L'amico Filippo Giorgianni mi ha segnalato il prosieguo della sua allegoria teatrale intitolata "F.G., "La vita è un condominio. Breve allegoria teatrale-letteraria sub specie aeternitatis":
"Si rialzarono le luci per l’inizio del secondo atto. Il Custode era seduto in guardiola a ritagliare pezzi di carta.Il Vagabondo entrò dalla destra del palco, ma il Custode non se ne accorse.
Il Vagabondo: Vedo che ci sono novità che si aggirano per questa via.
Il Custode: Uh? Oh buongiorno, carissimo! Mi perdoni se non l’avevo vista, ma stavo ritagliando delle formine di animali per un mio nipotino. Ma di quali novità parla, scusi?
Il Vagabondo: Della giovane donna che popolerà il palazzo qui di fronte. È passata poc’anzi in strada ed è entrata al Cantico. Con le chiavi del portone in mano.
Il Custode: Ah sì! La conosco. È effettivamente una nuova vicina.
Il Vagabondo: Era dunque questo il momento adatto per passare a parlare con lei, amico mio.
Il Custode: Non capisco il nesso tra le due cose, ma va bene così. Son felice lo stesso.
Il Vagabondo: Eccola lì, una parolina magica che forse può darci uno spunto importante per oggi...
Il Custode: Quale?
Il Vagabondo: “Felice”.
Il Custode: Vuol parlare di felicità?
Il Vagabondo: Diciamo che forse ci tocca finire quanto avevamo iniziato velocemente nel portico l’altro giorno...
Il Custode: Aaah! Finalmente! E mi dica quale spunto ne ricava lei?
Il Vagabondo: Beh partirei dalla sua felicità. Perché mai è felice di parlarmi ogni volta?
Il Custode: Come perché? Perché lo gradisco, perché mi è utile!
Il Vagabondo: Cioè perché la cosa la solletica? La soddisfa? Le dà un ritorno?
Il Custode: Beh, in un certo qual modo...
Il Vagabondo: E io che pensavo fosse per la relazione con me in sé e per sé! Mi dica: ma la sua felicità si riduce forse a questo? A un solletico?
Il Custode: No, aspetti. Non credo... In effetti, sono felice anche quando non ho nessun ritorno di alcun tipo. Sono felice quando ho a che fare con gli altri, per esempio.
Il Vagabondo: Ecco, ora sì che ragioniamo. E penso anche di sapere però quando è più felice: con sua moglie e soprattutto nel “suo” portico. O mi sbaglio forse? In giardino non è felice?
Il Custode: No, non sbaglia!
Il Vagabondo: Ecco, lo vede? E allora perché riduce tutto allo stare con gli altri e soprattutto perché mai quando parla con me invece dovrebbe essere felice solo per un qualche gradimento? Non lo trova un po’ troppo utilitaristico, egoistico? E poi... proprio con me?!
Il Custode: Cielo! Se la mette in questi termini, mi fa pure vergognare... Ha proprio ragione.
Il Vagabondo: Ma non si vergogni! Chi non è infinito non può aver sempre cognizione infinita di ciò che finitamente fa. C’è sempre un margine di errore, o almeno di limite, nella misura in cui l’infinito non ci sostenga continuamente con il suo ininterrotto alitare e nella misura in cui l’uomo non ne avverta il vento su di sé.
Il Custode: Questa è un’interessante riflessione, ma allora la felicità cos’è...?
Il Vagabondo: Direi che potremmo partire, prima di tutto, da ciò che non è. Amico mio, la felicità non è il prodotto di ciò che ci piace fare. Non è legato a un appagamento di qualsiasi tipo. Non è nemmeno il piacere – sensibile o mentale – di stare con gli altri o di sentirli. È, invece, più che altro, uno scampolo di pienezza che ci viene donato. È qualcosa che sopravvive anche nel dolore e spessissimo perfino si nutre di dolore, perché, in fondo è sempre un dolore avere a che fare con qualcosa di diverso da se stessi. La felicità è qualcosa che, a prescindere ciò che ti accade, tu vivi perennemente e, qualche volta, anche in modo più accentuato, perché talvolta ti investe senza che tu te ne accorga. Come quando mangi un dolcetto. Non è che tu ti senta sempre necessariamente “felice” quando lo mangi. Anzi, spesso lo mangi in modo automatico perché ti piace: ti schiavizza se ne sei assuefatto, scende giù velocemente a soddisfare la tua rapacità. E finisce col non darti proprio nulla. Altro che felicità! Infelicità semmai. E questo perché, di fondo, il dolcetto è una banalità, è una banalissima cosa materiale che passa, come lo siete anche lei e sua moglie, amico mio, o tutta l’altra gente presente adesso in questo palazzo. Lei, sua moglie, tutti gli uomini, e il dolcetto insieme a voi, non possono farti felice se cerchi in essi la felicità. Perché sono tutte cose momentanee, passeggere. Eppure, se siamo capaci di distacco rispetto al dolcetto, se siamo capaci di non farci schiavizzare, succede.
Il Custode: Cosa? Cosa succede?
Il Vagabondo: Succede che talvolta quel banalissimo dolcetto, così come quella banalissima persona, in quelmomento, con quella musica in sottofondo, ti eleva. E non senti una confusa contentezza e un acclamante trascinamento dei sensi o della mente, bensì un consapevolissimo e mite rapimento dell’anima. Non ti senti soddisfatto perché quell’effimero è cosa tua, perché ti solletica, perché ti esalta, perché è finalmente ciò che volevi e aspettavi da così tanto tempo! No, non sei eccessivamente soddisfatto o esaltato in un modo o in un altro. Sei divinamente proiettato in un altro mondo, senza alcun eccesso. Non sei trascinato via da qualcosa di stordente e rapitore, né da un appagamento di qualsiasi tipo, ma, anzi, ti fermi con la ragione e capisci. Capisci che la pienezza è, almeno in parte, quella lì. Capisci distintamente che la pienezza di quel momento è porzione potenziata negli effetti di una pienezza più grande che già vivi in ogni istante, se ne sei capace e non ti fai schiavizzare dalle cose. Non un uragano che ti esalta, ma brezza tiepida che ti riempie e ti fa dire: “grazie”. La felicità non è gioia, è illuminazione. Continua illuminazione, al di là del momento bello o brutto che vivi.
Il Custode: È l’eterno toccato con mano! È una divina serenità, imperturbabilità di fronte alle cose, anche negative!
Il Vagabondo: Esattamente.
Il Custode: Ne parlavamo con il signor Teofilo, un coinquilino, qualche giorno fa! Se io avessi però centrato più attenzione su questo aspetto! Stupido, stupido, stupido! (e si batté il palmo della mano sulla fronte)
Il Vagabondo: Oh ma non si crucci. Sono convinto che lei abbia fatto del proprio meglio per arricchire il suo amico...
Il Custode: Lei mi sopravvaluta.
Il Vagabondo: Non credo proprio.
I due si interruppero voltandosi. Si sentì un leggero vociare dalla scalinata.
Signora Ciprioti: Forza, caro, siamo in ritardo! Prima di andare alla mensa, dobbiamo ancora fare la spesa!
Signor Ciprioti: Elvira, ma che ore sono? O madre! Sono già le 18! Fra mezz’ora dovremmo essere a smistare cibo...
Comparvero i coniugi Ciprioti dalle scale e la signora si accorse del Custode e del suo amico.
Signora Ciprioti (sottovoce e quasi fermandosi nelle scale accanto all’orecchio del marito): Francesco! Francesco. Guarda chi c’è! Ancora quell’accattone dell’altro giorno... Adesso è diventato di casa qui?
Signor Ciprioti (sempre sottovoce): È vero, in effetti non me ne stavo accorgendo nella corsa... È un po’ indecoroso per un palazzo come il nostro.
Signora Ciprioti (ancora sottovoce): Che poi secondo me è tutta scena: sembra un morto di fame, ma, per come parla e si atteggia, sarà un benestante che avrà deciso di giocare al clochard.
Signor Ciprioti (abbassando più ancora la voce): Sì, però, per favore, sottovoce e non facciamo scenate. Lascia parlare me.
Scesero le scale e il Vagabondo li guardava con aria compassionevole ma grave.
Il Custode: Buonasera, cari signori!
Signor Ciprioti: Buonasera!
Signora Ciprioti: Buonasera a lei.
Signor Ciprioti (rivolto al Custode): Senta, domani io vorrei parlare con lei, se possibile. Ora non posso perché siamo di fretta.
Il Custode: Ma certamente! Quando vuole lei.
Signor Ciprioti: La ringrazio. Ora ci scusi.
Il Custode: Prego! Buona serata.
I coniugi fecero un cenno sorridendo e andarono verso sinistra. Il Custode osservò il loro incedere e poi soggiunse al Vagabondo: Li perdoni, non sanno quello che fanno, né quello che dicono.
Il Vagabondo: Lo so, lo so. Li conosco bene. Volontariato due ore a settimana... Io li perdono sempre, perché sono schiavi e non vogliono nemmeno vedere in faccia questa realtà, ma avranno la loro ricompensa, temo.
Il Custode: E dire che li ho pure portati spesso nel portico! Ma pare tutto inutile...
Il Vagabondo: Ma per loro il giardino si riduce ad una semplice recita, amico mio. Una recita quotidiana, ma pur sempre una recita. Il loro cuore è corrotto e recita di continuo: ripete stancamente e forzatamente delle parole, delle battute. A se stessi prima ancora che agli altri. Abituati a recitare a se stessi, finiscono perfino per recitar parole col giardino. È una mancanza di semplicità che li porta all’artificio: all’artificio intellettualistico quando vanno in giardino o parlano di cose elevate, a quello emozionale tra di loro, a quello formalistico quando sono in presenza di estranei e finanche all’artificio più insidioso di tutti: quello della devozione e della carità. Ma non conoscono vera devozione, né vera carità. Essi praticano l’amore perché è un prodotto che li soddisfa ed emoziona, che li fa sentire migliori, perché li fa sentire completi e amati. Non per amare l’altro gratuitamente. E, quando si rivolgono ai più vicini, quando l’altro fa loro qualche problema di sorta, ecco che la corruzione esce allo scoperto: manca la calma, manca la contemplazione, la fiducia, l’apertura all'imprevisto della novità. Manca il dono. C’è solo la scostanza, l’affermazione di sé, l’aggressività, l’orgoglio, lo squilibrio. C’è solo il rifiuto e lo spirito di difesa arroccata e di contrattacco nei confronti di chi è lì fuori. E così passano facilmente dalle crasse risate alle liti furibonde.
Il Custode: Quanto è vero... A me dispiace per loro...
Il Vagabondo: Anche a me, ma è difficilissimo riuscire a svegliarli dal torpore. Il dramma è – e qui torniamo al nostro discorso – che questa gente, nel suo continuo impastare bene e male, nella sua tiepidezza e mediocrità, nella sua falsa quiete casalinga e in quella del volontariato, perfino nella quiete del giardino!, non riesce a comprendere di esser vittima di un narcotico che non la rende mai veramente felice. E, quando li metti di fronte ai fatti, di fronte al fatto che questo atteggiamento è, alla fin fine, corrotto e autolesionista, sanno soltanto fuggire dal pungolo che gli conficchi nei fianchi. E finiscono col rifiutare anche gli amici che provano ad aiutarli. Loro cercano solo la quiete, la comodità. Non la pace della felicità. È tutto troppo comodo, statico e senza rischio. E soprattutto è un consumo. Non c’è alcuna uscita fuori di sé per andare incontro agli altri vicini – che è cosa rischiosissima perché comporta sempre il pericolo di ricevere spine anziché rose –, non c’è tutto questo, ma soltanto una poderosa barriera che ogni tanto si abbassa quando lo ritengono opportuno, quando provoca loro un qualche solletico!
Il Custode: Come direi io, non si rendono conto che la vita è un condominio e non una villetta di campagna... Fin tanto che tutto va bene con gli altri, sono dei buoni vicini, ma quando qualcuno di sgradito bussa al loro appartamento...
Il Vagabondo: Ed è per questo, amico mio, che la mettevo in guardia da questi solletichi poco fa. Sin dalle più piccole cose quotidiane non possiamo rischiare che il solletico interiore ci rammollisca e progressivamente e inavvertitamente ci trascini, passando dal piccolo al grande, verso i lidi dei Ciprioti, i lidi della chiusura in se stessi, quelli dell’egoismo travestito d’amore. Perché, vede, sta tutto nelle pieghe. Nelle pieghe di ciò che non vediamo o, meglio, non vogliamo vedere. Nelle pieghe di un discorso osceno che non dovremmo udire, eppure, divertíti, udiamo. Nelle pieghe di un silenzio che dovremmo rompere, eppure non rompiamo. Amico mio, è nelle pieghe della sottigliezza che si nasconde il nostro Nemico. E vigilare su queste pieghe, vigilare sui rilassamenti, non è paranoia né esagerazione: è l’essenza del vero amore per gli altri, l’essenza di ciò che ci fa abbandonare la mediocrità tiepida e ci porta invece alla felicità.
Il Custode: Eppure oserei dire che forse l’essenza della felicità è proprio in giardino, più che non con gli altri. In fondo, solo se attingi l’amore da lì puoi amare anche le persone e, in misura diversa, gli animali e le cose. È quello che diceva prima lei sull’infinito, no? Solo se siamo sostenuti da esso, dal suo alito, possiamo afferrare le cose e sorpassare i nostri limiti e così amare sempre più gli altri, perfino i vicini più scoccianti.
Il Vagabondo (sorridendo): Vedo che ci sta prendendo gusto e sta acquisendo dimestichezza! Allora le dico che non solo oso dirlo, ma che io lo affermo con certezza: vero, la felicità non è nella relazione con gli altri uomini. La felicità è sì amore, ma amore contemplativo. L’amore per gli altri è solo derivato da questo amore più grande. Sono cose collegate, ma la felicità è esattamente coincidente colla sua abitudine di girare nel giardino. Sono cose collegate, impossibili da scindere, ma la priorità...
Il Custode: La priorità sta nel mio segreto: la priorità ce l’ha il portico! Capisco soltanto ora ciò che prima solo passivamente facevo! La ringrazio! Come al solito, lei è stato illuminante.
Il Vagabondo: Considerato come si lamentava la scorsa volta, spero che oggi allora sia appagato da questo nostro dialogo.
Il Custode (sornione): Che fa, mi vuol prendere in fallo? Non si era detto di dover vigilare sul solletico?
Il Vagabondo (ridendo compostamente): Mi ha scoperto! Comunque, visto che oggi, soddisfazione o no, le ho concesso il tempo che le avevo promesso, ora mi tocca andare via. Sono convinto che si sia detto tutto ciò che era necessario dire, quantomeno per adesso. La saluto, amico mio. Ci vediamo prossimamente.
Il Custode: Arrivederci e grazie di tutto.
Il Vagabondo uscì dall’androne diretto verso la destra del palco. E sparì.
Teofilo (fuori campo): Prima o poi dovrà spiegarci chi è mai questo uomo con cui parla.
Il Custode: Eh? Chi va là?
Teofilo (comparendo dalle scale): Curioso personaggio davvero. Riesce perfino a battere i suoi discorsi.
Il Custode: Oh! Buonasera.
Teofilo: Buonasera a lei. Perdoni se ho origliato, ma non ho potuto fare a meno. Stavo scendendo le scale per fare una passeggiata prima di andare a lavorare e mi sono fermato ad ascoltare.
Il Custode: Perdonato, si figuri!
Teofilo: Allora, mi dice chi è, che fa nella vita?
Il Custode: Mi crederebbe se le dicessi che, in un certo senso, non lo so nemmeno io?
Teofilo: È alquanto strano.
Il Custode: Eppure è così.
Teofilo: Mi vorrebbe dire che va e viene, parla con lei, ma lei non sa nulla di lui?
Il Custode: Nulla non direi. È più giusto dire che so l’essenziale. Ma ci sono cose di lui che vanno molto al di là della mia comprensione. E poi non sono stato io a trovarlo. È lui che ha trovato me.
Teofilo: In che senso? Mi spieghi.
Il Custode: Vede, molti anni fa, quando lavoravo come lavascale, passava sempre quest’uomo presso un palazzo. Fu lui a trovarmi nelle scale, mentre mi chiedevo ad alta voce come fare per lavare in modo efficace e veloce il pianerottolo in cui mi trovavo. Lui, sentendomi, mi disse semplicemente: “Perché?”.
Teofilo: Perché cosa?
Il Custode: È proprio quel che mi chiesi io. Ma lui soggiunse: “Non comprende? Il vero problema da chiarire non è mai come lavare le scale, bensì perché lavarle”. Restai imbambolato. In effetti, avevo sempre dato per scontato che dovessi lavarle e non mi ero mai posto la domanda: perché lavavo scale? E perché una scala va lavata, posto che nel giro di poco tempo viene di nuovo sporcata?
Teofilo: E lui che le disse?
Il Custode: Oh nulla! Si presentò e basta. Però... è curioso: non ricordo come disse di chiamarsi.
Teofilo: Questa è bella! Lei parla con uno sconosciuto, con uno Straniero. Non sa nemmeno come si chiami! Come può parlare con lui così facilmente, dargli così tanta fiducia? E come può parlarne in giro così disinvoltamente?
Il Custode: Infatti non posso! Non posso parlarne disinvoltamente se non per quel poco che riesco. Non posso dire a lei, o altri, chi sia. Posso solo farglielo incontrare.
Teofilo: Ma lei lo sa che quell’uomo potrebbe essere un assassino seriale, per quel che ne sa? Non la intimorisce questo rapporto misterioso? Non ha paura del mistero?
Il Custode: Assassino seriale? Si vede che lei ha poco a che fare con lui, ma forse un giorno rimedieremo anche a questo. Comunque no, non ho paura del mistero. La paura è il modo migliore per fuggire dagli altri.Per esempio, secondo me, lei ha paura degli altri.
Teofilo: Suvvia, non esageri.
Il Custode: Non esagero!? Qual è l’ultima volta in cui lei ha dato l’elemosina ad uno straniero o ad un barbone sporco?
Teofilo: Che cosa c’entra?
Il Custode: Si fidi che c’entra eccome. Mi dica, su!
Teofilo: Ma non so... Forse anni fa.
Il Custode: Ecco, e mi vorrebbe dire che, da allora, non ne ha più incontrato uno?
Teofilo: Uhm. Beh. Ecco.
Il Custode: Lo vede? E immagino che ogni volta abbia trovato una scusa convincente per non guardarli o per rispondere loro in modo da allontanarli. Che cos’è questa se non paura?
Teofilo: Lei mi spiazza... Non posso negare che talvolta accampi giustificazioni, ma lei mi sta dicendo che ho paura degli estranei?
Il Custode: No, le sto dicendo che forse ha paura perfino dei suoi vicini, di coloro che ama. Forse ha perfino paura di amare qualcuno che è destinato ad amarla! Forse, in questo preciso istante, lei sta fuggendo da qualcuno e quel qualcuno sta fuggendo da lei.
Teofilo: Questa mi pare proprio grossa, mi scusi... Come si può fuggire dall’amore?
Il Custode: Lei dice? E se le dicessi che conoscevo due persone che invece hanno vissuto tutto questo?
Teofilo: Direi che è incredibile.
Il Custode: Incredibile solo per chi non vuol vedere dentro di sé. Eppure le dico che queste persone di cui le parlo sono reali e l’uomo tra i due è tra l’altro il mio più grande amico, una persona che ho aiutato tantissimo. Le dirò: forse in questo momento potrebbe perfino starci guardando.
Il Custode si voltò verso le porte del teatro e poi verso le quinte del palco mentre diceva queste ultime parole.
Teofilo: Stento a comprendere, ma sono curioso di conoscere la storia di quest’uomo.
Il Custode: Vede, l’amore è una cosa troppo complicata per il cuore dell’essere umano. È l’Oceano che si riversa in delle misere tazze da tè. Ricorda che dicevamo la scorsa volta? L’infinito, l’eterno a cui fare spazio? Ecco, l’Oceano è l’infinito cui devi far posto. Devi rompere la tua tazza, rompere te stesso, per quanto possibile, perché l’Oceano esondi, perché tu possa farlo spargere dentro e intorno a te. Non puoi possederlo né completamente capirlo. Spesso però l’uomo non riesce a comprendere. Pensa che l’amore sia di origine naturale e che dipenda da lui stesso, da una sua qualche induzione, come se si potesse, in qualche modo, “trovare”, “sondare”, “provare”, “sperimentare”. Come se fosse una propria ricerca. In realtà, non sei tu che cerchi: deve essere l’Oceano a trovare te. È qualcosa di soprannaturale. Ma se tu non lo capisci e continui a cercare, cercare, finisci soltanto col non trovare l’Oceano. Finisci col fuggire da esso per perderti in minuti bicchieri d’acqua minerale.
Teofilo: E questo cosa ha a che vedere con il suo amico?
Il Custode: Beh lui e la donna di cui parlo per molto tempo hanno fatto questo errore: l’Oceano sussurrava ad entrambi con la sua risacca. Era un richiamo continuo, ma essi non riuscivano a vedere. E non vedevano perché cercavano altrove, lontano. E avevano paura di cercarsi a vicenda: fuggivano dall’idea che l’altro lì accanto potesse essere ciò che il richiamo sussurrava loro.
Teofilo: E, alla fine, come andò?
Il Custode: Accadde che la paura prevalse. A furia di cercare altrove, quando capirono quale strada era quella giusta, si spaventarono. Era troppo inaspettato, troppo incomprensibile. Ed era incomprensibile perché non avevano capito cosa fosse realmente amare. A furia di strappi, di fughe, quando presero atto della realtà, rimasero sconvolti. E questa consapevolezza li ferì.
Teofilo: E penso anche di capire perché li ferì: perché il richiamo oceanico che avevano dentro era da loro soffocato, ma continuava a soffiare. Era necessario fuggire da quel soffio perpetuo per non ascoltarlo, per non affrontare quella paura.
Il Custode: Fu una ferita che non guarì mai. Poteva guarire solo affrontandola, ascoltando e accettando quel richiamo, ma la paura continuò a prevalere e li costrinse a fuggire ancora, a non guarire mai.
Teofilo: Lei mi sta dicendo che l’amore non è una facile commedia in cui la trama impone ai protagonisti momenti di difficoltà. Mi sta dicendo che l’amore è tutto un dramma e che, solo se tutto va bene, termina col lieto fine?!
Il Custode: Sì, l’amore – e badi bene: non solo quello di coppia, ma principalmente quello di coppia – è una trama. È perfino un lungo poema epico. Ma è come il poema di Ulisse, ha presente? Quanti uomini devono perire prima di riuscire a tornare in patria?
Teofilo: Ma, messa così, fa ancora più paura! Fanno bene le persone a fuggire, se l’amore vero è così drammatico.
Il Custode: Non capisce? È drammatico perché siamo noi a complicarlo. Perché noi stessi non siamo abituati ad esso. Siamo noi che lo drammatizziamo! Se non fuggissimo, tutto risulterebbe più facile, per quanto certamente non sia una passeggiata. Dovremmo solo fare spazio all’Oceano, ma la nostra limitatezza di vedute, la nostra arroganza, non ci permette di metterci in ascolto del sussurro. Pensiamo di aver capito tutto, quando invece non abbiamo capito alcunché, perché l’amore non è alla nostra misera portata e in esso non c’è nulla da capire. Quando pensiamo di aver capito tutto e di dover “cercare”, noi uomini siamo incapaci di discernimento (ecco la parola chiave!) perché pensiamo che l’amore sia complicato solo a causa dell’avere a che fare con l’altro, mentre invece è complicato perché è difficile anche solo comprendere quando si stia realmente amando. Proprio a questo si riduce tutta la trama drammatica di ogni amore: alla fuga dal discernimento. Il dramma sta nel non capire che l’origine è tutta nella sopranatura, nel mistero. Lei mi diceva: “non ha paura del mistero?”. Se ne avessi paura, mi complicherei la vita! L'amore, dunque la vita, è ascoltarlo pienamente, quel mistero. Abbracciarlo! Se solo sapessimo davvero ascoltare!
Teofilo: Eppure pochi penso si mettano in ascolto. E chi ci prova ne viene subito distratto, ricadendo nella ricerca spasmodica di cui mi diceva lei...
Ora comprendo meglio perché oggi sia così difficile amare. Ora capisco meglio perché la musica è talmente importante per noi e per la nostra capacità di comprendere l’amore e l’eterno. Siamo asserragliati in una rocca attorniata da nemici... Tutto è rumore, è velocità, è vacuità. Tutto è non pensiero, per quanto talvolta camuffato di pensiero. Tutto congiura contro l’eterno e dunque congiura contro di noi e contro il nostro più alto destino! Oh infelice generazione! Siamo proprio dei miseri, degli sfortunati!
Carissimo, lei mi ha davvero aperto gli occhi.
Il Custode: Ne sono ben felice, ma ora le tocca passare alla pratica dopo la teoria. L’apertura all’ascolto del mistero è fragile se non viene alimentata. La fuga è sempre lì in agguato, cerca di rapirti e portarti via.
Teofilo: Ho già compreso cosa intende dire... Vorrà dire che mi tocca proprio fare questo passo? Andare in giardino con la sua gradita compagnia e custodia?
Il Custode: Direi proprio di sì.
Teofilo: Allora andiamo!
I due uomini presero per il corridoio alla destra delle scale e scomparvero. Dopo pochi attimi, il signor Christian entrava nell'androne.".
"Si rialzarono le luci per l’inizio del secondo atto. Il Custode era seduto in guardiola a ritagliare pezzi di carta.Il Vagabondo entrò dalla destra del palco, ma il Custode non se ne accorse.
Il Vagabondo: Vedo che ci sono novità che si aggirano per questa via.
Il Custode: Uh? Oh buongiorno, carissimo! Mi perdoni se non l’avevo vista, ma stavo ritagliando delle formine di animali per un mio nipotino. Ma di quali novità parla, scusi?
Il Vagabondo: Della giovane donna che popolerà il palazzo qui di fronte. È passata poc’anzi in strada ed è entrata al Cantico. Con le chiavi del portone in mano.
Il Custode: Ah sì! La conosco. È effettivamente una nuova vicina.
Il Vagabondo: Era dunque questo il momento adatto per passare a parlare con lei, amico mio.
Il Custode: Non capisco il nesso tra le due cose, ma va bene così. Son felice lo stesso.
Il Vagabondo: Eccola lì, una parolina magica che forse può darci uno spunto importante per oggi...
Il Custode: Quale?
Il Vagabondo: “Felice”.
Il Custode: Vuol parlare di felicità?
Il Vagabondo: Diciamo che forse ci tocca finire quanto avevamo iniziato velocemente nel portico l’altro giorno...
Il Custode: Aaah! Finalmente! E mi dica quale spunto ne ricava lei?
Il Vagabondo: Beh partirei dalla sua felicità. Perché mai è felice di parlarmi ogni volta?
Il Custode: Come perché? Perché lo gradisco, perché mi è utile!
Il Vagabondo: Cioè perché la cosa la solletica? La soddisfa? Le dà un ritorno?
Il Custode: Beh, in un certo qual modo...
Il Vagabondo: E io che pensavo fosse per la relazione con me in sé e per sé! Mi dica: ma la sua felicità si riduce forse a questo? A un solletico?
Il Custode: No, aspetti. Non credo... In effetti, sono felice anche quando non ho nessun ritorno di alcun tipo. Sono felice quando ho a che fare con gli altri, per esempio.
Il Vagabondo: Ecco, ora sì che ragioniamo. E penso anche di sapere però quando è più felice: con sua moglie e soprattutto nel “suo” portico. O mi sbaglio forse? In giardino non è felice?
Il Custode: No, non sbaglia!
Il Vagabondo: Ecco, lo vede? E allora perché riduce tutto allo stare con gli altri e soprattutto perché mai quando parla con me invece dovrebbe essere felice solo per un qualche gradimento? Non lo trova un po’ troppo utilitaristico, egoistico? E poi... proprio con me?!
Il Custode: Cielo! Se la mette in questi termini, mi fa pure vergognare... Ha proprio ragione.
Il Vagabondo: Ma non si vergogni! Chi non è infinito non può aver sempre cognizione infinita di ciò che finitamente fa. C’è sempre un margine di errore, o almeno di limite, nella misura in cui l’infinito non ci sostenga continuamente con il suo ininterrotto alitare e nella misura in cui l’uomo non ne avverta il vento su di sé.
Il Custode: Questa è un’interessante riflessione, ma allora la felicità cos’è...?
Il Vagabondo: Direi che potremmo partire, prima di tutto, da ciò che non è. Amico mio, la felicità non è il prodotto di ciò che ci piace fare. Non è legato a un appagamento di qualsiasi tipo. Non è nemmeno il piacere – sensibile o mentale – di stare con gli altri o di sentirli. È, invece, più che altro, uno scampolo di pienezza che ci viene donato. È qualcosa che sopravvive anche nel dolore e spessissimo perfino si nutre di dolore, perché, in fondo è sempre un dolore avere a che fare con qualcosa di diverso da se stessi. La felicità è qualcosa che, a prescindere ciò che ti accade, tu vivi perennemente e, qualche volta, anche in modo più accentuato, perché talvolta ti investe senza che tu te ne accorga. Come quando mangi un dolcetto. Non è che tu ti senta sempre necessariamente “felice” quando lo mangi. Anzi, spesso lo mangi in modo automatico perché ti piace: ti schiavizza se ne sei assuefatto, scende giù velocemente a soddisfare la tua rapacità. E finisce col non darti proprio nulla. Altro che felicità! Infelicità semmai. E questo perché, di fondo, il dolcetto è una banalità, è una banalissima cosa materiale che passa, come lo siete anche lei e sua moglie, amico mio, o tutta l’altra gente presente adesso in questo palazzo. Lei, sua moglie, tutti gli uomini, e il dolcetto insieme a voi, non possono farti felice se cerchi in essi la felicità. Perché sono tutte cose momentanee, passeggere. Eppure, se siamo capaci di distacco rispetto al dolcetto, se siamo capaci di non farci schiavizzare, succede.
Il Custode: Cosa? Cosa succede?
Il Vagabondo: Succede che talvolta quel banalissimo dolcetto, così come quella banalissima persona, in quelmomento, con quella musica in sottofondo, ti eleva. E non senti una confusa contentezza e un acclamante trascinamento dei sensi o della mente, bensì un consapevolissimo e mite rapimento dell’anima. Non ti senti soddisfatto perché quell’effimero è cosa tua, perché ti solletica, perché ti esalta, perché è finalmente ciò che volevi e aspettavi da così tanto tempo! No, non sei eccessivamente soddisfatto o esaltato in un modo o in un altro. Sei divinamente proiettato in un altro mondo, senza alcun eccesso. Non sei trascinato via da qualcosa di stordente e rapitore, né da un appagamento di qualsiasi tipo, ma, anzi, ti fermi con la ragione e capisci. Capisci che la pienezza è, almeno in parte, quella lì. Capisci distintamente che la pienezza di quel momento è porzione potenziata negli effetti di una pienezza più grande che già vivi in ogni istante, se ne sei capace e non ti fai schiavizzare dalle cose. Non un uragano che ti esalta, ma brezza tiepida che ti riempie e ti fa dire: “grazie”. La felicità non è gioia, è illuminazione. Continua illuminazione, al di là del momento bello o brutto che vivi.
Il Custode: È l’eterno toccato con mano! È una divina serenità, imperturbabilità di fronte alle cose, anche negative!
Il Vagabondo: Esattamente.
Il Custode: Ne parlavamo con il signor Teofilo, un coinquilino, qualche giorno fa! Se io avessi però centrato più attenzione su questo aspetto! Stupido, stupido, stupido! (e si batté il palmo della mano sulla fronte)
Il Vagabondo: Oh ma non si crucci. Sono convinto che lei abbia fatto del proprio meglio per arricchire il suo amico...
Il Custode: Lei mi sopravvaluta.
Il Vagabondo: Non credo proprio.
I due si interruppero voltandosi. Si sentì un leggero vociare dalla scalinata.
Signora Ciprioti: Forza, caro, siamo in ritardo! Prima di andare alla mensa, dobbiamo ancora fare la spesa!
Signor Ciprioti: Elvira, ma che ore sono? O madre! Sono già le 18! Fra mezz’ora dovremmo essere a smistare cibo...
Comparvero i coniugi Ciprioti dalle scale e la signora si accorse del Custode e del suo amico.
Signora Ciprioti (sottovoce e quasi fermandosi nelle scale accanto all’orecchio del marito): Francesco! Francesco. Guarda chi c’è! Ancora quell’accattone dell’altro giorno... Adesso è diventato di casa qui?
Signor Ciprioti (sempre sottovoce): È vero, in effetti non me ne stavo accorgendo nella corsa... È un po’ indecoroso per un palazzo come il nostro.
Signora Ciprioti (ancora sottovoce): Che poi secondo me è tutta scena: sembra un morto di fame, ma, per come parla e si atteggia, sarà un benestante che avrà deciso di giocare al clochard.
Signor Ciprioti (abbassando più ancora la voce): Sì, però, per favore, sottovoce e non facciamo scenate. Lascia parlare me.
Scesero le scale e il Vagabondo li guardava con aria compassionevole ma grave.
Il Custode: Buonasera, cari signori!
Signor Ciprioti: Buonasera!
Signora Ciprioti: Buonasera a lei.
Signor Ciprioti (rivolto al Custode): Senta, domani io vorrei parlare con lei, se possibile. Ora non posso perché siamo di fretta.
Il Custode: Ma certamente! Quando vuole lei.
Signor Ciprioti: La ringrazio. Ora ci scusi.
Il Custode: Prego! Buona serata.
I coniugi fecero un cenno sorridendo e andarono verso sinistra. Il Custode osservò il loro incedere e poi soggiunse al Vagabondo: Li perdoni, non sanno quello che fanno, né quello che dicono.
Il Vagabondo: Lo so, lo so. Li conosco bene. Volontariato due ore a settimana... Io li perdono sempre, perché sono schiavi e non vogliono nemmeno vedere in faccia questa realtà, ma avranno la loro ricompensa, temo.
Il Custode: E dire che li ho pure portati spesso nel portico! Ma pare tutto inutile...
Il Vagabondo: Ma per loro il giardino si riduce ad una semplice recita, amico mio. Una recita quotidiana, ma pur sempre una recita. Il loro cuore è corrotto e recita di continuo: ripete stancamente e forzatamente delle parole, delle battute. A se stessi prima ancora che agli altri. Abituati a recitare a se stessi, finiscono perfino per recitar parole col giardino. È una mancanza di semplicità che li porta all’artificio: all’artificio intellettualistico quando vanno in giardino o parlano di cose elevate, a quello emozionale tra di loro, a quello formalistico quando sono in presenza di estranei e finanche all’artificio più insidioso di tutti: quello della devozione e della carità. Ma non conoscono vera devozione, né vera carità. Essi praticano l’amore perché è un prodotto che li soddisfa ed emoziona, che li fa sentire migliori, perché li fa sentire completi e amati. Non per amare l’altro gratuitamente. E, quando si rivolgono ai più vicini, quando l’altro fa loro qualche problema di sorta, ecco che la corruzione esce allo scoperto: manca la calma, manca la contemplazione, la fiducia, l’apertura all'imprevisto della novità. Manca il dono. C’è solo la scostanza, l’affermazione di sé, l’aggressività, l’orgoglio, lo squilibrio. C’è solo il rifiuto e lo spirito di difesa arroccata e di contrattacco nei confronti di chi è lì fuori. E così passano facilmente dalle crasse risate alle liti furibonde.
Il Custode: Quanto è vero... A me dispiace per loro...
Il Vagabondo: Anche a me, ma è difficilissimo riuscire a svegliarli dal torpore. Il dramma è – e qui torniamo al nostro discorso – che questa gente, nel suo continuo impastare bene e male, nella sua tiepidezza e mediocrità, nella sua falsa quiete casalinga e in quella del volontariato, perfino nella quiete del giardino!, non riesce a comprendere di esser vittima di un narcotico che non la rende mai veramente felice. E, quando li metti di fronte ai fatti, di fronte al fatto che questo atteggiamento è, alla fin fine, corrotto e autolesionista, sanno soltanto fuggire dal pungolo che gli conficchi nei fianchi. E finiscono col rifiutare anche gli amici che provano ad aiutarli. Loro cercano solo la quiete, la comodità. Non la pace della felicità. È tutto troppo comodo, statico e senza rischio. E soprattutto è un consumo. Non c’è alcuna uscita fuori di sé per andare incontro agli altri vicini – che è cosa rischiosissima perché comporta sempre il pericolo di ricevere spine anziché rose –, non c’è tutto questo, ma soltanto una poderosa barriera che ogni tanto si abbassa quando lo ritengono opportuno, quando provoca loro un qualche solletico!
Il Custode: Come direi io, non si rendono conto che la vita è un condominio e non una villetta di campagna... Fin tanto che tutto va bene con gli altri, sono dei buoni vicini, ma quando qualcuno di sgradito bussa al loro appartamento...
Il Vagabondo: Ed è per questo, amico mio, che la mettevo in guardia da questi solletichi poco fa. Sin dalle più piccole cose quotidiane non possiamo rischiare che il solletico interiore ci rammollisca e progressivamente e inavvertitamente ci trascini, passando dal piccolo al grande, verso i lidi dei Ciprioti, i lidi della chiusura in se stessi, quelli dell’egoismo travestito d’amore. Perché, vede, sta tutto nelle pieghe. Nelle pieghe di ciò che non vediamo o, meglio, non vogliamo vedere. Nelle pieghe di un discorso osceno che non dovremmo udire, eppure, divertíti, udiamo. Nelle pieghe di un silenzio che dovremmo rompere, eppure non rompiamo. Amico mio, è nelle pieghe della sottigliezza che si nasconde il nostro Nemico. E vigilare su queste pieghe, vigilare sui rilassamenti, non è paranoia né esagerazione: è l’essenza del vero amore per gli altri, l’essenza di ciò che ci fa abbandonare la mediocrità tiepida e ci porta invece alla felicità.
Il Custode: Eppure oserei dire che forse l’essenza della felicità è proprio in giardino, più che non con gli altri. In fondo, solo se attingi l’amore da lì puoi amare anche le persone e, in misura diversa, gli animali e le cose. È quello che diceva prima lei sull’infinito, no? Solo se siamo sostenuti da esso, dal suo alito, possiamo afferrare le cose e sorpassare i nostri limiti e così amare sempre più gli altri, perfino i vicini più scoccianti.
Il Vagabondo (sorridendo): Vedo che ci sta prendendo gusto e sta acquisendo dimestichezza! Allora le dico che non solo oso dirlo, ma che io lo affermo con certezza: vero, la felicità non è nella relazione con gli altri uomini. La felicità è sì amore, ma amore contemplativo. L’amore per gli altri è solo derivato da questo amore più grande. Sono cose collegate, ma la felicità è esattamente coincidente colla sua abitudine di girare nel giardino. Sono cose collegate, impossibili da scindere, ma la priorità...
Il Custode: La priorità sta nel mio segreto: la priorità ce l’ha il portico! Capisco soltanto ora ciò che prima solo passivamente facevo! La ringrazio! Come al solito, lei è stato illuminante.
Il Vagabondo: Considerato come si lamentava la scorsa volta, spero che oggi allora sia appagato da questo nostro dialogo.
Il Custode (sornione): Che fa, mi vuol prendere in fallo? Non si era detto di dover vigilare sul solletico?
Il Vagabondo (ridendo compostamente): Mi ha scoperto! Comunque, visto che oggi, soddisfazione o no, le ho concesso il tempo che le avevo promesso, ora mi tocca andare via. Sono convinto che si sia detto tutto ciò che era necessario dire, quantomeno per adesso. La saluto, amico mio. Ci vediamo prossimamente.
Il Custode: Arrivederci e grazie di tutto.
Il Vagabondo uscì dall’androne diretto verso la destra del palco. E sparì.
Teofilo (fuori campo): Prima o poi dovrà spiegarci chi è mai questo uomo con cui parla.
Il Custode: Eh? Chi va là?
Teofilo (comparendo dalle scale): Curioso personaggio davvero. Riesce perfino a battere i suoi discorsi.
Il Custode: Oh! Buonasera.
Teofilo: Buonasera a lei. Perdoni se ho origliato, ma non ho potuto fare a meno. Stavo scendendo le scale per fare una passeggiata prima di andare a lavorare e mi sono fermato ad ascoltare.
Il Custode: Perdonato, si figuri!
Teofilo: Allora, mi dice chi è, che fa nella vita?
Il Custode: Mi crederebbe se le dicessi che, in un certo senso, non lo so nemmeno io?
Teofilo: È alquanto strano.
Il Custode: Eppure è così.
Teofilo: Mi vorrebbe dire che va e viene, parla con lei, ma lei non sa nulla di lui?
Il Custode: Nulla non direi. È più giusto dire che so l’essenziale. Ma ci sono cose di lui che vanno molto al di là della mia comprensione. E poi non sono stato io a trovarlo. È lui che ha trovato me.
Teofilo: In che senso? Mi spieghi.
Il Custode: Vede, molti anni fa, quando lavoravo come lavascale, passava sempre quest’uomo presso un palazzo. Fu lui a trovarmi nelle scale, mentre mi chiedevo ad alta voce come fare per lavare in modo efficace e veloce il pianerottolo in cui mi trovavo. Lui, sentendomi, mi disse semplicemente: “Perché?”.
Teofilo: Perché cosa?
Il Custode: È proprio quel che mi chiesi io. Ma lui soggiunse: “Non comprende? Il vero problema da chiarire non è mai come lavare le scale, bensì perché lavarle”. Restai imbambolato. In effetti, avevo sempre dato per scontato che dovessi lavarle e non mi ero mai posto la domanda: perché lavavo scale? E perché una scala va lavata, posto che nel giro di poco tempo viene di nuovo sporcata?
Teofilo: E lui che le disse?
Il Custode: Oh nulla! Si presentò e basta. Però... è curioso: non ricordo come disse di chiamarsi.
Teofilo: Questa è bella! Lei parla con uno sconosciuto, con uno Straniero. Non sa nemmeno come si chiami! Come può parlare con lui così facilmente, dargli così tanta fiducia? E come può parlarne in giro così disinvoltamente?
Il Custode: Infatti non posso! Non posso parlarne disinvoltamente se non per quel poco che riesco. Non posso dire a lei, o altri, chi sia. Posso solo farglielo incontrare.
Teofilo: Ma lei lo sa che quell’uomo potrebbe essere un assassino seriale, per quel che ne sa? Non la intimorisce questo rapporto misterioso? Non ha paura del mistero?
Il Custode: Assassino seriale? Si vede che lei ha poco a che fare con lui, ma forse un giorno rimedieremo anche a questo. Comunque no, non ho paura del mistero. La paura è il modo migliore per fuggire dagli altri.Per esempio, secondo me, lei ha paura degli altri.
Teofilo: Suvvia, non esageri.
Il Custode: Non esagero!? Qual è l’ultima volta in cui lei ha dato l’elemosina ad uno straniero o ad un barbone sporco?
Teofilo: Che cosa c’entra?
Il Custode: Si fidi che c’entra eccome. Mi dica, su!
Teofilo: Ma non so... Forse anni fa.
Il Custode: Ecco, e mi vorrebbe dire che, da allora, non ne ha più incontrato uno?
Teofilo: Uhm. Beh. Ecco.
Il Custode: Lo vede? E immagino che ogni volta abbia trovato una scusa convincente per non guardarli o per rispondere loro in modo da allontanarli. Che cos’è questa se non paura?
Teofilo: Lei mi spiazza... Non posso negare che talvolta accampi giustificazioni, ma lei mi sta dicendo che ho paura degli estranei?
Il Custode: No, le sto dicendo che forse ha paura perfino dei suoi vicini, di coloro che ama. Forse ha perfino paura di amare qualcuno che è destinato ad amarla! Forse, in questo preciso istante, lei sta fuggendo da qualcuno e quel qualcuno sta fuggendo da lei.
Teofilo: Questa mi pare proprio grossa, mi scusi... Come si può fuggire dall’amore?
Il Custode: Lei dice? E se le dicessi che conoscevo due persone che invece hanno vissuto tutto questo?
Teofilo: Direi che è incredibile.
Il Custode: Incredibile solo per chi non vuol vedere dentro di sé. Eppure le dico che queste persone di cui le parlo sono reali e l’uomo tra i due è tra l’altro il mio più grande amico, una persona che ho aiutato tantissimo. Le dirò: forse in questo momento potrebbe perfino starci guardando.
Il Custode si voltò verso le porte del teatro e poi verso le quinte del palco mentre diceva queste ultime parole.
Teofilo: Stento a comprendere, ma sono curioso di conoscere la storia di quest’uomo.
Il Custode: Vede, l’amore è una cosa troppo complicata per il cuore dell’essere umano. È l’Oceano che si riversa in delle misere tazze da tè. Ricorda che dicevamo la scorsa volta? L’infinito, l’eterno a cui fare spazio? Ecco, l’Oceano è l’infinito cui devi far posto. Devi rompere la tua tazza, rompere te stesso, per quanto possibile, perché l’Oceano esondi, perché tu possa farlo spargere dentro e intorno a te. Non puoi possederlo né completamente capirlo. Spesso però l’uomo non riesce a comprendere. Pensa che l’amore sia di origine naturale e che dipenda da lui stesso, da una sua qualche induzione, come se si potesse, in qualche modo, “trovare”, “sondare”, “provare”, “sperimentare”. Come se fosse una propria ricerca. In realtà, non sei tu che cerchi: deve essere l’Oceano a trovare te. È qualcosa di soprannaturale. Ma se tu non lo capisci e continui a cercare, cercare, finisci soltanto col non trovare l’Oceano. Finisci col fuggire da esso per perderti in minuti bicchieri d’acqua minerale.
Teofilo: E questo cosa ha a che vedere con il suo amico?
Il Custode: Beh lui e la donna di cui parlo per molto tempo hanno fatto questo errore: l’Oceano sussurrava ad entrambi con la sua risacca. Era un richiamo continuo, ma essi non riuscivano a vedere. E non vedevano perché cercavano altrove, lontano. E avevano paura di cercarsi a vicenda: fuggivano dall’idea che l’altro lì accanto potesse essere ciò che il richiamo sussurrava loro.
Teofilo: E, alla fine, come andò?
Il Custode: Accadde che la paura prevalse. A furia di cercare altrove, quando capirono quale strada era quella giusta, si spaventarono. Era troppo inaspettato, troppo incomprensibile. Ed era incomprensibile perché non avevano capito cosa fosse realmente amare. A furia di strappi, di fughe, quando presero atto della realtà, rimasero sconvolti. E questa consapevolezza li ferì.
Teofilo: E penso anche di capire perché li ferì: perché il richiamo oceanico che avevano dentro era da loro soffocato, ma continuava a soffiare. Era necessario fuggire da quel soffio perpetuo per non ascoltarlo, per non affrontare quella paura.
Il Custode: Fu una ferita che non guarì mai. Poteva guarire solo affrontandola, ascoltando e accettando quel richiamo, ma la paura continuò a prevalere e li costrinse a fuggire ancora, a non guarire mai.
Teofilo: Lei mi sta dicendo che l’amore non è una facile commedia in cui la trama impone ai protagonisti momenti di difficoltà. Mi sta dicendo che l’amore è tutto un dramma e che, solo se tutto va bene, termina col lieto fine?!
Il Custode: Sì, l’amore – e badi bene: non solo quello di coppia, ma principalmente quello di coppia – è una trama. È perfino un lungo poema epico. Ma è come il poema di Ulisse, ha presente? Quanti uomini devono perire prima di riuscire a tornare in patria?
Teofilo: Ma, messa così, fa ancora più paura! Fanno bene le persone a fuggire, se l’amore vero è così drammatico.
Il Custode: Non capisce? È drammatico perché siamo noi a complicarlo. Perché noi stessi non siamo abituati ad esso. Siamo noi che lo drammatizziamo! Se non fuggissimo, tutto risulterebbe più facile, per quanto certamente non sia una passeggiata. Dovremmo solo fare spazio all’Oceano, ma la nostra limitatezza di vedute, la nostra arroganza, non ci permette di metterci in ascolto del sussurro. Pensiamo di aver capito tutto, quando invece non abbiamo capito alcunché, perché l’amore non è alla nostra misera portata e in esso non c’è nulla da capire. Quando pensiamo di aver capito tutto e di dover “cercare”, noi uomini siamo incapaci di discernimento (ecco la parola chiave!) perché pensiamo che l’amore sia complicato solo a causa dell’avere a che fare con l’altro, mentre invece è complicato perché è difficile anche solo comprendere quando si stia realmente amando. Proprio a questo si riduce tutta la trama drammatica di ogni amore: alla fuga dal discernimento. Il dramma sta nel non capire che l’origine è tutta nella sopranatura, nel mistero. Lei mi diceva: “non ha paura del mistero?”. Se ne avessi paura, mi complicherei la vita! L'amore, dunque la vita, è ascoltarlo pienamente, quel mistero. Abbracciarlo! Se solo sapessimo davvero ascoltare!
Teofilo: Eppure pochi penso si mettano in ascolto. E chi ci prova ne viene subito distratto, ricadendo nella ricerca spasmodica di cui mi diceva lei...
Ora comprendo meglio perché oggi sia così difficile amare. Ora capisco meglio perché la musica è talmente importante per noi e per la nostra capacità di comprendere l’amore e l’eterno. Siamo asserragliati in una rocca attorniata da nemici... Tutto è rumore, è velocità, è vacuità. Tutto è non pensiero, per quanto talvolta camuffato di pensiero. Tutto congiura contro l’eterno e dunque congiura contro di noi e contro il nostro più alto destino! Oh infelice generazione! Siamo proprio dei miseri, degli sfortunati!
Carissimo, lei mi ha davvero aperto gli occhi.
Il Custode: Ne sono ben felice, ma ora le tocca passare alla pratica dopo la teoria. L’apertura all’ascolto del mistero è fragile se non viene alimentata. La fuga è sempre lì in agguato, cerca di rapirti e portarti via.
Teofilo: Ho già compreso cosa intende dire... Vorrà dire che mi tocca proprio fare questo passo? Andare in giardino con la sua gradita compagnia e custodia?
Il Custode: Direi proprio di sì.
Teofilo: Allora andiamo!
I due uomini presero per il corridoio alla destra delle scale e scomparvero. Dopo pochi attimi, il signor Christian entrava nell'androne.".
Filippo ha dimostrato di avere un legame profondo con la parola. Lo ammiro.
Questo è il prosieguo da quanto da me riportato il 9 giugno scorso.
In queste parole c'è della verità.
L'amore, in senso generico, è una cosa molto complessa.
Amare, infatti, significa essere vicini ad una persona nel bene e nel male.
Non si ama una persona standole vicini nei momenti buoni ed abbandonandola quando cade in disgrazia.
E' molto facile dire di essere amici di una persona, quando questa gode di buona salute, di ricchezza e di buona reputazione.
Mi viene in mente la storia di una persona che conosco e che abitava qui a Roncoferraro, Mantova.
Questa persona era ricchissima.
Il suo cognome era molto noto, qui a Roncoferraro e non solo.
Questa persona aveva amici che uscivano e viaggiavano con lui e la sua famiglia.
Facevano cene e viaggi.
Poi, però, questa persona cadde in disgrazia e rimase povera.
Quegli stessi "amici", che con questa persona avevano mangiato e bevuto, lo abbandonarono.
Io non posso certamente dare "lezioni di amicizia".
Come amico, in passato, io non sono stato certamente il massimo.
Però, so che l'amicizia è una forma di amore, la "philia" di cui parla l'enciclica di Papa Benedetto XVI "Deus caritas est".
Gli "amici" amarono veramente questa persona?
La risposta appare scontata: no.
Se l'avessero amata veramente, non l'avrebbero abbandonata.
L'amicizia è cosa seria.
Del resto, anch'io ho avuto i miei alti e bassi in fatto di amicizie.
A volte, ho sbagliato con i miei amici.
Altre volte, hanno sbagliato loro con me.
Poi, quando ci si mette la politica (si sa, io sono un militante di un partito) le cose si complicano.
L'amore verso il prossimo è sacrificio.
Del resto, Dio stesso ce lo insegnò.
Egli mandò suo Figlio Gesù Cristo, che morì sulla croce, prima di risorgere.
Amare il prossimo significa rinunciare almeno ad una parte di sé stessi.
Lo stesso discorso vale per l'amore per Dio.
Amare Dio significa sì rinunciare a sé stessi ma poi quando si ama Dio si avrà un tesoro assai più grande nella vita futura.
A chi ama tanto si perdona tanto.
Cordiali saluti.
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