite» che si serve del proprio ambiente
primitivo come di un trampolino per raggiungere potere ed onori, ha
perso lo spirito di comunità, e tende, con il suo esempio, a rovinarlo
nelle masse. Il popolo ha bisogno di «animatori» che lo sostengano e lo
rappresentino dall'interno, e non di «conduttori» che lo manovrino e lo
sfruttino dal di fuori.".
Vorrei ringraziare l'amico Andrea Casiere che ha messo questo testo su Facebook,
Tra l'altro, lo stesso Casiere ha commentato il mio articolo intitolato "L'amicizia, il Vangelo ed il giorno d'oggi" in questo modo:
"Amore, sia esso di amicizia o
meno, è donare senza vincoli. Sono sempre stato convinto che il motto
del cardinale Newman - cor ad cor loquitur- possa essere un consiglio
utilissimo in materia. Parlare al cuore dell'uomo, anche quando il
nostro prossimo è rivolto contro di noi, parlare con il cuore all'uomo
soprattutto quando prevale tra di noi il male e la cattiveria. La verità
non è logica ma esperienza sensibile e credo che, seppure con sforzo
immane (in questo possiamo solo tentare di essere immagine di Dio, che
nella sua perfezione ha donato indiscriminatamente a tutti) possiamo
arrivare a far capire anche ai "peggiori" compaesani.
Pur non
avendoti mai conosciuto di persona, capisco che molte nostre idee sono
comuni e non tanto per il contenuto, quanto (come direbbe Nicolàs Gomez
Davila) per l'impulso che le genera. Anche questa è comunità di destino e
d'intenti per me, e vale da amicizia sincera, pur non avendo un suo
lato materiale.".
Ringrazio Andrea. La stima e l'amicizia sono perfettamente reciproci.
Fa piacere vedere che un ragazzo di soli ventuno anni segua queste cose e sia interessato a temi così complessi e profondi.
Entrando nel tema, io penso che ogni uomo sia figlio delle sue opere e di quelle delle persone che gli stanno intorno.
Ad esempio, nel bene e nel male, io, Antonio Gabriele Fucilone, sono figlio delle mie opere e di quelle delle persone che mi stanno intorno.
O meglio, Dio è il Padre di tutti gli uomini.
Non sono state le mie opere e quelle degli altri a mettere al mondo me e le altre persone.
Però, le opere che io ho fatto e quelle fatte dagli altri hanno ripercussioni su me stesso e su chi mi circonda.
Ecco perché il concetto di libero arbitrio (che è diverso da quello di libertarismo) va di pari passo con quello di responsabilità verso sé stessi e verso le altre persone.
Un'azione fatta o non fatta ha ripercussioni su sé stessi e sulle altre persone, sia nel bene e sia nel male, e travalica quelli che sono i veri legami di sangue.
Il familismo (che è cosa ben diversa dal vero valore della famiglia come cellula della società) ed il tribalismo non sono altro che la negazione di una vera "koinonia" tra persone e dell'umanità.
Cordiali saluti.
The Liberty Bell of Italy, una voce per chi difende la libertà...dalla politica alla cultura...come i nostri amici americani, i quali ebbero occasione di udire la celebre campana di Philadelphia nel 1776, quando fu letta la celeberrima Dichiarazione di Indipendenza. Questa è una voce per chi crede nei migliori valori della nostra cultura.
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Il peggio della politica continua ad essere presente
Ringrazio un caro amico di questa foto.
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