"Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia".
Questa citazione non è niente poco di meno che il titolo in lingua latina di un'opera di un grande umanista, avvocato, politico e santo, Tommaso Moro (7 febbraio 1478-6 luglio 1535).
L'opera in questione è "L'Utopia".
Essa parla di un luogo immaginario (come la "Repubblica" Platone) che si chiama Utopia.
In questo luogo, gli abitanti vivono in un'armonia perfetta e non vi è la proprietà privata.
In pratica, in questo luogo vige una legge comunista.
Ora, quest'opera letteraria di oggi è stata presa come "Vangelo" da taluni uomini di cultura e della politica.
Essi, infatti, puntano ad eradicare la proprietà privata, anche instaurando il clima di odio sociale.
E' chiaro che questi uomini abbiano travisato e male interpretato il senso dell'opera di San Tommaso Moro.
Prima di tutto, essa va contestualizzata nell'epoca dell'autore.
Avvocato, uomo politico, umanista e (dal 1530 al 1532) Primo Ministro del Regno d'Inghilterra, Tommaso Moro (in inglese Thomas More) visse in un'epoca di tormenti religiosi.
La Riforma protestante stava avanzando in tutta Europa.
In quell'epoca, vi furono re e principi che passarono alla Riforma, trascinando con sé i regni che essi amministravano.
Esso fecero ciò per aumentare il proprio potere ed accaparrare i beni della Chiesa cattolica.
Non vi fu tolleranza religiosa.
Ove erano minoranza, i protestanti furono perseguitati. Ove i protestanti erano maggioranza, i cattolici furono perseguitati.
Mentre la cristianità veniva dilaniata dalle lotte intestine tra cattolici e protestanti, l'Impero Ottomano avanzava.
Anche in Inghilterra, c'era la questione del matrimonio di re Enrico VIII.
Infatti, com'è noto, re Enrico VIII Tudor (28 giugno 1491-28 gennaio 1547) volle divorziare da Caterina d'Aragona.
La Curia romana prima prese tempo, o poi si oppose a ciò.
Nacque una vertenza di diritto canonico che portò allo scisma anglicano, scisma che fu incoraggiato da famiglie importanti, come i Bolena (la famiglia di Anna, la donna che sposò re Enrico VIII), che furono degli accaparratori, e da figure come Thomas Cromwell (1485-28 luglio 1540, che divenne Primo Ministro nel 1532) e l'arcivescovo di Canterbury Thomas Cranmer (2 luglio 1489-21 marzo 1556).
Questi ultimi puntarono a portare la Riforma in Inghilterra.
Cromwell (antenato del ben noto Oliver) fu un luterano.
Lo stesso discorso fu valido per Cranmer, un professore di teologia e prete che durante un viaggio in Europa, per patrocinare la causa del re, si fermò in Germania, ove incontrò un teologo luterano, Andreas Osiander, e ne sposò la nipote.
Però, re Enrico VIII fu di ben altro avviso.
Egli, cattolico, puntò solo alla rottura con Roma ma non volle apportare cambiamenti alla dottrina della Chiesa inglese.
Così, il 3 novembre 1534, il re fece votare al Parlamento l'Atto di Supremazia, il cui testo recita:
Questo documento implicò la rottura tra la Chiesa anglicana e Roma.
La Chiesa anglicana passò sotto il controllo della corona. I tributi al Papa furono aboliti.
Tutti gli uomini importanti furono costretti a giurare fedeltà al re come capo della Chiesa anglicana, a cominciare dagli ecclesiastici
Tommaso Moro non giurò perché capi l'antifona.
In primo luogo, infatti, egli capì che un sovrano secolare con il potere religioso avrebbe dato un potere molto forte a quest'ultimo.
A quel punto, attaccare la politica religiosa del monarca sarebbe equivalso ad un tradimento ed ad un sacrilegio.
Inoltre, Tommaso temette l'avanzare del protestantesimo.
Sapeva del pensiero di personaggi come Cromwell e Cranmer.
Egli sostenne che solo la supremazia papale avrebbe evitato l'invasione del protestantesimo e che quello scisma avrebbe causato guerre interne all'Inghilterra.
Tommaso, che nel 1532 lasciò il suo incarico di Primo Ministro, non espresse nulla contro il monarca ma non giurò.
Egli non sostenne neppure le tesi contrarie alla successione del figlio di Anna Bolena.
Tuttavia, ad egli non piacquero il divorzio ottenuto senza l'approvazione del Papa e lo scisma.
Egli cercò di difendere la sua fede religiosa e ciò in cui credeva, senza mai mettersi contro il re, del quale in passato era amico e volle restare tale.
Però, gli eventi precipitarono.
Spinto dai Bolena, da Cromwell e da tutti coloro che sostennero lo scisma, re Enrico VIII lo fece imprigionare nella Torre di Londra.
Qui visse in condizione di prigionia, come tutti coloro che furono accusati di tradimento.
Altri, fecero la sua stessa fine.
Cito il vescovo di Rochester ed amico Giovanni Fisher, che con lui fu poi canonizzato.
Alla figlia, che (implorandolo) gli chiedeva di giurare, egli inviò questa lettera:
" Sapessi Margaret, quante e quante notti insonni ho trascorse, mentre mia moglie dormiva o credeva che fossi anch'io addormentato, a passare in rassegna tutti i pericoli cui potevo andare incontro: spingendomi così lontano con l'immaginazione che ti assicuro che non può accadermi niente di più grave. E mentre ci pensavo, bambina mia, sentivo l'animo oppresso dall'angoscia. E tuttavia ringrazio Dio che, nonostante tutto, non ho mai pensato di venire meno al mio proposito, anche se fosse dovuto accadermi il peggio che andava raffigurandomi la mia paura. ".
Egli mantenne un atteggiamento dignitoso. Non disse nulla contro il re.
La sua posizione fu caratterizzata dal silenzio, comunemente interpretato come assenso e figura di abiura.
Questa mossa, però, fallì.
Tommaso fu poi processato.
Il processo, ovviamente, ebbe una sentenza già scritta.
Fu condannato a morte.
Dapprima fu condannato a morte per squartamento e decapitazione.
Poi, re Enrico VIII commutò la pena in decapitazione.
Il 6 luglio 1535, egli andò al patibolo.
Al boia diede una moneta d'oro e gli disse:
"Amico io sono pronto e tu fatti coraggio... Ti avverto che ho il collo corto e perciò state attento a colpire giusto per non macchiare la tua buona fama.".
Poi disse la celebre frase:
Inoltre, Tommaso temette l'avanzare del protestantesimo.
Sapeva del pensiero di personaggi come Cromwell e Cranmer.
Egli sostenne che solo la supremazia papale avrebbe evitato l'invasione del protestantesimo e che quello scisma avrebbe causato guerre interne all'Inghilterra.
Tommaso, che nel 1532 lasciò il suo incarico di Primo Ministro, non espresse nulla contro il monarca ma non giurò.
Egli non sostenne neppure le tesi contrarie alla successione del figlio di Anna Bolena.
Tuttavia, ad egli non piacquero il divorzio ottenuto senza l'approvazione del Papa e lo scisma.
Egli cercò di difendere la sua fede religiosa e ciò in cui credeva, senza mai mettersi contro il re, del quale in passato era amico e volle restare tale.
Però, gli eventi precipitarono.
Spinto dai Bolena, da Cromwell e da tutti coloro che sostennero lo scisma, re Enrico VIII lo fece imprigionare nella Torre di Londra.
Qui visse in condizione di prigionia, come tutti coloro che furono accusati di tradimento.
Altri, fecero la sua stessa fine.
Cito il vescovo di Rochester ed amico Giovanni Fisher, che con lui fu poi canonizzato.
Alla figlia, che (implorandolo) gli chiedeva di giurare, egli inviò questa lettera:
" Sapessi Margaret, quante e quante notti insonni ho trascorse, mentre mia moglie dormiva o credeva che fossi anch'io addormentato, a passare in rassegna tutti i pericoli cui potevo andare incontro: spingendomi così lontano con l'immaginazione che ti assicuro che non può accadermi niente di più grave. E mentre ci pensavo, bambina mia, sentivo l'animo oppresso dall'angoscia. E tuttavia ringrazio Dio che, nonostante tutto, non ho mai pensato di venire meno al mio proposito, anche se fosse dovuto accadermi il peggio che andava raffigurandomi la mia paura. ".
Egli mantenne un atteggiamento dignitoso. Non disse nulla contro il re.
La sua posizione fu caratterizzata dal silenzio, comunemente interpretato come assenso e figura di abiura.
Questa mossa, però, fallì.
Tommaso fu poi processato.
Il processo, ovviamente, ebbe una sentenza già scritta.
Fu condannato a morte.
Dapprima fu condannato a morte per squartamento e decapitazione.
Poi, re Enrico VIII commutò la pena in decapitazione.
Il 6 luglio 1535, egli andò al patibolo.
Al boia diede una moneta d'oro e gli disse:
"Amico io sono pronto e tu fatti coraggio... Ti avverto che ho il collo corto e perciò state attento a colpire giusto per non macchiare la tua buona fama.".
Poi disse la celebre frase:
"Muoio fedele a Dio e al re ma a Dio innanzitutto".
Fu decapitato.
Si racconta che quando seppe del fatto, re Enrico VIII abbia guardato male Anna Bolena e le abbia detto:
"Questo è accaduto per colpa vostra!".
Poi, ritiratosi nella sua stanza, pianse amaramente.
Quindi, Tommaso Moro fu l'antesignano di quello che dovrebbe essere oggi un politico cattolico.
Il politico cattolico non deve essere contro lo Stato.
Anzi, deve collaborare perché esso funzioni bene.
Tuttavia, un politico cattolico serio non può accettare compromessi con chi sostiene idee contrarie alle proprie convinzioni.
Ad esempio, un politico cattolico non può accettare l'aborto.
In casi come questi, egli deve opporsi.
A tempo stesso, però, un politico cattolico non può essere a favore di movimenti rivoluzionari.
Ora, quei cattolici che sostengono le idee comuniste sono incoerenti.
Il comunismo è l'ideologia rivoluzionaria per antonomasia.
Lo stesso discorso può valere per quelle di Beppe Grillo.
Per lui vale il testo di Sergej Bulgakov che è intitolato" "L'eroe laico e l'asceta", in AA.VV., "La Svolta - 'Vechi'. L''intelligencija' russa tra il 1905 e il 1917" / 2" e che recita:
"La natura sui generis dell’eroismo […] si chiarirà per noi se lo si confronterà con la forma spirituale ad esso opposta, quella dell’eroismo cristiano o, più esattamente, della santità cristiana, perché nel cristianesimo l’eroe è il santo. La differenza fondamentale qui non è tanto esterna, quanto interna, religiosa. L’eroe che pone se stesso nel ruolo della Provvidenza, grazie a questa usurpazione spirituale si attribuisce anche una responsabilità maggiore di quella ch’egli possa sopportare, e compiti superiori a quelli accessibili a un uomo. Il santo cristiano crede in un Dio-Provvidente, senza la volontà del Quale un capello non cade dalla testa. La storia e la vita umana individuale sono ai suoi occhi come la realizzazione, sebbene incomprensibile per lui nei particolari, di un piano divino, davanti al quale egli si umilia con l’atto eroico della fede.*14 In forza di ciò, egli si libera subito dalla posa e dalle pretese eroiche. La sua attenzione si concentra nell’azione immediata, nei suoi veri obblighi e nel severo ed esatto adempimento dei medesimi. Evidentemente, stabilire edadempiere questi doveri esige, a volte, non minore larghezza d’orizzonte e di conoscenze di quella che pretende l’eroismo dell’intellettualoide. Tuttavia qui l’attenzione si concentra nel riconoscere il dovere personale e nel compierlo, nell’autocontrollo; e questo trasferire il fuoco dall’attenzione su se stessi e sui propri doveri, questa liberazione dal falso sentimento di preteso salvatore del mondo e dalla superbia, ad esso inevitabilmente legata, risana l’anima, riempiendola di una sano sentimento di cristiana umiltà. A questo spirituale rinnegamento di sé, al sacrificio del proprio superbo intellettuale “io” in nome d’un sacro superiore, chiamò Dostoevskij l’intelligencija russa nel suo discorso su Puškin: “Umiliati, uomo superbo, e prima di tutto spezza la tua superbia… Vinci te stesso, umilia te stesso e sarai libero come mai lo avresti immaginato e darai inizio a una grande impresa e renderai liberi gli altri e vedrai la felicità, poiché la tua vita sarà piena…”. Non v’è parola meno popolare, nell’ambiente dell’intelligencija, del termine umiltà; pochi sono i concetti che siano stati sottoposti a una maggiore incomprensione e travisamento, su quali così facilmente la demagogia degli intellettuali abbia potuto affilare i denti e ciò forse meglio di qualsiasi altra cosa dimostra la natura spirituale dell’intelligencija, smaschera il suo eroismo superbo fondato sull’autodivinizzazione. Allo stesso tempo l’umiltà è, per testimonio unanime della Chiesa, la prima e fondamentale virtù cristiana, ma anche fuori del cristianesimo essa è una qualità assai preziosa che dimostra in ogni caso un alto livello di sviluppo spirituale. Anche per un intellettuale è facile comprendere, per esempio, che un vero scienziato a misura che approfondisce ed allarga le proprie conoscenze percepisce sempre più acutamente l’abisso della propria ignoranza, così che i successi del sapere s’accompagnano in lui ad una crescente comprensione della propria ignoranza, ad un aumento dell’umiltà intellettuale, come lo confermano le biografie dei grandi scienziati. Al contrario, la presuntuosa soddisfazione di sé o la speranza di raggiungere con le proprie forze l pieno appagamento scientifico è sintomo sicuro e infallibile d’immaturità scientifica o semplicemente di giovinezza. Lo stesso sentimento di profonda insoddisfazione della propria attività creativa, dell’incorrispondenza ai suoi ideali di bellezza e ai compiti dell’arte, distingue anche il vero artista […]. Senza questo sentimento di eterna insoddisfazione per le proprie opere, che può essere chiamato umiltà di fronte alla bellezza, non c’è vero artista. Lo stesso sentimento di limitatezza delle proprie forze individuali di fronte ai compiti crescenti afferra il pensatore filosofo, l’uomo d’azione di governo, politico sociale ecc. […] Il sottile sguardo spirituale dell’asceta scopre nell’uomo limitato e deturpato dal peccato e dalle passioni, e anzitutto in se stesso, sempre nuove imperfezioni; il senso della distanza dall’ideale aumenta. In altre parole, lo sviluppo morale della personalità s’accompagna a una crescente coscienza delle proprie imperfezioni e, ciò che è lo stesso, s’esprime nell’umiltà davanti a Dio e nel “camminare alla presenza di Dio” […]. Questa differenza tra il giudizio eroico e cristiano di se stessi penetra in tutte le pieghe dell’anima, in tutta la sua autocoscienza. In seguito alla mancanza di un ideale della personalità (più esattamente, della sua deformazione), tutto ciò che riguarda la cultura religiosa della personalità, la sua formazione, disciplina, inevitabilmente presso l’intelligencija resta in completo abbandono. Ad essa mancano le norme assolute e i valori che sono necessari per questa cultura e che si hanno solo nella religione.Anzitutto manca il concetto del peccato e il senso del peccato, tanto che la parola peccato suona all’orecchio dell’intellettualoide quasi ugualmente barbara e strana come la parola umiltà. Tutta la forza del peccato, il suo peso tormentoso, la complessità e la profondità del suo influsso su tutta la vita umana,*15 in una parola tutta la tragedia della peccaminosità dell’uomo, […] tutto ciò rimane estraneo alla coscienza dell’intelligencija, che si trova come in un’infanzia religiosa, non al di sopra del peccato ma al di sotto della coscienza di esso. Essa ha creduto, assieme a Rousseau e a tutto l’illuminismo, che l’uomo naturale è buono per natura e che la dottrina sul peccato originale e sulla radicale corruzione della natura umana è un mito superstizioso che non trova nessuna corrispondenza nell’esperienza morale. Perciò non vi deve né vi può essere alcuna cura speciale nel coltivare la personalità (il tanto disprezzato autoperfezionamento), mentre tutta l’energia deve essere interamente spesa nella lotta per migliorare l’ambiente. Dichiarando che la personalità è interamente prodotto di quest’ultimo, a questa stessa personalità affidano il compito di migliorare l’ambiente, similmente al barone di Münchhausen che si tirò fuori dallo stagno afferrandosi per i capelli. Quest’assenza del senso del peccato e addirittura di una qualche titubanza di fronte ad esso, spiega molti tratti del comportamento spirituale e pratico dell’intelligencija, e ahimè!, molti aspetti e avvenimenti tristi della nostra rivoluzione, come pure il marasma spirituale che ne è seguito. […] Il massimalismo eroico si proietta interamente al di fuori, al raggiungimento di fini esterni; riguardo alla vita personale, all’infuori dell’atto eroico e di tutto ciò che è legato ad esso, risulta essere un minimalismo poiché non presta attenzione alla vita personale. Da qui procede la sua inabilità alla formazione di unapersonalità ferma, disciplinata, laboriosa che si regga sulle proprie gambe e non sull’onda dell’isterismo sociale che poi cede allo scoraggiamento. Il tipo dell’intelligencija è tutto determinato da questa combinazione di minimalismo e massimalismo, nella quale le pretese massimaliste possono coesistere accanto a una preparazione minima della personalità sia nella sfera della scienza, che in quella dell’esperienza della vita e dell’autodisciplina; il che s’esprime con tanto rilievo nell’innaturale egemonia della gioventù studentesca, nella nostra pedocrazia spirituale. In maniera diversa viene percepito il mondo dall’ascetismo cristiano. […] A questo proposito, in piena opposizione alla superbia dell’eroismo dell’intelligencija, l’ascetismo cristiano è prima di tutto un massimalismo della vita personale, nell’esigere molto da se stessi, mentre la durezza del massimalismo esteriore viene completamente eliminata. L’eroe o asceta (secondo la nostra terminologia un po’ convenzionale) cristiano, non ponendosi i compiti della Provvidenza e non collegando quindi al proprio sforzo individuale o a quello di qualunque altro le sorti della storia e dell’umanità, vede nella propria attività anzitutto l’adempimento del proprio dovere davanti a Dio e al comandamento Divino a lui rivolto. Egli è obbligato ad adempierlo nella maniera più piena ed ugualmente deve impiegare tutta l’energia e l’abnegazione possibile nel ricercare ciò che costituisce il suo compito e dovere; in un certo senso egli deve anche tendere al massimalismo dell’azione, ma in un senso completamente diverso. Uno dei più comuni malintesi sull’umiltà (del resto in buona o in mala fede) sta nell’interpretare immancabilmente l’umiltà cristiana, l’atto eroico interiore e invisibile della lotta contro il proprio egoismo, contro la propria volontà, contro l’idolatria di se stesso, come una passività esterna, come uno scendere a patti col male, come un’inattività e persino come una servilità, oppure con un non far niente nel senso esteriore; qui l’ascetismo cristiano viene confuso con una delle sue molte forme, sebbene la più importante, e precisamente col monachesimo. Ma l’ascetismo, come edificazione interiore della personalità, è compatibile con ogni attività esteriore, in quanto questa non contraddice ai suoi principi. Particolarmente volentieri l’umiltà cristiana viene opposta allo stato d’animo “rivoluzionario”. […] In effetti, quando ci sono le circostanze storiche corrispondenti, azioni particolari, chiamate eroiche, sono pienamente compatibili con la psicologia dell’ascetismo cristiano, ma esse vengono compiute non in proprio nome ma nel nome di Dio, non eroicamente ma asceticamente e persino quando c’è una somiglianza esteriore con l’eroismo, la loro psicologia religiosa resta da questo distinta. “Il Regno dei Cieli si conquista con la violenza e i violenti se lo rubano” (Mt 9, 2); da ciascuno si esige uno “sforzo”, una tensione massima delle proprie forze per realizzare il bene, ma anche questo sforzo non dà ancora il diritto a sentirsi eroe, alla superbia spirituale, poiché esso è solo adempimento di un dovere: “quando farete quello che vi ho comandato, dite: noi siamo servi inutili, poiché abbiamo fatto quello che dovevamo fare” (Lc 17, 10). L’eroismo cristiano è un incessante autocontrollo, una lotta con i lati bassi e peccaminosi del proprio io, un’ascesi dello spirito. Se per l’eroismo sono caratteristiche le vampate, la ricerca di grandi imprese, qui, al contrario, è di norma la regolarità della corrente, la “misura”, il dominio di sé, la costante autodisciplina, la pazienza e la resistenza, esattamente le qualità che mancano all’intelligencija. Il fedele adempimento del proprio dovere, il portare la croce da parte di ciascuno, l’aver rinunziato a se stessi (ciò non solo nel senso esteriore, ma ancor più in quello interiore), lasciando tutto il resto alla Provvidenza: ecco i caratteri del vero ascetismo. Nella regola monastica c’è una bellissima espressione per quest’idea religioso-pratica:ubbidienza. […] Questo concetto può essere esteso anche fuori dei confini del monastero ed applicato a qualsiasi lavoro. Il medico e l’ingegnere, il professore e l’uomo politico, l’imprenditore e il suo operaio possono ugualmente, nel compiere i loro doveri, lasciarsi guidare non dai loro interessi personali spirituali o materiali, ma dalla coscienza, dal dovere, e compiere l’obbedienza. […] Il lato opposto del massimalismo dell’intelligencija è costituito dall’impazienza storica, dalla mancanza di buon senso storico, dalla tendenza ad invocare un miracolo sociale, dalla negazione pratica di quell’evoluzionismo che pur si professa in teoria. Al contrario, la disciplina dell’“obbedienza” deve contribuire ad elaborare il buon senso storico, la padronanza di sé, la tenacia; essa insegna a portare il peso della storia, il giogo dell’obbedienza storica, educa al sentimento di legame col passato ed alla riconoscenza verso questo passato che così facilmente ora dimenticano per il futuro, ristabilisce il legame morale dei figli coi padri. Al contrario, il progresso umanistico è disprezzo per i padri, disgusto per il proprio passato e la sua totale condanna, ingratitudine storica e spesso anche personale, legittimazione della contesa spirituale tra padre e figli. L’eroe fa la storia secondo un suo piano, incominciando quasi la storia da se stesso, considerando quanto esiste come materiale o oggetto passivo della propria attività.*16 La rottura del legame storico nel sentimento e nella volontà diventa così inevitabile. Il parallelo tracciato permette di trarre una conclusione generale sui rapporti tra l’eroismo dell’intelligencija e l’ascetismo cristiano. Nonostante una certa somiglianza esteriore, tra i due non esiste alcuna affinità interiore, nessun contatto sia pure sotterraneo. Il compito dell’eroismo è la salvezza esteriore dell’umanità (più esattamente, di una futura parte) con le proprie forze, secondo un proprio piano, “a nome proprio”; l’eroe è colui che realizza nel grado più alto la propria idea, magari rovinando a causa d’essa la propria vita, èl’uomo-dio. Il compito dell’ascetismo cristiano è di cambiare la propria vita in un’invisibile abnegazione e obbedienza, adempiere il proprio lavoro con tutta l’intensità, autodisciplina,autodominio e vedere in esso e in se stesso solo uno strumento della Provvidenza. Il santo cristiano è chi ha trasformato, nella più alta misura, la propria volontà personale e tutta la propria personalità empirica con un incessante e indefesso sacrificio fino a lasciarsi permeare dalla volontà Divina nella massima misura possibile. Il modello della pienezza di questa penetrazione è il Dio-uomo, venuto “a fare non la sua volontà, ma quella del Padre che l’aveva mandato” […]. Oggi si è inclini a minimizzare, piuttosto che ad esagerare, la differenza tra il cristianesimo […] e l’eroismo dell’intelligencija, che ha preso storicamente dal cristianesimo alcuni dei suoi dommi fondamentali e anzitutto l’idea dell’uguaglianza degli uomini, dell’assoluta dignità della personalità umana, dell’uguaglianza e della fratellanza. A ciò ha contribuito prima di tutto l’incomprensione da parte dell’intelligencija di tutto il reale abisso che c’era tra l’ateismo e il cristianesimo, e così più d’una volta, con l’abituale presunzione, la figura del Cristo è stata “corretta”, liberata dalle “deformazioni ecclesiastiche”, presentandolo come un socialdemocratico o un socialista-rivoluzionario. Un esempio ce lo diede già il padre dell’intelligencija russa, Belinskij. Questa operazione di cattivo gusto e insopportabile per il sentimento religioso è stata eseguita più d’una volta. D’altra parte la stessa la stessa intelligencija di quest’accostamento, in quanto tale, non s’interessa affatto, ricorrendo ad esso prevalentemente per fini politici o agli effetti della “propaganda”. Assai più sottile e scandalosa e non meno sacrilega è la menzogna, ripetuta in varie forme e con particolare frequenza negli ultimi tempi, l’affermazione cioè che il massimalismo e la rivoluzionarietà dell’intelligencija, il cui fondamento spirituale consiste, come abbiamo visto, nell’ateismo, in sostanza si distinguono dal cristianesimo solo per difetto di coscienza religiosa. Come se fosse sufficiente mutare il nome di Marx o di Michajlovskij con quello di Cristo e il Capitale col Vangelo, o ancor meglio con l’Apocalisse (per la comodità delle sue citazioni); oppure anche senza cambiare nulla, basterebbe solo rafforzare la rivoluzionari età dell’intelligencija e proseguire la sua rivoluzione, perché da questa nasca una nuova coscienza religiosa. (Come se la storia non conoscesse la rivoluzione francese, un esempio di prolungata rivoluzione dell’intelligencija che ha messo a ruolo tutte le sue potenze spirituali.) Se prima della rivoluzione era ancora facile scambiare col martire cristiano l’intellettuale sofferente e perseguitato […], dopo l’autodenudazione spirituale dell’intelligencija durante la rivoluzione questo è diventato molto più difficile. Attualmente si può anche osservare una contraffazione del cristianesimo da parte dell’intelligencija, caratteristica della nostra epoca, l’appropriamento di parole e idee cristiane, pur conservando tutta la fisionomia spirituale dell’eroismo dell’intelligencija. Ciascuno di noi, cristiani intellettuali, trova profondamente radicata in se stesso questa piaga spirituale. È più facile per l’eroismo dell’intelligencija, camuffatosi nelle vesti cristiane e che prende sul serio le proprie esperienze intellettuali e l’abituale pathos eroico come un giusto sdegno cristiano, proiettarsi in una specie di rivoluzionarismo ecclesiastico, opponendo la propria nuova santità, la propria nuova coscienza religiosa alla falsità della chiesa “storica”. Un simile intellettuale cristianeggiante, a volte incapace di soddisfare sul serio le esigenze medie di un membro della “chiesa storica”, con estrema facilità si sente un Martin Lutero e addirittura il portatore profetico di una nuova coscienza religiosa, chiamato non solo a rinnovare la vita della chiesa ma a creare per lei nuove forme e quasi una nuova religione. Anche nella sfera della politica mondana il più ordinario massimalismo intellettuale, che costituisce il contenuto dei programmi rivoluzionari, viene semplicemente condito con terminologia e testi cristiani e spacciato per il vero cristianesimo nella politica. Questo cristianesimo dell’intelligencija,che lascia intatto ciò che nell’eroismo degli intellettuali c’è di più antireligioso e cioè la sua conformazione spirituale, è un compromesso tra principi in lotta fra loro che ha un significato temporaneo e passeggero e non è dotato d’una vitalità indipendente. Esso non è necessario al vero eroismo degli intellettuali ed è impossibile per il cristianesimo. […] Tra i martiri del primo cristianesimo e della rivoluzione non v’è, in sostanza, nessuna somiglianza interna nonostante l’identità esterna dei loro atti; così anche tra l’eroismo dell’intelligencija e l’ascetismo cristiano, pur nella somiglia esterna delle loro manifestazioni (che d’altro canto si può ammettere solo in parte e condizionatamente) c’è un abisso e non è possibile trovarsi contemporaneamente su ambedue i suoi orli. Uno deve morire perché l’altro possa nascere e nella misura che l’uno muore l’altro cresce e si rafforza. Ecco la vera correlazione tra i due approcci del mondo. Bisogna “pentirsi”, cioè rivedere, ripensare e condannare la propria vita spirituale passata nella sua profondità e nelle sue pieghe, per rinascere a nuova vita. Ecco perché la prima parola della predica del Vangelo è un appello alla penitenza, fondato sul conoscimento e l’apprezzamento di se stessi: “Pentitevi (metanoeite), perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3, 1-21; 4, 17; Mc 1, 14-15). […] Non si tratta di un mutamento di programmi politici o partitici (fuori dei quali l’intelligencija ordinariamente nemmeno pensa il rinnovamento), ma di cosa assai più grande, della stessa personalità dell’uomo, non dell’azione ma dell’agente."
Tommaso fu un eroe per tutti noi.
Dobbiamo rispettarlo.
Cordiali saluti.
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