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Una voce libera per tutti. Sono Antonio Gabriele Fucilone e ho deciso di creare questo blog per essere fuori dal coro.

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Il mio libro, in collaborazione con Morris Sonnino

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lunedì 12 dicembre 2016

Che piaccia o no, Gerusalemme è ebraica!

Cari amici ed amiche,

grazie all'amica Silvia Morelli, che tanti spunti mi dà per questo blog, ho trovato queste parole del giornalista Giacomo Kahn:
"Im eshkachech Yerushalayim, tishkach yemini. “…Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia...”. Con queste parole (Salmo 137) tremila anni fa, il re David affidò di generazione in generazione il sentimento di attaccamento, di profondo amore che gli ebrei hanno verso la città di Gerusalemme, quel luogo che per la tradizione biblica segna l'inizio della storia del patto tra Dio e il popolo ebraico. E' infatti sul monte Moriah, oggi il monte della spianata, che Dio sottopose Abramo all'ultima delle dieci prove, chiedendogli di sacrificare il figlio Isacco e dove Dio promise che da quel mancato sacrificio ne sarebbe nato un popolo. Da quel momento la centralità di Gerusalemme è entrata non solo nella liturgia ebraica, ma anche nell'immaginario collettivo di un popolo che - bisogna ricordarlo - per duemila anni la maggior parte è stata allontanata proprio da quei luoghi. Ogni giorno, tre volte al giorno, gli ebrei osservanti pregano rivolgendosi, da qualsiasi parte del mondo, verso Israele; quelli che risiedono in Israele pregano rivolgendosi verso Gerusalemme; quelli che abitano in città pregano in direzione del Kotel Hamaaravi, il Muro Occidentale (l’unica vestigia, si tratta di un muro di cinta dell’antico Santuario), e quelli che si trovano davanti al Muro pregano verso il luogo (il Kodesh Hakodashim, il sancta sanctorum) che era il centro del Santuario e nel quale risiedeva permanentemente la shekinàh, la presenza immanente di Dio. E' un flusso spirituale, una corrente mistica che non ha eguali in altre fedi e che testimonia che la distruzione materiale del Santuario ha per certi versi rafforzato quel santuario interiore che ogni ebreo porta dentro di se, ha rafforzato il senso di appartenenza e l'identità del popolo ebraico. Due volte infatti fu costruito e due volte distrutto quello che era il centro spirituale di Israele. La costruzione del primo Bet Hamikdash - che richiese sette anni di lavoro e la partecipazione di tutto il popolo - avvenne su iniziativa del re Shelomò (Salomone) e si concluse nell’anno 2935 del calendario ebraico (826 a.e.v.). Quel tempio rimase in piedi per 410 anni, fino a quando nel nono giorno del mese di Av dell’anno 3345 del calendario ebraico (416 a.e.v.), venne distrutto dall’imperatore babilonese Nevuchadnetzar (Nabuccosonodor) che deportò la popolazione ebraica in Babilonia. Settant’anni dopo, grazie all’editto emanato dall’imperatore Ciro a favore della ricostruzione del Santuario, il popolo ebraico ritornò in patria guidato da Ezra lo Scriba e da Nechemyà. Iniziarono quindi i lavori di riedificazione del Tempio (3390 del calendario ebraico - 371 a.e.v.), più tardi ingrandito dal re Erode. Il secondo Tempio fu distrutto, anche esso nel giorno 9 del mese di Av, dalle truppe dell'imperatore romano Tito nell'anno 70 e.v. La distruzione del centro spirituale e religioso, e il conseguente esilio e dispersione del popolo ebraico da Gerusalemme, furono una terribile prova di sopravvivenza che viene ogni anno ricordata con un giorno di lutto e di digiuno nel giorno del 9 del mese di Av. Tuttavia quei tragici eventi, con la conseguente perdita dell'autonomia politica e religiosa, sono stati vissuti e ancora vengono oggi visti come una tappa della storia ebraica e come una dimostrazione della presenza e delle decisioni divine, annunciate dai profeti e quindi motivo da cui trarre conforto perché alla distruzione e alla dispersione, seguiranno la riunificazione del popolo ebraico e la ricostruzione. Il Talmud propone una famosa storia e ci racconta il viaggio di Rabbi ‘Aqiba e dei suoi discepoli a Gerusalemme dopo la distruzione del secondo Tempio e precisa che i discepoli cominciarono a piangere arrivando al monte del Tempio e vedendo una volpe uscire dal Santo dei santi. R. ‘Aqiba invece si mise a sorridere e, rispondendo allo stupore dei suoi compagni, spiegò che, siccome costatava che la profezia di Michea sulla distruzione di Sion si era ormai compiuta, poteva sorridere sperando nella realizzazione prossima della profezia di Zaccaria (8,4) che ne era tributaria: «Vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità». Finché la prima profezia rimaneva solo una minaccia, disse R. ‘Aqiba, «temevo che non si compisse la profezia di Zaccaria; ora che si è compiuta la profezia di Uria, so che la profezia di Zaccaria si compirà». I suoi discepoli allora esclamarono: «‘Aqiba, ci hai consolati! ‘Aqiba, ci hai consolati». A ricordare che Gerusalemme era ebraica basta leggere la Guerra Giudaica scritta da Giuseppe Flavio tra il 75 e il 79 e.v.: “Gerusalemme (scrive nel 5° libro, 4° capitolo) era protetta da una triplice cinta di mura, eccetto nella parte che affaccia su strapiombi impraticabili, dove il muro era uno solo. La città era costruita su due colline che si fronteggiano separate da una valle frapposta verso cui le case degradavano l’una dopo l’altra. Delle due colline quella che formava la città alta era notevolmente più elevata e aveva sulla sommità una spianata più ampia; per la sua forte posizione essa ebbe appunto il nome di fortezza dal re David, il padre di Salomone che fu il primo a costruire il tempio, mentre noi la designiamo col nome di piazza superiore. La seconda collina è quella che si chiama Akra e che formava la città bassa con la sua forma ricurva alle estremità”. E al 12° capitolo del secondo libro, scrive: “Essendosi la folla raccolta a Gerusalemme per la festa degli Azzimi, ed essendosi schierata la coorte romana sopra al portico del tempio - giacché usavano vigilare in armi in occasione delle feste, per evitare che la folla, raccolta insieme, desse inizio a qualche sommossa - uno dei soldati, sollevatasi la veste e inchinatosi con mossa indecente, mostrò ai giudei il suo deretano accompagnando il gesto con un acconcio rumore. La cosa fece imbestialire la folla, che con grandi schiamazzi esigeva da Cumano (generale romano, ndr.) la punizione del soldato, mentre i giovani con la testa più calda e gli elementi per loro natura più ribelli del popolo si gettavano allo sbaraglio e, afferrate delle pietre, le scagliavano contro i soldati”. Per duemila anni agli ebrei fu quindi impedito di avvicinarsi a quel Muro occidentale verso il quale sono state versate lacrime di nostalgia e di rimpianto, ragione per la quale i non ebrei ne trassero la definizione di ‘Muro del pianto’. Quanto sia centrale Gerusalemme nel sentimento ebraico basta assistere ad un matrimonio ebraico: sotto la Kuppah (baldacchino nunziale) non mancano mai musica canti e allegria, ma anche una ‘curiosa’ usanza: lo sposo rompe un bicchiere, schiacciandolo sotto la scarpa, accompagnandolo con le parole "…im eshkachekh Yerushalaim.., se ti dimenticherò Gerusalemme....". E' un gesto con il quale si tramanda la conservazione della memoria storica, ma anche la dimostrazione della consapevolezza che anche nei momenti di massima gioia e di allegria, ogni ebreo non deve dimenticare mai la perdita di Gerusalemme, e questo soprattutto nelle fasi più importanti della propria esistenza. E il matrimonio è uno di questi momenti, nel quale si compenetrano le identità e i destini personali degli sposi con l'identità del popolo che devono ricordare con la 'rottura' del bicchiere, che non è sanata l'antica 'rottura' storica. Ma la suggestione di Gerusalemme non è relegata alla sola memoria e ai riti religiosi, pervade - si potrebbe dire - persino la società israeliana, per molta parte laica e per nulla mistica. Yerushalayim shel zahav (Gerusalemme d’oro), è una canzone popolare israeliana, scritta e musicata da Naomi Shemer prima dello scoppio della Guerra dei Sei giorni del 1967 che è diventata l'inno extra-ufficiale di Israele. La canzone descrive la situazione di Gerusalemme negli anni anteriori alla Guerra dei Sei Giorni, quando la città era tagliata in due da un muro, che separava il Regno di Giordania dallo Stato di Israele e che era conosciuto come “confine urbano”. I luoghi santi del Giudaismo, nella parte est della città, - il Muro Occidentale e l’antico cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi - non erano accessibili agli Ebrei. Per questa ragione Gerusalemme viene descritta come «la città che siede solitaria, nel cuore della quale sta un muro...»: con questa frase il testo rinvia anche al Libro delle Lamentazioni («Come siede solitaria la città una volta tanto popolosa! » 1,1). Anche la frase «Come si sono seccate le cisterne d’acqua» richiama i testi profetici (per esempio Geremia 2,13). La struggente melodia e l'incredibile coincidenza storica - fu presentata in un festival canoro tre settimane prima dello scoppio della Guerra dei Sei giorni - fecero della canzone uno dei canti di battaglia dei soldati israeliani. Così dopo che Gerusalemme fu conquistata e riunificata e gli ebrei poterono dopo duemila anni tornare a pregare davanti alle grandi pietre del Muro, la Shemer aggiunse una nuova strofa: "…Siamo ritornati alle cisterne d’acqua, al mercato e alla piazza, uno shofar risuona sul Monte del Tempio, nella Città Vecchia, e nelle grotte che ci sono nella roccia splendono mille soli: torneremo a scendere verso il Mar Morto, sulla strada di Gerico…". Quello shofar (il corno di montone) che effettivamente il rabbino Rav Shlomo Goren suonò davanti al Muro, circondato dai paracadutisti del generale Motta Gur che il 7 giugno 1967 riconquistarono Gerusalemme. Ma tutto questo l'Unesco non lo sa. GIACOMO KAHN".

Che piaccia o no, Gerusalemme è città prima di tutto ebraica e, in subordine, cristiana.
L'ONU, l'UNESCO, il nostro attuale premier incaricato Paolo Gentiloni (che con l'astensione dell'Italia a quella votazione dell'assurda risoluzione che negava il nesso ebraico di Gerusalemme ci ha fatto fare una magra figura) e tutti coloro che la pensano come loro possono dire quello che vogliono ma contro la storia ed il buonsenso essi non possono fare nulla.
Il Monte del Tempio è luogo ebraico perché lì vi era il luogo più santo degli ebrei, il Tempio di Gerusalemme, e, in subordine, esso è legato anche a noi cristiani, perché Gesù Cristo frequentò il quel luogo, come lo frequentarono i primi cristiani.
L'Islam venne lì nel VII secolo AD.
Ricordo che l'Islam provenne da un'eresia gnostica del Cristianesimo ma (come ha scritto Magdi Cristiano Allam) rispetto alla tradizione giudaico-cristiana risulta essere parallelo, poiché l'Abramo coranico non è l'Abramo biblico ed il Gesù coranico non è il Gesù Cristo biblico.
Anzi, il Corano attacca ebrei e noi cristiani, paragonando i primi alle scimmie e dicendo di noi che siamo idolatri.
Questi sono fatti.
Cordiali saluti.

2 commenti:

  1. Conosco questi fatti e sono anche io indignata per la bestialità dell'Unesco che attribuisce ai cosiddetti palestinesi, gente di una nazione che non ha mai ricevuto il riconoscimento da parte delle altre nazioni, il Muro del Tempio che appartiene agli ebrei e ai Cristiani in quanto derivano dall'essere seguaci dell'ebreo Gesù. Quel Gesù che venne presentato al Tempio e che a 12 anni rimase nel Tempio a discutere con i Dottori, quel Gesù che scacciò i mercanti dal Tempio, appunto il Tempio di Gerusalemme

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  2. Lo so bene. Dovresti dirlo a quelli dell'UNESCO.

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Ringrazio un caro amico di questa foto.