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lunedì 27 gennaio 2020

Elezioni in Emilia-Romagna commento alla nota di Filippo Giorgianni

Prendo spunto da una nota scritta su Facebook dall'amico Filippo Giorgianni.
Essendo visibile solo su Facebook, la riporto per intero: 

"Ad ogni tornata elettorale sui mezzi di comunicazione di massa si assiste allo scollamento totale tra il «paese legale» e quello reale. Le elezioni emiliano-romagnole non fanno eccezione se già nel pieno della notte, basandosi esclusivamente su proiezioni ed exit poll– che in più occasioni hanno dimostrato di essere fallimentari –, i commentatori televisivi hanno ritenuto di poter tirare superficialmente conclusioni su vincitori e sconfitti. Similmente è accaduto al lunedì mattina con gli opinionisti e i giornalisti – cosa ben diversa dai veri analisti politici – che hanno parlato o scritto in libertà, basandosi esclusivamente sui nudi dati finali (talvolta riportati male e variabili da fonte a fonte) e senza operare alcuna reale analisi dei flussi elettorali. Poiché però la scienza politica è una cosa seria, è necessario proprio focalizzarsi su questi ultimi – basandosi sull’unica fonte reale, vale a dire i voti scrutinati come riportati dal Ministero dell’Interno – e porre in relazione ogni elezione a quelle precedenti di tipo omologo per comprendere cosa sia accaduto. Ebbene, se si opera questa lettura sinottica tra le elezioni attuali e quelle del 2014 e del 2010 per la Regione Emilia-Romagna si avranno delle importanti scoperte rispetto alle molte vacuità dette e scritte su televisioni, giornali e siti telematici. Innanzitutto, la vittoria non è del Partito Democratico, ma unicamente del Governatore uscente, il quale, smarcandosi dal proprio partito per tutta la campagna elettorale ed essendo giunto al 51,42% dei voti, è evidentemente ed ampiamente stato premiato da un voto disgiunto proveniente dagli elettori delle liste del centrodestra e dei 5 stelle, a cui va aggiunto il risultato della propria lista personale (124.591 voti per 5,76 punti percentuali). Infatti, se il Partito Democratico – e dunque il sistema di potere emiliano-romagnolo che trova in esso il suo fulcro – ha sostanzialmente retto, è vero anche come si possa osservare una sua importante erosione a favore del centrodestra: il candidato Presidente ha raccolto ben 155.260 voti (dunque il 3,3%) in più rispetto alle liste della propria coalizione, mentre il PD ha raccolto 749.976 voti che, se si paragona con le elezioni del 2014, è sicuramente un incremento, ma un incremento, che in proporzione a quello avuto dal candidato Presidente, è decisamente ridotto. La forte affluenza – che, come si vedrà, non ha premiato solamente il centrosinistra – ha certamente riportato più elettori al PD rispetto alle elezioni del 2014 (in cui i votanti erano stati 1.304.841 a fronte degli attuali 2.373.974), ma il Presidente uscente, grazie a questa affluenza, ha ottenuto un incremento di ben 579.887 voti, mentre il PD cresce di soli 214.867 voti, passando dai 535.109 del 2014 ai 749.976 già citati (perdendo addirittura quasi dieci punti percentuali netti: dal 44,53 al 34,69%). A ciò si deve aggiungere che, se nel 2014 l’affluenza alle urne era stata bassissima (praticamente dimezzata) a causa di scandali processuali che avevano interessato la Regione, e se dunque si paragonano i dati attuali a quelli dell’ultima elezione dotata di affluenza simile a quella del 2020, vale a dire l’elezione regionale del 2010 (68,07% con 2.357.733 votanti), si osserverà come il PD in dieci anni sia calato di ben 107.637 voti (passando dagli 857.613 del 2010 ai suddetti 749.976 voti attuali). In punti percentuali significa che il Partito Democratico ha perso dieci punti rispetto al 2014 e quasi sei (5,96%) rispetto al 2010: pur avendo riacquisito voti a questa tornata elettorale, in percentuale ne ha persi moltissimi e non è riuscito a tornare, nonostante la mobilitazione avvenuta, ai livelli precedenti in cui l’Emilia-Romagna era fortezza inespugnabile della sinistra. Se si facesse un ulteriore paragone con il lontano 2005 (affluenza al 76,67%), i dati sarebbero ancora più impietosi, considerata la vittoria del centrosinistra con il 62,73% dei consensi al candidato (contro il 35,21 dell’avversario) e il 62,02% alle liste (contro il 35,63 di quelle avversarie) di cui ben 48,03% alla sola lista Uniti nell’Ulivo che raccolse 1.095.566 suffragi. Né può dirsi che i voti presi dalla lista del candidato Presidente siano sovrapponibili al (e conteggiabili insieme a quelli del) Partito Democratico, in quanto appunto il candidato ha lungamente marcato la distanza rispetto al PD, nascondendone anche visivamente il simbolo ed i colori durante tutta la campagna elettorale, mirando in tal modo al consenso esclusivamente personale di chi non si riconosceva più nel PD, ma intendeva premiare ancora l’amministrazione del Presidente uscente.

Questa emorragia di voti è il segnale di un’incrinatura (ma non ancora del dissolvimento) del sistema emiliano-romagnolo che, infatti, se si osservano i dati del centrodestra e dell’ormai ex terzo polo del MoVimento 5 stelle, si vedrà aver smottato verso destra. Le due illusioni più grandi dei commentatori superficiali dei mezzi di comunicazione di massa e degli inebetiti quadri dirigenti del Partito Democratico, incapaci di guardare alla realtà, riguardano, in effetti, non tanto la capacità di reggere del Partito Democratico stesso in Emilia-Romagna – capacità limitata ma pur sempre sussistente –, quanto invece riguarda gli altri due “miti” propagandati nelle ultime ore, vale a dire la debolezza della candidata leghista e la conseguente sconfitta personale del Segretario della Lega (e leader del centrodestra) che invece si vedrà essere avvenuta a livello tattico immediato ma non a livello strategico nel medio periodo, nonché la necessità di aprirsi in futuro (e anche al di fuori dell’Emilia-Romagna) al movimentismo di piazza che avrebbe puntellato il centrosinistra emiliano-romagnolo. Con riguardo al primo “mito”, si dice in queste ore che l’errore del leader leghista sia stato di personalizzare (e nazionalizzare) troppo lo scontro elettorale regionale emiliano-romagnolo, scegliendo altresì una candidata debole, ma, se si osserva l’incremento di voti ottenuto dal centrodestra nel suo complesso e della Lega in specie, si comprende immediatamente come questa personalizzazione, pur non risultando vincente ai fini della guida della Regione, si è rivelata tutt’altro che controproducente in termini di voti acquisiti: il centrodestra non soltanto guadagna qualcosa come 13,78 punti percentuali rispetto al 2014 (tornata elettorale che, come detto, ha comunque una sua peculiarità che rende relativi i propri dati come termine di paragone), incrementando di 640.936 voti al proprio candidato Presidente (passando da 374.736 a 1.014.672) e di 624.818 voti alla propria coalizione (da 356.969 a 981.787), ma, cresce soprattutto di 169.757 voti al candidato Presidente e di 136.872 alle liste se si considerano i soli 844.915 e 808.404 voti presi rispettivamente da candidato e liste nel 2010, passando dal 36,73% della candidata all’attuale 43,63. Ciò sta a significare che la mobilitazione elettorale avutasi con l’incremento esponenziale dell’affluenza non ha premiato soltanto il centrosinistra e il suo candidato Presidente, bensì anche la candidata leghista e il centrodestra che hanno beneficiato dell’opera di personalizzazione operata dal leader nazionale. Chi voglia presentare come fallimentare la strategia del leader del centrodestra che ha affiancato la propria candidata (presunta “debole”) durante la campagna elettorale dovrebbe spiegare perché la candidata abbia preso un’enormità di voti in più rispetto al candidato del 2014 e abbia fatto un ottimo risultato rispetto alla candidata Presidente di Forza Italia del 2010, nonché dovrebbe spiegare come mai la coalizione di centrodestra sia andata a crescere esponenzialmente rispetto alle ultime regionali emiliano-romagnole e anche rispetto alle penultime, specialmente con la Lega che è potuta passare a 690.864 voti alla lista (31,95%) – cui andrebbero aggiunti quelli alla lista della propria candidata (37.462 coll’1,73% dei consensi) per un totale di 728.326 suffragi (33,68%) – rispetto agli iniziali 288.601 voti (13,68%) del 2010 e i 233.439 (19,42%) del 2014. Ciò significa che la personalizzazione dello scontro ha portato indubbiamente un risultato che rimane evidente e perfino storico, avendo fatto assottigliare la forbice tra le due coalizioni a discapito dell’ex terzo polo dei 5 stelle, il quale o ha perduto direttamente voti nei confronti del centrodestra oppure ha perduto consensi nei confronti del centrosinistra il quale però, a sua volta, ne ha perduti a favore del centrodestra, in quanto se si paragonano i dati del 2010 con quelli del 2020 si potrà facilmente osservare come il centrosinistra ed il proprio candidato non abbiano guadagnato assolutamente nulla, mantenendo quasi perfettamente un’identica quantità aritmetica di voti: nel 2010, infatti, il candidato Presidente del centrosinistra aveva raccolto 1.197.789 voti per una percentuale di 52,07 dei consensi e la coalizione ne aveva raccolti 1.095.604 (pari al 51,93%), laddove nel 2020 il candidato ha raccolto 1.195.742 voti con il 51,42% (si tratta di uno scarto di decimali consistente in soli duemila voti, per di più in meno, rispetto a dieci anni prima) mentre la coalizione si è attestata al 48,12% con 1.040.482 voti. Se si considera che i 5 stelle hanno avuto sempre un rendimento quasi costante nelle elezioni del 2014 (167.022 voti al candidato e 159.456 alla lista, rispettivamente per il 13,31 e il 13,27% dei consensi) e del 2010 (161.056 voti al candidato e 126.619 alla lista, rispettivamente per il 7 e il 6%) e che invece nel 2020 hanno preso solo 80.823 voti (3,48%) per il candidato e 102.595 (4,74%) per la lista, possono registrarsi due dati: la liquefazione del M5s e la cannibalizzazione dei suoi voti da parte degli altri due schieramenti. In particolare, un 1,26% di voti della lista si è tradotto tramite voto disgiunto in un consenso palesemente per il candidato di centrosinistra; mentre il rimanente rispetto alle altre elezioni è stato riassorbito o dal centrosinistra o dal centrodestra. In entrambi i casi comunque il centrodestra si troverebbe in una crescita evidente a scapito o del centrosinistra (che ha recuperato qualcosa dai pentastellati) o tanto a scapito del centrosinistra quanto del fu terzo polo.

In tutto ciò, è indubbio che i movimenti di piazza – siano essi spontanei o più probabilmente indotti dallo stesso Partito Democratico – abbiano avuto un loro ruolo nell’ausilio al candidato del centrosinistra, ma esso non va troppo ingigantito né fatto fuoriuscire al di là dei confini del sistema di potere emiliano-romagnolo (o di sistemi analoghi come quello toscano o di singole città storicamente di sinistra o centrali e più facilmente raggiungibili, dotate di rilevanza nazionale, come Milano e Roma). Questi movimenti, infatti, hanno potuto indurre una certa fetta di elettori di centrosinistra a tornare alle urne, avendo le piazze agitato l’inesistente spauracchio “fascista” e fomentato risentimento nei confronti del leader in ascesa del centrodestra che era coinvolto in prima persona nella campagna elettorale, ma esse non hanno spostato nemmeno un voto in più nella direzione dello schieramento progressista, semplicemente rendendo possibile la riconferma della quantità aritmetica di voti del 2010. Esse hanno semplicemente (e solo parzialmente) neutralizzato l’ondata emotiva della presenza del leader leghista (comunque prodottasi), contrapponendole un’ondata emotiva contraria in un contesto che, per la sua storia, era intrinsecamente favorevole a tale onda contraria. Pretendere di esportare questo modello al di fuori di aree geografiche in cui non vi sia una forte rete di istituzioni e poteri economici ascrivibili al centrosinistra, come vorrebbero i volti più in vista o le cariche di partito del centrosinistra stesso, indica una visione totalmente sclerotizzata della realtà, oltre che tendenze inconsapevolmente suicide, volte a non riconoscere la propria progressiva implosione, in quanto quel modello esportato in aree in cui non sia presente un sistema di potere progressista consolidato è destinato a fallire, come d’altronde evidente in tutti i tentativi di portare in piazza persone attraverso il simbolo del movimento in zone più difficili da coprire (da Taranto a Messina, passando per Pescara, Lecce, Reggio Calabria o Palermo). L’appuntamento con la vittoria in Emilia-Romagna è sicuramente rimandato per il centrodestra, ma certifica la crisi profonda del centrosinistra perfino in terre di suo dominio storico, nonché certifica il ritorno di un bipolarismo che solo l’irresponsabilità più totale può provare a minare tramite le spinte proporzionaliste attuali, risultando incomprensibile l’aver mantenuto per dieci anni leggi elettorali maggioritarie in presenza di tre poli e il perseguimento ora di una nuova legge elettorale proporzionale proprio al momento in cui il terzo polo risulta collassato".

Concordo completamente con codesta nota.
Queste elezioni regionali che ci sono state in Emilia-Romagna e in Calabria attestano un avanzamento sostanziale del centrodestra nonostante la sconfitta nella prima.
Infatti, in settant'anni di repubblica, non si è mai vista un'elezione in Emilia-Romagna in cui il centrosinistra non sia partito da vincitore.
Questa volta, il centrosinistra ha dovuto sudare per vincere.
Il presidente in carica Stefano Bonaccini ha battuto la senatrice leghista Lucia Borgonzoni con otto punti percentuali in più per effetto del voto disgiunto.
Bonaccini ha fatto l'unica cosa che avrebbe potuto garantirgli la vittoria: smarcarsi dal Partito Democratico, togliendo il simbolo di quest'ultimo dal suo manifesto.
Ha fatto ciò e ha avuto ragione. 
Il fatto che ci sia stato il voto disgiunto e che esso abbia premiato Bonaccini lo dimostra.
Se lui avesse ostentato il simbolo del Partito Democratico sarebbe stato sconfitto sonoramente.
Ora, io conosco il sistema emiliano-romagnolo.
Abito in Provincia di Mantova, una provincia lombarda vicina all'Emilia-Romagna.
Essa confina con le Province emiliane di Parma, Reggio Emilia, Modena e Ferrara.
Nonostante sia una provincia lombarda, la Provincia di Mantova è simile a quelle emiliane.
Come le province emiliane, essa è legata al mondo dei sindacati e delle cooperative.
Mi è stato raccontato di quanto accadeva nel mondo agricolo.
Per esempio, le cape delle mondine ed i capi dei braccianti erano iscritti ai sindacati e spingevano le persone a loro sottoposte ad aderire ai sindacati.
Chi non si iscriveva ai sindacati aveva dei problemi.
Per esempio, il capo mandava il bracciante non iscritto al sindacato da un "padrone" (un proprietario terriero) non accomodante.
Ancora oggi vi è questo retaggio.
Eppure, la Lega ed il centrodestra sono cresciuti anche in Emilia-Romagna e qui nella Provincia di Mantova.
In Emilia-Romagna vi è un dato interessante.
Bonaccini ed il centrosinistra reggono nelle città della parte centrale della Via Emilia, come Reggio Emilia, Modena e Bologna che sono le parti in cui le persone stanno meglio.
Chi sta bene non ha tanto interesse a cambiare il sistema.
Ai modenesi e ai bolognesi, questo sistema può non piacere.
Tuttavia, essi stanno bene e finché staranno bene non cambieranno mai il sistema. 
Invece, nel Piacentino, in buona parte del Parmense, in Provincia di Ferrara e nelle zone appenniniche dell'Emilia e della Romagna, il centrodestra si è insediato stabilmente.
Non è un caso che Comuni come Ferrara e Forlì siano amministrati dal centrodestra. 
Evidentemente, vi è un malessere in queste zone.
Ora, il segretario del Partito Democratico Nicola Zingaretti esulta ma forse la vittoria in Emilia-Romagna può essere vista come una vittoria di Pirro. 
Oramai, siamo tornati ad un bipolarismo.
Infatti, il Movimento 5 Stelle sta pagando il fatto di essere un movimento nato per la protesta e non per la proposta.
Finché protestava contro gli altri, il Movimento 5 Stelle prendeva voti.
Al momento in cui ha iniziato a governare e ha dimostrato la sua incapacità di fare proposte, il Movimento 5 Stelle è andato in crisi.
In più, i cambi di alleanze di governo hanno peggiorato la situazione.
L'alleanza con il Partito Democratico si è dimostrata essere un abbraccio mortale per Beppe Grillo, Luigi Di Maio e soci. 
Così, il Movimento 5 Stelle ha dimostrato palesemente di non essere credibile e ciò è un dato di fatto.






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