Cari amici ed amiche.
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"Il progetto diabolico di Lenin e compagni si concluse vent’anni fa. Il 26 dicembre del 1991 Mikhail Gorbaciov, sulla scia del vento che aveva spazzato il Muro di Berlino, sciolse ufficialmente l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss), nata nel lontano 1922. Per quasi settant’anni, nel primo stato socialistadel mondo lo spettro comunista agitato da Marx si rivelò un sistema disumano in carne e ossa. E oggi a distanza di vent’anni si fa ancora fatica a comprendere la portata di quell’incubo. «Non abbiamo ancora chiarito le relazioni con il nostro passato. Non abbiamo fatto l’atto di pentimento a cui ci esortava Solženicyn».
È la denuncia amara di Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, 62 anni, poetessa e voce tra le più brillanti della cultura russa contemporanea, conosciuta in Italia anche grazie all’opera di Russia Cristiana che ha pubblicato l’ultima sua opera in italiano Apologia della ragione (La Casa di Matriona, 2009). Originaria di Mosca, la Sedakova ha cominciato a comporre poesie quando ancora non sapeva leggere e scrivere «da che mi ricordo e forse anche prima», puntualizza. Una passione fomentata proprio dagli anni del comunismo sovietico. «Sentivamo un bisogno vitale della parola poetica, di una parola alta, ispirata» spiega richiamando gli altri grandi colleghi poeti e artisti esiliati in patria, come Osip Mandel’stam, Josif Brodskij e Boris Pasternak. Una «generazione letteraria perduta» dice la Sedakova, messa al bando nel paese dei soviet. “Inattuali” e sgraditi al regime, trovavano come unici interlocutori i grandi classici della cultura mondiale. «Solo in una prigione come l’Unione sovietica – spiega la poetessa – si poteva amare Dante e Omero al modo in cui noi li amavamo: come la nostra personale salvezza». E la produzione poetica della Sedakova, rimasta a lungo ai margini negli anni ’70-’80 e affidata ai samidzat, alle copie dattiloscritte clandestine, è venuta alla luce solo alla fine dell’Urss.
Che ricordo ha lei del comunismo sovietico?
Il regime sovietico ha avuto varie fasi, molto diverse tra loro. La mia infanzia è coincisa con il periodo allegro e abbastanza stolido del “disgelo” degli anni Sessanta. Negli anni della maturità ho visto la lunga epoca della “stagnazione”, la lenta dissoluzione del regime. Un’impressione di soffocante assurdità, di falsità generalizzata (anche i bambini sapevano mostrarsi “ideologicamente agguerriti”), di squallore. E di vergogna. Perché i delitti di epoca staliniana erano già stati parzialmente scoperti nell’epoca del disgelo, ma poi furono nuovamente occultati, e quindi – in qualche modo – noi tradivamo per la seconda volta coloro che erano stati annientati dal nostro potere. La vergogna nasceva dal fatto che senza collaborazionismo non si poteva far niente: perfino ottenere un diploma, senza dare gli esami delle materie ideologiche, tra cui l’«ateismo scientifico» era impossibile. Ne parlo in modo particolare inElegia che trascolora in requiem, (tradotta da tempo in italiano da Francesca Chessa, ma finora la sua bellissima traduzione non è ancora stata pubblicata). Un testo ponderoso, una sorta di compianto funebre di tutta la storia sovietica. L’ho scritto nel periodo dei «funerali di Stato», quando uno dopo l’altro morivano i nostri capi: Brežnev, Andropov, ?ernenko. Avevo iniziato questo poema alla morte di Brežnev, e l’ho terminato alla vigilia della morte di ?ernenko. L’epoca si concluse con una lunga agonia. “Piangiamo tutto ciò che con lui seppelliamo” scrissi. Con lui, cioè volevo dire i nostri governanti. Naturalmente si trattava di versi proibiti, che circolavano nel samizdat. E io non mi sarei azzardata a recitarli in qualunque casa di conoscenti. Sul mondo del “socialismo reale” ho scritto anche una prosa:Viaggio a Brjansk. Questo testo, un tempo considerato terribilmente sovversivo e perciò costretto alla clandestinità, attualmente è uscito anche in tedesco e in francese.
Lei ha sempre messo in risalto il paradosso di un totalitarismo che si definiva «umanesimo socialista» ma che di fatto ha distrutto l'uomo.
Sì, era un umanesimo “sui generis”. I comunisti, infatti, erano insoddisfatti dell’uomo in quanto tale, lo scopo del regime era costantemente la «rieducazione», la «creazione dell’uomo nuovo», dell’«uomo dell’avvenire». Una delle sue costanti era l’ateismo. Un’altra era la fedeltà alla causa del partito. Come sappiamo, i gulag erano pensati come una scuola di rieducazione ideologica, ma anche in libertà l’uomo sovietico subiva un processo di «rieducazione» (cioè di lavaggio del cervello), fin dalla scuola materna. E come strumento per creare l’«uomo nuovo», oltre a questo indottrinamento generale si praticava anche una rigida selezione, di generazione in generazione. In primo luogo, secondo il principio di classe. Alcuni ceti dovevano scomparire completamente (nobili, mercanti, contadini agiati, clero), i loro discendenti venivano privati del diritto di partecipare alla vita civile. Per principio, il «popolo sovietico» doveva essere composto da discendenti degli operai e dai braccianti agricoli (proletariato urbano e rurale). Selezione su base classista e sull’indefessa fedeltà al partito: non interessavano affatto le capacità professionali, la cultura, il talento. Così si formò l’homo sovieticus. Un uomo costretto a una terribile dieta intellettuale e spirituale: tutto ciò che poteva esserci di complesso, di elevato, di originale gli veniva tenuto nascosto perché tacciato di «idealismo», «formalismo» o «borghesismo».
Sia gli artisti che i credenti, ha ribadito più volte, «si sono incontrati nelle catacombe», perseguitati entrambi ferocemente dal regime con un numero tutt’ora incalcolabile di testimoni e martiri. Eppure si può dire che il comunismo non è riuscito a cancellare Dio dal cuore del popolo russo?
Più che dal popolo, non è riuscito a cancellarlo dal cuore delle singole persone. Anche se costoro sono stati costretti a diventare – se non dei martiri – almeno dei confessori della fede all’interno dello Stato ateo. Sul cuore umano, in fin dei conti, nessuno può vantare pieni poteri, nessun regime può se Dio lo chiama a sé. Ma dobbiamo ammettere, purtroppo, che il regime è riuscito in moltissimi dei suoi intenti. È riuscito a coltivare più generazioni di persone completamente avulse dalla tradizione cristiana. È riuscito a generare un’incredibile ignoranza in questo campo. Quando in epoca sovietica andavo al cimitero, dove si aveva paura di far mettere le croci sulle tombe, io pensavo atterrita alle dimensioni di questo strappo dalla fede, dalla preghiera, dal diritto a confessarsi e a comunicarsi prima di morire. Ma d’altra parte, coloro che conservarono la fede, e coloro che nonostante tutto vi approdarono – e questo processo si accentuò negli anni Settanta – che gioia del cristianesimo sperimentavano! Nelle epoche di prosperità della Chiesa non si vive tanto intensamente questa gioia della fede, questa forza vivificante della fede.
A vent’anni dalla caduta dell’Urss quanto pesa il passato sul popolo russo?
Nessuno dei progetti utopici del regime come l’ateismo di stato o l’arte e le scienze manipolate dall’ideologia riuscì a realizzarsi allo stato puro. Ma pur nella loro parziale attuazione hanno generato fiumi di sangue, degradazione e ignoranza in tutti i campi. E purtroppo non abbiamo ancora chiarito le relazioni con il nostro passato. Non abbiamo fatto l’atto di pentimento a cui esortava Solženicyn. Per questo, per molti l’unico «rifugio» rimangono l’ironia e il cinismo generalizzati. Ho già avuto modo di dire che la società russa non ha riesaminato la cinica ferocia inculcata per decenni alla gente. Basta pensare solo alla parola spietato usata da noi ancora in senso positivo: “Faremo una lotta spietata” si dice. L’essere spietati contro il nemico era considerato qualcosa di eroico…
Lei ha scritto che l’esperienza disastrosa dei totalitarismi del Novecento ha lasciato macerie pesanti anche nel mondo occidentale che oggi è incapace di interrogarsi sul senso dell’esistenza e non riesce più a sperare. La sua poesia al contrario brucia di speranza come si evince anche dalla sua raccolta Solo nel fuoco si semina il fuoco (Qiqaion, 2008).
Sì il mondo occidentale uscito dal totalitarismo ha prodotto un uomo traumatizzato, ferito, misero, svuotato dalla sua storia. Un essere che può trasformarsi solo in carnefice, dimenticando che invece in lui abita qualcosa di buono. L’uomo di oggi è sprofondato nella banalità perché ha dimenticato l’«inizio», il Principio. E tutto ciò che ne consegue: la riconoscenza, lo stupore, la grazia, la lode, l’ispirazione, il dono, la speranza in ciò che sembra impossibile… La maggior parte dell’arte contemporanea ne è un esempio: è piena dei motivi del vuoto, della distruzione, dell’impotenza, dell’aggressività. Mi piace invece l’immagine del fuoco e ricorre nella mia opera perché è un elemento che è quasi identico alla vita. Il Signore stesso dice che è venuto a portare nel mondo «la vita, e la vita in abbondanza...», e aggiunge che è venuto ad «accendere il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso!». Non a caso il cristianesimo è capace di dare ad ogni persona significato, fermezza, audacia, speranza. E invece dimenticando l’inizio abbiamo rimosso anche la speranza nella vita eterna. In fondo il Principio di cui parlo è appunto l’immortalità originaria che ci viene donata dalle mani di Dio, la dignità creativa dell’uomo.
17-12-2011".
Ringrazio l'amico Angelo Fazio che ha portato alla mia attenzione questa nota.Il comunismo è un'ideologia malvagia in sé.
In esso vi è un "egoismo socializzato".
Infatti, chi non è comunista viene bollato come "ignorante", "ladro" e quant'altro e quindi non degno di fare parte del consorzio umano.
Questo fondò, ad esempio, l'Unione Sovietica.
L'arroganza di alcuni uomini portarono al baratro milioni di loro simili.
Su questo, noi dobbiamo riflettere.
Cordiali saluti.
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