Tutti i contadini lo facevano, per cui, sulle aie delle case vedevi una serie di contenitori in legno, messi tutti per benino in ordine di crescenza. Damigiane, bigoncie, botticelle, botti, formavano delle file intere e come tanti soldati aspettavano che il loro momento arrivasse, mentre i contadini si affaccendavano intorno.
Era tutto un lavorio perché questi contenitori, dal più piccolo al più grande, andavano lavati e bagnati da dentro e da fuori. Di solito venivano riempiti e poi svuotati e rigirati col culo per aria, e spruzzati continuamente con la macchina che serviva anche per ramare.
La macchina per ramare era un contenitore in metallo che si indossava sulle spalle con delle cinghie. Una manovella azionava una pompa, che appunto pompava il liquido inserito nel contenitore e lo faceva uscire da una bacchetta con un beccuccio in cima a spruzzo.
Veniva usata in genere dai contadini per dare “il ramato”, uno speciale disinfettante azzurro per le piante, le viti in particolare, che durante l’anno venivano sottoposte a questo trattamento più volte.
In questo caso il marchingegno si riempiva solo con acqua, che era ciò che serviva al legno col quale erano fatti i contenitori (la plastica non esisteva) per ingrossarsi e stabilizzare una capienza che poi sarebbe servita proprio per un liquido più pregiato: il vino.
Nonno posizionava le nostre botti in uno spazio sotto il fico, fra la capanna e la pergola di uva fragola.
Tutte le case avevano un pergolino di uva fragola, che è un tipo di uva fragrante, che prende il nome dal frutto a cui assomiglia di sapore. Non si usa con le altre uve, si mangia o si prepara uno speciale vino chiamato fragolino, appunto.
L’uva fragola matura un po’ prima delle altre e anticipa col suo profumo che si spande nell’aria la bellezza della vendemmia.
Perché la vendemmia è una bellezza!
Cos’è che non è bellezza di ciò che rende la natura!
Io in questi giorni impazzivo!
Saltellavo accanto a nonno, fra le bigonce e le botti, che erano tutto un profumo di legno che si mischiava a quello dell’uva sui rami e alla terra bagnata dall’acqua e dalla guazza delle prime frescate.
Il tempo mutava. Era quello che si diceva il tempo di settembre. L’aria era più tersa che ad agosto. Il cielo più limpido e il sole più brillante, anche se meno caldo. La mattina e la sera raffrescava. Tenevano duro le ore in mezzo alla giornata. Allora tornava un estate piena che permetteva di scalzarsi di nuovo fra i prati.
Non mi perdevo un attimo di quei momenti!
Non mi perdevo mai un attimo di ciò che mi capitava intorno.
Per via di quelle preparazioni, e del tepore della stagione, nelle case si tenevano ancora gli usci spalancati e noi ragazzi passavamo a corsa da una casa all’altra per osservare (e dar noia).
Osservare e dar noia era una prerogativa di noi bimbetti, e le situazioni in campagna si prestavano a questo in modo particolare.
La frenesia di quel momento per esempio, l’andirivieni dei contadini che si affaccendavano intorno come tante api operose creavano un mondo per noi, ricco di nuovi giochi.
I contadini si affaccendavano sempre intorno come tante api operose, perché il lavoro di campagna non si ferma mai, però il periodo della vendemmia in particolare si sommava anche alla preparazione della semina, che sarebbe arrivata dopo poco, per cui quello che osservavi era, più che una preparazione unica, un insieme di azioni diverse che servivano per più progetti e funzioni, e giravano si intorno ad una situazione del momento, la vendemmia in questo caso, ma contemporaneamente ne chiudevano di precedenti e ne preparavano altre future.
Tutto ciò si avvertiva nell’aria, si respirava, e aveva uno spessore visibile da qualsiasi angolo in cui si guardasse. In un attimo solo, girando lo sguardo come in una giostra, potevi capire il susseguirsi e l’intercalarsi dei lavori.
Ogni tempo presente, manteneva in se quello passato e faceva intravedere il prossimo futuro.
Dietro le botti tirate fuori per la vendemmia, si finivano di preparare le cataste di legna per l’inverno, raccolte già nell’estate, e si sistemavano gli aratri che sarebbero serviti di lì a poco per la semina. I pagliai pronti aspettavano diligenti il loro momento che sarebbe venuto col freddo, il fieno traboccava in cascina, e, accanto ai muri, i fiori, margherite e crisantemi, anticipavano il tempo dei morti.
Quando finalmente tutto era pronto, l'esodo incominciava.
Sembrava proprio che i contadini si fossero messi d'accordo perchè si muovevano insieme, come fossero pionieri coi carri che dovessero partire per l'Eldorado o la terra promessa.
In realtà era molto più semplice, avevano annusato l'aria col naso all'insù e previsto il tempo che doveva reggere per permettere di terminare quel lavoro. Lo sapevano fare tutti gli anziani senza nessuna previsione meteorologica, solo con l'esperienza di stagioni e stagioni accumulate, che avevano formato anni che gravavano sulle loro spalle.
Difficilmente sgarravano, quindi quando uno iniziava, iniziavano anche gli altri perchè quelli erano, i giorni disponibili e non si poteva sbagliare, bisognava fare il lavoro nei tempi e col tempo giusto.
Per le vie del posto, per ogni dove, era un susseguirsi di barrocci e botti piene d'uva che andavano e venivano per la campagna attaccati a vacche o cavalli e un vocio di uomini e donne che si canzonavano.
Nonno, quando ero piccola io non aveva più Cabiria, la vacchina, per cui qui, per quel lavoro, arrivava Astolfo, un barrocciaio che prestava servizio.
Io venivo caricata sul barroccio insieme alle botti e alle bigonce e iniziava il viaggio. Per arrivare ai nostri campi più lontani, dovevamo fare un percorso abbastanza lungo che attraverso la viaccia, si insinuava nel bosco della Margine, che si lasciava alle nostre spalle fino ai campi del Raugi.
Lì venivano scaricati bigonce e corbelli e donne e uomini cominciavano a vendemmiare i grappoli, usando delle forbici da pota.
Il cavallo, sbiascicando la sua biada, col barroccio seguiva pian piano sul campo, lungo i filari, l'andamento del lavoro. Man mano che l'uva veniva colta, uomini grossi e forti, la gettavano dalle ceste e dai corbelli dove era stata messa già divisa nera e bianca, nelle botti sul carro, che quasi sempre erano due, per dividere appunto i due tipi di uva.,
Quando le botti erano piene, si riportava il barroccio a casa, mentre sul campo i vendemmiatori continuavano,. A casa, altri uomini cominciavano a pigiare l'uva a mano, usando le bigonce e quello che veniva chiamato il “pigione”, che era un grosso ceppo di legno, maneggiabile come un pestello.
Con cadenza regolare e senza sbagliare mai, due uomini facevano quel lavoro insieme, alzavano e abbassavano in sequenza quel pesto sull'uva che si spappolava e cominciava a tralasciare il suo succo.
Dopo un po' di quel trattamento, l'uva ormai ridotta a mosto, che spandeva intorno un profumo dolciastro, veniva gettata nel tino della cantina e in altre botti grosse già pronte a quello scopo.
Si proseguiva così per tutta la giornata o per più giorni, a secondo della quantità del raccolto o dell'estensione delle viti sui campi. A noi occorrevano almeno tre giorni per raccogliere l'uva, perchè i nostri appezzamenti erano in posti diversi, e poi altri due per quelle distribuite intorno casa, per cui per rifinire quell'incombenza passava fra tutto anche una settimana.
Perchè poi c'era da scegliere l'uva migliore da mettere via per “il governo”. In un certo periodo, dentro alle botti dove il mosto diventava vino, si aggiungeva ancora dell'uva particolare che era quella appunto tenuta da parte per quello scopo futuro, e che serviva al vino per maturare meglio e diventare più buono. Altra uva poi veniva scelta e tenuta da parte. Si sistemava in soffitta sui castelli e sui cannicci ad essiccare per poi mangiarla nell'inverno.
Per giorni e giorni era uno spasso, un viaggio continuo per me su quei barrocci insieme all'uva e alle api che ronzavano intorno. Non mi perdevo nessuna traversata. Visto dall'alto il mondo mi sembrava diverso e fantasticavo osservando le montagne lontane, immaginando luoghi e posti ipotetici, dove anch'io a suo tempo sarei andata, ma non mi perdevo un attimo intanto di ciò che mi offriva quel mondo lì, eccitata da un avvenimento che metteva in subbuglio tutti i miei sensi e mi ubriacava quasi come se il vino lo avessi bevuto.
Dopo alcuni giorni che l'uva pigiata ribolliva nelle botti e nei tini (ora non mi ricordo il tempo preciso che ci doveva stare) quello che ancora non era vino, e veniva travasato e passato nelle botti, quelle chiuse proprio e poi lasciato dentro per mesi, aspettando che diventasse ottimo vino.
Ma non era ancora finita, perchè i graspi che rimanevano dell'uva, venivano ulteriormente strizzati.
Arrivava un omino con un marchingegno, uno strizzo si diceva, un torchio, una specie di gabbia di legno, dove il resto dell'uva veniva messa e schiacciata, strizzata appunto fino a far uscire il succo proprio fino all'ultima goccia. Ma nemmeno questa vinaccia ormai di scarto veniva buttata, anzi la comprava della gente che veniva a caricarla con un camion, o la maggior parte delle volte nonno la portava in soffitta e per giorni io vedevo paioli di acqua che nonna faceva bollire sul fuoco che venivano portati su in cima, dove nonno Arturo insieme a zio Palmiro si chiudevano a chiave come cospiratori e facevano chissà quale lavoro di nascosto.
Non sono mai riuscita a veder distillare la grappa, perchè quello era, mi tenevano lontana, e alla mia curiosità nonna rispondeva con un alzata di spalle... “Te un t'interessà e sta zitta... tanto quer che fanno un ti piace...”
Era vero certamente la grappa non era una bevanda che mi interessasse, e poi l'avevo assaggiata perchè nonna ne teneva un po' in una bottiglietta, e ogni tanto ne aggiungeva al caffè d'orzo, aveva un profumo appetibile, ma il sapore sgradevolissimo... avevo sputato subito.
Come il vino, anche quello non mi piaceva e non lo bevevo, solo a volte ne mettevo un po' su una fetta di pane con lo zucchero, dunque quel lavoro a cui tanto partecipavo divertita non dava a me dei beni concreti, visto che della produzione non assaggiavo nulla, ma che gusto, che divertimento quel periodo. Che scorribande con quegli altri figlioli in quei campi distanti, dove si arrivava solo in quel modo e in certi periodi dell'anno, per i lavori grossi come quello.
Che bellezza le case in quei giorni!
In giro un profumo forte usciva dagli usci accallati o spalancati, per permettere l'andirivieni e per il tepore gradevole che ancora il tempo concedeva.
Dopo... dopo iniziava un altro periodo... sistemata una cosa, subito era pronta l'altra, il tempo cambiava e si preparava per la semina... alla sera si cominciava ad accendere il primo fuoco. Di solito dopo la vendemmia arrivavano i temporali autunnali, e noi ci si accucciava accanto alle braci, mentre fuori la pioggia batteva sugli usci. E nonno, tutto soddisfatto si levava la pipa di bocca e ghignando sotto i baffi in un sorriso sdentato diceva a nonna che rumava la polenta... “ Meno male Giulia eh! S'è fatto attempo!”
Dana Carmignani
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