Cari amici ed amiche.
Prendo spunto da questa nota che l'amico Andrea Casiere ha messo su Facebook:
"Ruggero d’Altavilla, dopo aver definitivamente sconfitto i musulmani oltre a preoccuparsi di dare stabilità politica alla Sicilia, aveva anche da risolvere il problema religioso. Poiché la maggior parte degli abitanti dell'isola erano di religione musulmana o, in minoranza, cristiana ortodossa, inizialmente la politica degli Altavilla in Sicilia fu orientata a sostenere la tradizione greco-basiliana, finanziando con donazioni e rendite la costruzione di nuovi monasteri ortodossi. Il Conte di Sicilia e di Calabria, per garantire l'unità del suo nuovo stato, pensò bene di affidare alla chiesa bizantina il compito di rafforzare e sostenere anche nelle periferie il potere degli Altavilla anche perché il rito bizantino prevedeva la possibilità della subordinazione degli istituti ecclesiastici al sovrano, purché cristiano. Fu così che in quegli anni i monasteri basiliani in Sicilia, raggiunsero il numero di circa settanta, alcuni dei quali sopravvivono ancora oggi.[1]
Il furbo Conte Ruggero si era reso conto che il Patriarca di Costantinopoli, suprema autorità religiosa Bizantina, non solo era fisicamente più lontano ma soprattutto era meno efficiente del Papa e sarebbe stato poco invadente nelle questioni religiose della Sicilia, lasciando mano libera all’autorità laica di controllare i centri nevralgici della vita ecclesiastica.
Ruggero I d’Altavilla, Gran Conte di Sicilia
Il primo arcivescovo di Palermo normanna fu, infatti, un greco [2], e Ruggero determinò l’area ed il numero delle diocesi che sosteneva con le donazioni del suo tesoro privato. In quello che fu il periodo storico contrassegnato dalla lotta per le investiture, quando cioè la Chiesa Romana rifiutava severamente qualsiasi ingerenza del potere laico nella scelta dei vescovi, Ruggero, nei suoi domini, sceglieva personalmente i suoi vescovi. E sebbene alcuni territori siciliani fin dall'età dell'imperatore Giustiniano erano stati per lungo tempo latifondi della diocesi di Roma e in questi possedimenti, conosciuti come Siciliae patrimonium ecclesiae, l’economia era ancora gestita da funzionari e da clero fedeli a Roma e la popolazione ivi residente seguiva il rito latino, la Curia di Roma dovette adattarsi alle prerogative dello Stato normanno sottostando al controllo di Ruggero. Il Papa fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco poiché il papato aveva bisogno dell’appoggio politico e militare normanno sia per la sua opposizione ad Enrico IV sia contro Bisanzio.
Per la prima volta la chiesa di Roma era costretta a concedere ad un sovrano laico molti privilegi amministrativi, fra i quali la possibilità di gestire le cariche episcopali, il patrimonio finanziario delle diocesi e l'istituzione di metropoli. Da allora le arcidiocesi della chiesa romana, in Sicilia, non si posero come soggetto giuridico indipendente, come nel resto d'Italia ma, alla maniera di Bisanzio, erano subordinate al potere laico degli Altavilla, accentrato in Palermo.
Urbano II per trattare con il normanno era venuto personalmente in Sicilia e grazie alla sua diplomazia ottenne comunque che le nuove diocesi aderissero a Roma piuttosto che a Bisanzio, ma di lì a poco commise un imperdonabile errore politico nominando Roberto, vescovo di Troina e Messina, legato pontificio in Sicilia senza previo consenso e approvazione del Gran Conte e con l’evidente scopo di limitare i poteri esercitati in materia ecclesiastica da Ruggero.
La reazione del normanno, a tutela della sua indiscussa autorità, non si fece attendere: arrestò il vescovo e impose al Papa l’annullamento della nomina.
Il contrasto fu sanato da un incontro del papa con il conte a Salerno, che si risolse con l'emanazione della bolla Quia propter prudentiam tuam del 5 luglio 1098, con la quale Urbano II disciplinava l'eventuale nomina di altri legati nell'isola, subordinandola all'accordo del conte e sostanzialmente riconoscendogli un diritto di veto.[3]
Oltre alla facoltà di intervenire nella nomina dei legati, e quindi di controllarne indirettamente l'ingresso e l'attività nei suoi domini, il conte Ruggero ottenne una seconda concessione, con la quale veniva praticamente riconosciuta la legittimità dell'ingerenza sua e dei successori negli affari e nella vita della Chiesa, purché subordinata all'esecuzione delle direttive pontificie e in mancanza di un legato, il conte avrebbe potuto sostituirlo.
Il Conte ottenne così per sé e per i suoi successori il diritto di giurisdizione sulle cose ecclesiastiche che veniva esercitato attraverso il tribunale della “Regia Monarchia” intendendosi, con tale denominazione, la doppia potestà temporale e spirituale del sovrano. Tale pretesa, come quella di vietare la presenza di legati pontifici nei propri domini, trovava vari riscontri contemporanei, particolarmente negli altri territori normanni: nella stessa Normandia e nel Regno d'Inghilterra.
Ruggero ebbe così il pieno potere di nominare i vescovi e di destituirli. Ottenne anche il diritto di portare l’anello ed il pastorale, per cui l’unione del potere civile e religioso fece di lui quasi un “antipapa”. Questa forza particolare consolidò enormemente il potere dei re di Sicilia, indebolendo quasi del tutto l’autorità del Papa nell’isola.[4]
Ruggero II
Nel 1117, tuttavia papa Pasquale II [5], pur riconfermando il privilegio a Ruggero II, introdusse una interpretazione restrittiva. Si ribadì il carattere soltanto esecutivo della facoltà attribuita al conte di Sicilia di sostituirsi al legato e si precisò che le direttive, alle quali il conte avrebbe dovuto attenersi in qualità di legato, potevano essere trasmesse in Sicilia per mezzo di legati pontifici ex latere. Ciò avrebbe consentito la reintroduzione in Sicilia dei legati pontifici, giocando sul fatto che non si sarebbe trattato di legazioni aventi carattere di stabilità e permanenza, come era stato il caso del vescovo di Troina. [6]
Altri accordi conclusi a Benevento nel 1156 tra Guglielmo I e Adriano IV introdussero ulteriori innovazioni. Il papa confermò al re, per la sola isola di Sicilia, due delle facoltà attribuite da Urbano II: l'esclusione di legati che non venissero dietro sua richiesta ( mentre nella parte continentale del Regno l'invio di legati pontifici era libero) e la facoltà di trattenere discrezionalmente gli ecclesiastici convocati dal papa. Fu inoltre esclusa, sempre per la sola isola, la possibilità di appellarsi a Roma per le cause ecclesiastiche. Ma venne stralciata nell'accordo beneventano la facoltà di sostituirsi al legato pontificio, che aveva fino ad allora consentito di parlare di attribuzione della legazia apostolica.
Il popolo e i militi del Regno acclamanti rispettivamente. Tancredi e il conte d’Andria candidati al trono di Sicilia. (Pietro da Eboli)
Un altro concordato concluso a Gravina nel 1192 tra Celestino III e Tancredi, in una situazione di particolare debolezza del Regno, ammise anche per l'isola il libero invio di legati ogni cinque anni, o più spesso, se necessario o se richiesto dal re, ed eliminò il divieto di appello a Roma. La Sicilia perdeva così ogni status speciale. Rimase però prassi che il re di Sicilia fosse legato apostolico, infatti nella Summa decretorum, redatta negli ultimi decenni del XII sec. da Uguccione da Pisa, l'autore, rileva l'esistenza di alcune prassi particolari del diritto ecclesiastico siciliano e specifica che il re di Sicilia aveva la qualifica di legatus e godeva di speciali privilegi iure legationis.[7]
Con un ulteriore concordato dell'ottobre 1198, papa Innocenzo III strappò all’imperatrice Costanza la ratifica degli accordi conclusi a Gravina. L'assimilazione dell'isola al continente fu così assicurata e fu annullata ogni autonomia ecclesiastica da Roma, tanto in materia di appelli che di legazioni, e tutto il Regno finì anzi per essere amministrato dai legati pontifici. Al re restava soltanto la facoltà di non consentire a elezioni episcopali liberamente decise dai capitoli, ma il veto regio non bastava, occorreva anche quello pontificio.
Ruggero II sposa, in terze nozze, Beatrice. Nascita di Costanza
(Pietro da Eboli)
Fu per questo motivo che l'elezione dell'arcivescovo di Palermo fornì a Federico II, appena pochi giorni dopo il raggiungimento della maggiore età e l'assunzione diretta delle funzioni regali, il primo motivo di contrasto col papa.
Dopo la morte di Federico, fiero difensore dello Stato laico in Sicilia, i papi, forti del loro diritto feudale, ripresero la politica di opposizione alla Corona di Sicilia e tentarono di vendere il Regno, loro feudo, agli stranieri. Contrattarono infatti la Corona di Sicilia con gli Inglesi offrendo il Regno prima a Riccardo di Cornovaglia, fratello del re di Inghilterra, che non accettò, ritenendo il prezzo della vendita troppo alto, e poi al figlio di questi, Edmondo di Lancaster, un ragazzo di dieci anni che, su forte pressione del legato papale, accettò e si fece chiamare “re di Sicilia per grazia di Dio” ma in seguito dovette rinunziare al titolo per la forte opposizione dei baroni inglesi cui non importava nulla, in quel tempo, della Sicilia. Nel 1261 infine, un papa francese, Urbano IV, rinnovò l’offerta a Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia. Questi accettò promettendo anche di rinunciare alla Legazia Apostolica, di sopprimere il tribunale della “Regia Monarchia” e di esonerare il clero dal pagamento delle imposte. Con queste promesse, Carlo d’Angiò ottenne l’appoggio della Curia Romana, che bandì una crociata di cristiani contro altri cristiani, con il sostegno del Tesoro Pontificio. In tal modo alla morte di Manfredi, a Benevento nel 1266, il papa regalò il trono di Sicilia al francese. In realtà Carlo d’Angiò non mantenne poi la promessa di rinunziare alla carica di Legato Apostolico, e quando la Sicilia passò in mani aragonesi, costoro non solo ripudiarono la signoria feudale del Papa, ma confermarono il proprio diritto al titolo di legato apostolico con il potere esclusivo di nominare i vescovi e di sovrintendere alla Chiesa di Sicilia fino a divenire un privilegio del re di Spagna Filippo II.[8]
Clemente IV incorona Carlo I d'Angiò
I re spagnoli erano considerati sia capi spirituali che temporali tanto che nelle suppliche il re era appellato come “Santissimo Padre” e il prelato spagnolo rappresentante l’autorità ecclesiastica in Sicilia aveva il potere dell’ultima parola nelle cause ecclesiastiche. Lo stesso tribunale dell’Inquisizione, braccio armato della Chiesa, riconosceva l’autorità di Madrid piuttosto che quella della Curia Romana.
Il viceré spagnolo controllava l’operato dei preti, obbligava i cittadini ad ascoltare la messa domenicale, proibiva ai medici di curare gli ammalati che avevano rifiutato la confessione ed era particolarmente esigente nei riguardi dei sudditi marrani o moriscos.[9]
La Chiesa siciliana era lontana da Roma ma anche da Madrid ed a lungo andare questa “libertà” comportò un rilassamento nel costume religioso: il clero divenne ignorante e superstizioso, molti preti convivevano con le loro donne, come pure molti frati e suore che, tra l’altro, secondo il costume dell’epoca venivano avviati al monastero o alla carriera ecclesiastica per rispettare la legge del maggiorascato e non certo per vocazione, e inoltre si diffuse il malcostume di vendere i sacramenti.
Tuttavia, in Sicilia, il conflitto tra Chiesa e Stato non cessò mai. Molti viceré, assieme a tutti i siciliani, furono scomunicati e nel 1555 papa Paolo IV, durante la sua guerra con Filippo II di Spagna arrivò al punto di “confiscare” la Sicilia per cederla a Venezia e alle galere pontificie fu permessa la “corsa” contro le navi siciliane cariche di frumento e di sete. La reazione del re di Spagna, a tutela del suo diritto di legato apostolico, fu durissima: fece affondare numerose navi del Papa e proibì con pene severissime la diffusione in Sicilia di tutti gli atti e decisioni della Curia Romana.
Filippo II
Filippo III
Filippo IV
Ovviamente l’alto clero siciliano, per difendere i suoi privilegi, si schierò dalla parte della Corona di Spagna. Vescovi e abati delle più importanti diocesi godevano, infatti, di enormi ricchezze, frutto dei patronati reali: l’arcivescovo di Monreale, ad esempio, possedeva ben settantadue feudi ed un reddito annuo di 40.000 scudi d’oro, l’arcivescovo di Palermo e il vescovo di Catania disponevano di 20.000 scudi all’anno, somme da capogiro ben superiori allo stipendio del viceré. I beni della Chiesa siciliana godevano infine della “Manomorta ecclesiastica” che sottraeva alla tassazione dello Stato i feudi religiosi, per cui i lasciti e le donazioni alle chiese e ai conventi erano in fortissimo aumento.[10]
Questa situazione rendeva nullo ogni tentativo papale tendente a sopprimere o minimizzare gli effetti della Legazia Apostolica in Sicilia mentre si rafforzava il controllo del re sulla Chiesa, inoltre le cariche ecclesiastiche più importanti vennero concesse con sempre maggiore frequenza a prelati spagnoli. Fra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700 il clima sull’Apostolica Legazia di Sicilia si fece ancora più rovente per via di un saggio, il Tractatus de Monarchia Siciliae, del cardinale Cesare Baronio [11], nel quale si metteva in discussione l’autenticità della bolla di papa Urbano II, negando quindi la validità giuridica del tribunale della “Regia Monarchia”.
I realisti sostenevano il pieno diritto della posizione assunta dalla Corte, mentre i curialisti difendevano le ragioni della Santa Sede. Dal piano strettamente giuridico si passò a quello teologico e i realisti, forti delle dottrine cartesiane e gianseniste, rivendicarono l’antico ordinamento della Chiesa e l’autonomia delle diocesi in contrapposizione con il centralismo della Curia Romana. La Legazia Apostolica veniva vista come un particolare istituto giuridico – religioso che conferiva piena autonomia alla Chiesa siciliana.
Il conflitto sul tema della Apostolica Legazia di Sicilia tornò prepotentemente di attualità il 22 gennaio del 1711, ancora in periodo spagnolo, per un incidente probabilmente voluto dalla curia pontificia, che accadde a Lipari, unica diocesi siciliana che dipendeva direttamente da Roma, per una questione originariamente marginale, ma che divenne tema centrale dello scontro fra Stato e Chiesa, attraversando più dinastie, e che passò alla storia come la “Controversia liparitana”.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
Gennaio 2011
Note
[1] Soltanto a Palermo pare ci fossero venti Chiese Ortodosse.
[2] Quando i Normanni conquistarono la città nel 1072 trovarono il vescovo, Nicodemo, che dispensava la fede cristiana. L'antica chiesa di Santa Maria, che era stata trasformata in moschea duecentoquaranta anni prima, fu riconsacrata e Nicodemo vi celebrò un Te Deum di ringraziamento.
[3] Ne dà notizia soltanto la cronaca di Goffredo Malaterra, che termina con il racconto della concessione e il testo della bolla pontificia.
[4] L'esercizio della legazia apostolica ebbe definitivamente termine nel 1871 con la promulgazione della legge delle guarentigie.
[5] Fu consacrato papa, in successione ad Urbano II, il 19 agosto 1099. La sua elezione fu per buona parte dovuta all'appoggio economico e militare dei Normanni, che stroncarono il tentativo da parte della nobiltà romana di eleggere un antipapa (sostenuto anche dal clero tedesco e dallo scomunicato imperatore Enrico IV), nella persona di Alberto cardinale di Santa Rufina, dopo la deposizione dell'Antipapa Teodorico. (da Wikipedia)
[6] Con questi privilegi nel 1117 fu fondata per mano dei sovrani normanni una delle più grandi arcidiocesi storiche della Sicilia, Monreale (provincia Monsrealensis), nella cui giurisdizione furono incluse le chiese dell'area meridionale ancora legate alla tradizione bizantina.
[7] Il titolo di legatus Siciliae fu legato dapprima al titolo di comes Siciliae di Ruggero I, e quindi a quello di rex Siciliae fino a Carlo d'Angiò, e poi a quello di rex Trinacriae. Il titolo di legatus Siciliae rimase identico nei secoli, perciò la corona siciliana rimase sempre identificata come Regia Monarchia di Sicilia, benché il titolo della sovranità sull'isola nella storia sia stata espressa secondo diverse denominazioni (re di Sicilia, re di Trinacria, vicereame spagnolo di Sicilia).
[8] Il titolo di Regia Monarchia, fu incluso nel 1508 da Giovan Luca Barberi nei Capibrevi, raccolta di documenti commessagli da Ferdinando il Cattolico per verificare e rivendicare i diritti della Corona siciliana. Contravvenendo al metodo seguito per gli altri documenti, Barberi non ne indicò la fonte. Ne dette inoltre una interpretazione, secondo la quale i re siciliani erano legati nati de latere, per diritto ereditario e in perpetuo. La sua teoria della Monarchia, intesa etimologicamente come unità di potere temporale e spirituale nei re di Sicilia, poggia sulla prassi consuetudinaria in materia ecclesiastica, oltre che sulla concessione di Urbano II. ( S. Fodale, Stato e Chiesa dal privilegio di Urbano II a Giovan Luca Barberi, in Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, pp. 575-600.)
[9] In seguito ad una bolla papale del 1478 venne istituita dai Re Cattolici, Isabella I di Castiglia e Ferdinando II d’ Aragona, nel 1481, l’inquisizione, un organismo dipendente dalla corona rivolto principalmente contro i marranos (ebrei convertiti) e moriscos (musulmani dei territori riconquistati).
[10] Il complesso dei beni ecclesiastici, legati da un vincolo di inalienabilità, applicato agli stessi enti proprietari di questi beni; fin dai primi secoli del Medioevo si era infatti affermata la tutela del patrimonio ecclesiastico e la sua inalienabilità. L'età moderna fu caratterizzata dallo scontro tra lo stato, le cui entrate fiscali erano danneggiate dall'immobilità di questi beni, e la Chiesa, che richiedeva la totale esenzione fiscale per il proprio patrimonio.
[11] Cesare Baronio (Sora, 30 ottobre 1538 – Roma, 30 giugno 1607) è stato uno storico, religioso e cardinale italiano. Membro degli Oratoriani di San Filippo Neri, nel 1596 papa Clemente VIII lo innalzò alla dignità cardinalizia: il suo nome è legato alla redazione dei primi volumi degli Annales ecclesiastici (storia della Chiesa dalle origini al 1198) e alla revisione del Martirologio Romano (1586 - 1589). Partecipò ai conclavi del 1605 (quelli da cui uscirono eletti Leone XI e Paolo V); il suo nome fu anche indicato tra quelli dei papabili, ma la sua elezione fu ostacolata dalla Spagna (Baronio era filo-francese e aveva pubblicato il Tractatus de Monarchia Siciliae, contro il dominio spagnolo sull'Italia meridionale)."
Debbo dire che Andrea si sia veramente documentato.Ha attinto da varie fonti (da Wikipedia ai testi di Goffredo Malaterra) per fare questa nota dedicata alla legazia apostolica del Regno di Sicilia.
Gli faccio i miei complimenti.
Da questa nota prendo spunto per trattare la storia di Galati Mamertino, Comune della Provincia di Messina, di cui ho parlato in vari articoli, come quelli intitolati "Storia della Sicilia in un Borgo" e "Il mio viaggio in Sicilia" . e che è il paese d'origine della famiglia di mia madre.
Questo centro abitato ha origini medioevali ed io (che sono appassionato di storia medioevale) non potevo non interessarmene.
Per la verità, la sua bibliografia ha molti lati oscuri, specie nel periodo medioevale. Si sa che il dominio arabo in Sicilia durò dall'827 AD al 1091, con la caduta di Noto.
Non si sa molto di quello che accadde a Galati Mamertino.
Io provo a fare una "ricostruzione".
Secondo alcuni, il nome "Galati" deriva dal greco Calacte e risale al periodo di Ducezio, il re dei Siculi (488 BC-440 BC), mentre "Mamertino" allude ai Mamertini, i soldati mercenari di origine campana che combatterono la I Guerra punica. Anzi, pare che il termine "Calacte" fosse una storpiatura di Kalè Aktè, il luogo in cui lo stesso Ducezio si arroccò e morì. Quindi, di fatto, Galati Mamertino fu una capitale.
In realtà, è più probabile che il termine Galati derivi dall'arabo Qalat.
Effettivamente, la pianta del centro abitato ricorda le città arabe, con le sue vie tortuose e le case affastellate tra loro.
Secondo le poche fonti storiche, pare che la dominazione araba non fosse stata lunga.
Pare che fosse durata solo una novantina d'anni.
Però, il tempo fu sufficiente per creare una comunità.
Il fatto che il paese fosse di origine araba è testimoniato da quella che è oggi la chiesa della Madonna del Rosario.
In origine, questa chiesa era intitolata a San Martino (e diede il nome al quartiere vicino, quartiere che è quello della famiglia di mia madre, ove vi è la casa che era dei miei nonni) ed era la chiesa parrocchiale.
Nel periodo arabo, le chiese potevano essere costruite costruite ma con forti limitazioni.
Ad esempio, non potevano essere collocate vicino alle piazze né aprirsi sulla pubblica via.
Questa chiesa non si apriva sulla pubblica via. Ancora oggi è così.
Quella chiesa fu sede della parrocchia fino al XVI secolo, anno in cui fu costruita la chiesa si Santa Maria Assunta, che si trova in Piazza San Giacomo.
Nel Medio Evo, questa piazza (come la chiesa) non esistevano.
Il centro abitato era controllato da un signore detto "Eayah" che risiedeva nel castello, che pare fosse stato realizzato in luogo di un fortilizio fondato da Ducezio.
Il castello era orientato verso la Mecca ed era difeso da cinte di mura nel tratto accessibile da sud. Sotto tale fortilizio vi erano dei locali sotterranei e cunicoli, che ancora oggi ci sono, se pur non visitabili.
Con l'arrivo dei Normanni (1061 AD), le cose combiarono.
Pur non smantellando le strutture istituzionali preesistenti, i Normanni rafforzarono l'elemento cristiano.
In particolare, crebbero le comunità cristiane di rito greco, come testimonia il monastero di San Filippo di Fragalà che si trova a Frazzanò.Anche a Galati fu realizzato un metochio.I Normanni, comunque, provvedettero alla latinizzazione della Sicilia.
Nel castello fecero realizzare una chiesa dedicata a San Michele, di cui oggi resta l'abside, che può essere visto nella foto qui sopra.
Con ogni probabilità, la chiesa fu realizzata nella zona in cui vi era la moschea.
Furono edificati nuovi quartieri nella vicina collina. Qui venne costruita anche l'Universitas Galatensis, di cui oggi resta una loggia del XIII secolo formata da tre archi romanici che guardavano i tre quartieri della città, San Martino, Santa Caterina (che prende il nome dalla chiesa di Santa Caterina) ed il Castello.
Successivamente, il paese prese l'aspetto attuale e nella piazza antistante la casa dell'Universitas Galatensis (oggi largo Toselli) vi è un rudere di una torre, la Torre dell'Orologio (detta 'u rroggiu vecchiu) che è di epoca incerta.
Dal XIV secolo in poi, il centro abitato si espanse.
Furono fatte le due "chiese gemelle", la chiesa di Santa Maria Assunta (la parrocchiale) e la chiesa di San Luca, nella foto qui sotto.
Quest'ultima oggi è chiusa al publico ed è in grave stato di abbandono.
Stando alle fonti, essa risale al 1764, e nel 1908 fu danneggiata dal terremoto ed è in stile rinascimentale.
Ora, io lancio un appello alle istuzioni competenti che facciano qualcosa per questo monumento che è in rovina.
Sarebbe un peccato mortale mandare in rovina un simile capolavoro che, tra l'altro, troneggia su una scalinata monumentale.
Cosa lasceremmo a chi verrà dopo di noi, se trascurassimo i beni che testimoniano la nostra storia?
Vi consiglio di visitare il sito "Storia Medioevale-dai Castelli ai Monstra" e di leggere l'articolo a cura di Giuseppe Tropea che è intitolato "Provincia di Messina-Galati Mamertino-resti del castello". Il mio appello vale anche per qualche privato facoltoso e di buona volontà e che abbia voglia di investire i propri soldi in un bene di grande valore artistico, qual è la chiesa di San Luca.
Cordiali saluti.
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