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mercoledì 23 maggio 2012

Jacques Maritain - Riflessioni sull'intelligenza e la sua vita propria (1924) (PRIMA PARTE)

Cari amici ed amiche.

Leggete questo testo di Jacques Maritain:

"Capitolo primo

Della Verità

[...]

ESSERE E PENSIERO NEL RAPPORTO DI CONOSCENZA

3. L'anima conosce. Dobbiamo dire che essa coincide assolutamente e sotto tutti i rapporti con tutto ciò che conosce? Quando io vedo un albero o una pietra, forse io divento pietra o albero? La mia anima è forse un amalgama — come pensavano i primi « fisiologi » della Grecia — di tutti gli elementi del mondo e di tutte le qualità che essa può conoscere?

Ma in me esiste, per conoscere, qualcosa di diverso dai sensi. Nel percepire le apparenze sensibili, l'intelligenza scopre nelle cose delle determinazioni intemporali e necessarie leggibili per lei sola, e di cui essa s'impadronisce per mezzo delle sue idee. Essa lavora su ciò che le cose sono, e questo in lei è un mondo di essenze universali, come il mondo dei numeri nell'intelligenza del matematico. Dobbiamo dunque (se il rapporto tra l'essere e il pensiero è un rapporto di identità pura e semplice) pitagorizzare e platonizzare, e dire che solo queste essenze universali, necessarie e intemporali, esistono veramente? che il mondo intelligibile che esse costituiscono è il mondo reale, il mondo dell'esistenza, e che il mondo sensibile non è che un'ombra che mente, il flusso frangi-ragione di Eraclito?

Ma ovunque l'intelligenza si volga, è sempre l'essere che essa vede. Dovunque è in sua presenza; ogni qualvolta conosce, ciò che coglie è essere. L'idea dell'essere è la stoffa comune del pensiero. Dobbiamo allora credere che esiste una stoffa comune delle cose: l'essere uno e il medesimo, dobbiamo ascoltare Parmenide, che afferma non esistere alcuna molteplicità, che non vi è che l'essere, e dire col vecchio Senofane, con Lessing e con Goethe: hèn kaì pân, uno e tutto?

Lascio ora la semplice apprensione delle cose. Sarò più fortunato sul versante dell'atto di giudicare, che è la perfezione stessa dell'intelligenza? Le nozioni con le quali si costruisce il giudizio differiscono tra loro, se no, giudicando, non direi niente del tutto: la nozione di poeta è diversa dalla nozione diEdmond Rostand. Tuttavia io dico, o potrei dire: « Edmond Rostand è poeta ». Ma pronunciare questo giudizio equivale a dire: « È una stessa cosa quella che chiamo Edmond Rostand e che chiamo poeta », in altri termini equivale a identificare « poeta » e « Edmond Rostand ». Come è possibile ciò, se l'essere e il pensiero coincidono assolutamente e sotto tutti i rapporti? Dal momento che il pensiero « poeta » e il pensiero « Edmond Rostand » sono due differenti pensieri, come posso io identificare la cosa poeta e la cosa Edmond Rostand? Eccomi gettato fra le spine di Megara. Assumendo come principio, dice Simplicio, che « diverso è ciò i cui concetti sono diversi » (3), i megarici insegnavano l'incomunicbilità delle idee e l'impossibilità del giudizio. Poiché il logos di « Socrate » è diverso dal logos di « bianco », se io dico « Socrate è bianco » introduco in Socrate una cosa altra da Socrate, divido Socrate da sé stesso; se dico: « Edmond Rostand è poeta », separo Edmond Rostand da sé stesso. « Koriskos è uomo », voi dite? Ma « uomo » è altra cosa da « Koriskos » e dunque Koriskos è altra cosa da Koriskos. Non si può dire se non Koriskos è Koriskos, Edmond Rostand è Edmond Rostand, come il Corano dice Dio è Dio. Decisamente la sapienza è amara.

E il ragionamento? Che cosa ci porta la terza operazione dello spirito? Il ragionamento è essenzialmente un movimento logico immanente allo spirito e che partendo da un principio progredisce con necessità; in esso il conoscere si presenta come uno sviluppo del pensiero secondo le leggi inflessibili della connessione di concetti. Dovrò dunque, se l'essere e il pensiero sono assolutamente identici, dire la stessa cosa per quanto riguarda l'essere? Eccomi preso questa volta nelle reti di Spinoza e di Hegel. Il mondo sarà per me l'autosviluppo di un principio immanente, Sostanza o Idea, il puro dispiegarsi della Logica nella necessità assoluta di una concatenazione universale nel modo di una deduzione analitica, o di una evoluzione eterna nel modo di opposizioni e di sintesi. Una maniera moderna — e in fondo molto inferiore, quanto il ragionamento è inferiore all'intuizione, il movimento all'atto immobile — di ripristinare il monismo del vecchio Parmenide.



L'IDENTITÀ PARMENIDEA TRA ESSERE E PENSIERO

4. Queste difficoltà non sono piccole. La pressione che esse esercitano sullo spirito ha costretto gli antichi a un lungo sforzo filosofico, inducendoli a poco a poco, da un canto a separare dal tutto confuso della conoscenza, quale la concepivano i primi dotti, la scienza logica nella sua propria originalità, dall'altro a formulare nel medesimo tempo delle concezioni critiche, certo più profonde di molte delle teorie moderne, ma mescolate alla loro stessa logica, alla loro metafisica, alla loro psicologia, e che essi non raggruppavano in un « trattato » speciale. (È per questo che tante anime buone s'immaginano che la Critica della conoscenza cominci con Kant, come la Libertà con la Rivoluzione francese).

A quale termine ha dunque teso essenzialmente quello sforzo filosofico? In qual modo le difficoltà segnalate possono essere tolte?

Dobbiamo levare su Parmenide una mano parricida, come dice Platone, e negare puramente e semplicemente ogni identità tra l'essere e il pensiero?

Ma allora che ne è della verità, in quanto conformità tra lo spi rito e ciò che è? Se da una parte c'èl'essere indipendente dal mio spirito, e dall'altra parte il mio spirito, così che tra i due non si verifica una identità propriamente detta, allora il mio spirito non attinge mai se non una somiglianza dell'essere, non l'essere stesso. E il filosofo si chiederà sempre: chi garantisce che questa somiglianza è realmente somigliante? che la conformità del mio spirito con l'essere è reale, e non soltanto apparente? Che la verità di cui io sono certo è veramente verità?

Non respingerò dunque il principio di Parmenide, che pur dovrò precisare e affinare. Senza dimetterel'identità (non più però sotto tutti i rapporti) tra l'essere e il pensiero, dovrò arrivare a una certadisgiunzione tra essere e pensiero, così da discernere certe condizioni che sono proprie dell'uno e certe condizioni che sono proprie dell'altro, e da distinguere nel mio pensiero ciò che è delle cose stesse da ciò che appartiene al mio modo di conoscere. Lavoro sottile, che fu incominciato da Platone, compiuto quanto all'essenziale da Aristotele, ripreso e completato dagli scolastici.



MONDO DELL'ESISTENZA E MONDO DELLA CONOSCENZA

5. Ciò che qui importa innanzitutto, è distinguere tra la cosa e la sua esistenza, tra la cosa stessa e il modo di esistere della cosa. Nel momento in cui intravvedo che per una stessa cosa al danno diversi modi di esistere, diverse maniere di essere posta fuori dal nulla, un modo per cui la cosa esiste in sé stessa, e un modo per cui essa esiste in un'anima, allora comincio a entrare nel problema della conoscenza.

L'anima non coincide materialmente con tutte le cose; quando vede una pietra o un albero, non diventa pietra o albero secondo l'esistenza che queste cose hanno in sé stesse, ma le attrae invece nell'esistenza sua propria. Così la pietra esiste in un dato modo in sé stessa pietra: allora essa è puramente e semplicemente; e quella stessa pietra esiste in un altro modo nella mia anima, e allora essa è vista. Dirò che l'anima conoscendo diventa in una certa maniera tutte le cose, una maniera che mi resterà da precisare, e che posso già chiamare immateriale, se rifletto che l'esistenza propria della pietra è un'esistenza materiale, e che nell'anima quella pietra è staccata dall'esistenza sua propria.L'oggetto è nel soggetto secondo il modo di esistere del soggetto.

6. Attraverso i sensi la cosa è conosciuta così com'è, con tutte le sue condizioni di esistenza attuale e con tutti i caratteri che essa riceve hic et nunc dalla sua materialità. Attraverso l'intelligenza, è conosciuta in ciò che essa comporta di intemporale e di necessario, segreto nascosto ai sensi. In quella cosa tonda che gira, e che essa chiama ruota, l'intelligenza vede il cerchio. Nell'intelligenza, la cosa non è più cosa, ma essenza o quiddità; in essa è e vive separata non solo dalla sua esistenza nella materia che le è propria, ma anche dalle condizioni e dai caratteri che sono legati a quella esistenza materiale (note individuanti). A questo prezzo solamente, l'essere che si trova in lei ci appare come tale. È, questo, il risultato dell'operazione astrattiva con la quale la nostra intelligenza trae il suo oggetto dal dato sensibile e, facendo di esso un concetto che essa dice a sé stessa, lo vede in questo concetto.

Distinguerò quindi a questo punto l'essenza o natura astratta dallo spirito, e l'esistenza di questa natura secondo che è nello spirito o nella cosa; ed è in tal modo che sfuggirò al platonismo.

Le essenze universali verso cui si rivolge il lavoro dell'intelligenza non esistono in tale stato di universalità che nello spirito;

fuori dallo spirito esse esistono solo nella cosa individuale e concreta quale è percepita dai sensi, e in uno stato di singolarità; così che il mondo che esse costituiscono è sì per noi il mondo dell'intelligibilità, ma non quello dell'esistenza; è nel mondo sensibile che quel mondo intelligibile esiste fuori dallo spirito, è in questa ruota che esiste il cerchio; parlo degli intelligibili che formano l'oggetto proprio dell'intelligenza umana, e che ci sono immediatamente forniti dall'astrazione, giacché nulla vieta che altri intelligibile concepiti per analogia con questi — un'anima spirituale uno spirito puro, Dio — esistano fuori dal nostro spirito In sé stessi e non in un soggetto materiale (ma sempre in uno stato di singolarità). Così l'universale oggetto dell'intelligenza è più, quanto al conoscere, e meno, quantoall'esistere, dell'individuale oggetto del senso (4). Di qui la dignità propria dell'uno e dell'altro. Diciamo che l'universale esiste nel reale quanto all'essenza o natura chiamata universale, ma non esiste che nello spirito quanto all'universalità stessa.

In questo modo è messo in luce il ruolo formativo della nostra intelligenza, che pone lei stessa il proprio oggetto davanti a sé in un concetto, e che lo lavora, lo divide, lo impasta in tutti i modi per meglio penetrarlo. Fin dall'origine è da lei e dalla sua attività che questo oggetto riceve quel modo universale di esistere che esso ha nell'intelligenza stessa. Ma se io introduco così una certa disgiunzione tra l'essere e il pensiero, devo mantenere d'altra parte una certa identità tra l'uno e l'altro, pena il rendere impossibile la verità. Io vedo il punto esatto in cui sussiste tale identità, in cui il conoscere non differisce minimamente da ciò che è: purché l'essenza, che ha un modo universale di esistere nello spirito, e un modo individuale di esistere nella cosa, non riceva dalla mia intelligenza nessuna delle sue determinazioni intrinseche, assolutamente nulla di ciò che essa è come essenza; purché a tale titolo

la mia intelligenza si limiti a riceverla senza toccarla affatto, allora ecco che l'intellezione è salva. Noli tangere.

Il cerchio è identicamente ciò che è come cerchio, sia nella ruota, dove esiste con tutte le sue proprietà geometriche, sia nel mio spirito, dove tali proprietà vengono conosciute a poco a poco.

È una sola e medesima natura umana che esiste fuori dal mio spirito, in Pietro (dove non fa che tutt'uno con la natura individuale di Pietro), e che esiste nel mio spirito, come oggetto conosciuto (conosciuto dapprima secondo quel dato aspetto assai indeterminato, al quale si aggiungeranno senza fine quel tale e quel talaltro aspetto). In altre parole, quello che gli scolastici chiamavano il terminequod dell'apprensione intellettuale, il termine immediatamente raggiunto dall'intelligenza per mezzo del concetto, non è un'immagine o un ritratto della cosa, né una forma vuota, ma è la cosa stessa, è la natura stessa che è ad un tempo nella cosa per esistere e nel concetto per essere percepita.

Questa tesi assolutamente fondamentale è misconosciuta da qua-si tutti i filosofi moderni: da Cartesio, il quale ritiene che il termine immediatamente raggiunto dal pensiero sia il pensiero stesso, l'idea, considerata come un'immagine o un ritratto della cosa; da Kant, il quale pensa che attraverso il concetto come tale l'intelligenza non percepisca nulla, ma applichi alle rappresentazioni sensibili una forma vuota; da taluni pensatori contemporanei, come Blondel, i quali, influenzati loro malgrado dall'eredità di Cartesio e di Kant, considerano ancora il concetto o la « nozione » come un « ritratto », e come un ritratto radicalmente eterogeneo rispetto all'originale. Non dimentichiamo tuttavia che mentre il senso percepisce la cosa, questa ruota, questo bastone, in quanto essa esiste attualmente, la nostra apprensione intellettuale, presa per suo conto e in sé stessa (indipendentemente dall'atto di giudicare), si dirige sulle nature o essenze: il cerchio, la retta, facendo astrazione dalla loro esistenza attuale in questo o in quel soggetto. Essa riguarda dei possibili, non delle esistenze attuali. L'esistenza attualmente esercitata ci è consegnata solo dai sensi, e dai ragionamenti costruiti sui dati dei sensi. Ruolo capitale, da questo punto di vista, dell'esperienza sensibile, del contatto materiale con le cose. Io posso sapere mediante la ragione che Dio esiste, ma a condizione di partire dall'essere che tocco e che vedo.

7. Quanto al concetto di essere, è bensì vero che costituisce la stoffa comune del pensiero. Ma questo concetto che imbeve tutti gli oggetti di intelligenza si dice a dei titoli diversi delle cose di cui si dice, e noi non possiamo pensare l'essere senza pensare l'essere di questo o di quello, di Dio o della creatura, della sostanza o dell'accidente. Perciò, lungi dall'accedere al monismo di Parmenide, e dal fare dell'essere uno e identico la stoffa di tutte le cose, dobbiamo dire che solo la parola essere è puramente e semplicemente uno. Non soltanto l'essere esiste nello spirito, come ogni oggetto concettuale, con una universalità che non ha nel reale, ma dobbiamo aggiungere che la sua unità non è nello Spirito stesso che una unità sotto un certo rapporto (unità di proporzionalità): il concetto di essere è un concetto analogo e im plicitamente molteplice.



IL GIUDIZIO, COMPOSIZIONE NOZIONALE CONFORME A UN'IDENTITÀ REALE

8. Che dirò dell'atto di giudicare? Il problema della predicazione (attribuzione di un predicato a un soggetto) si risolve agevolmente non appena si sia compreso che a uno stesso esistente reale possono corrispondere nello spirito due concetti diversi o due diverse vedute. « Uomo » significa « che ha la natura umana », e se non posso dire « Koriskos è l'umanità », posso invece dire « Koriskos è uomo », perché una medesima cosa esistente fuori dallo spirito può avere la natura umana e avere il nome di Koriskos. Il concetto « uomo » è diverso dal concetto « Koriskos », ma quella data cosa chiamata « uomo » non è altro che quella data cosa chiamata Koriskos. Il soggetto e il predicato sono lo stessoquanto al reale, e sono diversi quanto al concetto o alla nozione: idem re, diversum ratione (5).

Ecco dunque una certa disgiunzione tra l'essere (una stessa cosa) e il pensiero (due concetti). Ma la coincidenza richiesta tra l'uno e l'altro non per questo è distrutta, poiché da un canto l'atto di semplice percezione intellettuale, facendomi vedere a parte in Koriskos questi o quegli oggetti di pensiero, « uomo », « bianco », ecc., non mi dice affatto che tali oggetti di pensiero esistano a parte; e d'altro canto l'atto di giudicare riunisce precisamente ciò che l'atto di semplice percezione intellettuale aveva diviso: giacché esso consiste nell'identificare il soggetto e il predicato per mezzo del verbo essere. Il giudizio consiste essenzialmente nel dichiarare che due concetti diversi in quanto concetti si identificano nella cosa. Dispongo con ciò di un nuovo principio assolutamente fondamentale, che i filosofi moderni partendo da Leibniz sembrano misconoscere; poiché tutto ciò che essi dicono del pensiero logico, asservito all'« identità », sembra presupporre che questo pensiero ha per funzione di constatare delle identità già date, già bell'e fatte, tra nozioni prese come tali, il che riduce tutto il pensiero logico ad affermare A = A, e a non pensare affatto. Se Kant avesse scorto questo principio e spinto fin qui la sua critica, le successive generazioni sarebbero state private della Critica della ragion pura, costruita tutta quanta su quello straordinario postulato per cui giudicare è applicare a un soggetto mediante il verbo essere un predicato che quel soggetto non è.

Aggiungo che se la semplice percezione intellettuale con la quale io concepisco « Koriskos », « uomo », « il cerchio », ecc., concerne le essenze o nature, il giudizio, invece, col quale, considerando una proposizione come « Koriskos è uomo », « il cerchio è la superficie generata da una retta ruotante intorno a una delle sue estremità », io affermo: ita est, è così, il giudizio, dico, ha rapporto all'esistenza(attuale o possibile). È nell'esistenza extramentale che esso dichiara che il soggetto e il predicato della proposizione si identificano. Quando io dico: « Koriskos è uomo », dico: nell'esistenza attuale è una stessa cosa quella che è concepita come « Koriskos » e che è concepita come « uomo ». Quando dico: « Il cerchio è la superficie generata, ecc. », dico: nell'esistenza possibile è una stessa cosa quella che viene concepita come « cerchio » e che viene concepita come « superficie generata, ecc. ». Il giudizio è l'affermazione dell'esistenza (attuale o possibile) di una stessa cosa nella quale si realizzano ad un tempo due concetti diversi.

9. Conviene infine separare come si deve la Logica dalla Scienza: questa ha come oggetto l'essere reale, le cose raggiunte dai nostri concetti, e le loro connessioni nell'esistenza extramentale; quella ha come oggetto un essere di ragione, le relazioni e connessioni che le cose sottendono tra loro in quanto conosciute, in quanto esistono nello spirito. Il logico non è il reale, sebbene sia fondato nel reale. Le necessità intelligibili che noi consideriamo a parte nelle nature astratte e universali esistono bensì nelle cose e certamente le regolano, almeno per quanto attiene alla loro essenza, poiché per le determinazioni individuali, esse dipendono dal contingente. Ma il movimento logico e le necessità proprie del discorso non toccano le cose se non in quanto esistono nello spirito, separate dalla loro esistenza propria.

La logica ipostatizzata di Spinoza e di Hegel, la natura naturata dell'uno, il divenire dell'altro, da questo punto di vista appaiono come un'enorme puerilità.



DISGIUNZIONE E IDENTITÀ TRA L'ESSERE E IL PENSIERO

10. Così tutte le difficoltà si risolvono a condizione di riconoscere una certa disgiunzione tra l'essere e il pensiero, senza per questo abbandonare la loro essenziale identità nell'atto stesso del conoscere. Noi non abbiamo respinto il principio di Parmenide: « Il pensiero, e ciò di cui è pensiero, è tutt'uno », solo l'abbiamo precisato e rettificato. L'essere e il pensiero non sono in modo puro e semplice la stessa cosa, come voleva Parmenide. Il loro accordo non deve neppure essere immaginato secondo il modello sin troppo grossolano di un calco materiale: tra l'essere e il pensiero vi è ad un tempo, come ora intravvedo al termine di questo studio, identità molto più profonda e diversità molto più pronunciata. La cosa presa in quanto esiste nello spirito subisce delle condizioni che essa non ha in quanto esiste in sé stessa. Ma nel punto preciso su cui cade puramente il conoscere — voglio dire, per quanto riguarda precisamente ciò che della cosa vien eonosciuto — non vi è nessuna diversità tra la conoscenza e la cosa, tra il pensiero e l'essere; talché il conoscente e il conosciuto, senza che l'essere proprio dell'uno debba per nulla mescolarsi con l'essere proprio dell'altro, sono uno e il medesimo sotto il preciso rapporto dell'atto di conoscere: « L'atto del sentito e quello della sensazione », diceva Aristotele, « è un solo e medesimo atto; ma il loro proprio essere differisce nell'uno e nell'altro » (6). Espressione che sviluppa appieno e rettifica ciò che Parmenide non aveva saputo dire se non saldando in una stessa formula ili vero e il falso.

Invece che attenersi a queste sapienti precisazioni aristoteliche, in cui l'intelligenza degli Antichi aveva messo tutta la sua delicatezza di tocco, Kant, da dottor brutale, disgiungerà assolutamente l'essere e il pensiero, distruggendo così, comunque faccia, la conoscenza e la verità.

La verità, ora noi possiamo cercare di penetrare meglio che cosa sia, dando il suo senso più determinato alla grande formula resa classica da san Tommaso: adeguazione tra l'intelligenza e la cosa C). È un'opinione comune tra i filosofi che la verità è più perfettamente nell'intelletto che non nel senso, poiché quando giudica delle cose con verità, l'intelletto, essendo capace di riflessione, sa di essere vero, ma il senso non lo sa; e che essa è più propriamente nel giudizio, non nella semplice apprensione, poiché fin quando non c'è né affermazione né negazione, fintanto che io dico semplicemente « il cerchio » o « l'uomo », non vi è ancora nulla nello spirito che sia conforme o non conforme a ciò che è. Ma il giudizio, lo abbiamo appena visto, ha essenzialmente rapporto all'esistenza,attuale o possibile; e allo stesso modo è essenzialmente in rapporto all'esistenza fuori dallo spirito che si prenderà la verità: « verità di esistenza » in rapporto all'esistenza attuale, come quando dico: Koriskos è uomo; « verità ideale » in rapporto all'esistenza possibile, come quando dico: la somma degli angoli di un triangolo è uguale a due angoli retti. Verum sequitur esse rerum (8). Diciamo dunque che nel senso più preciso del termine, la verità è la conformità tra l'atto dello spirito che unifica due concetti in un giudizio, e l'esistenza (attuale o possibile) di una stessa cosa in cui si realizzano quei due concetti.

Definizione pedantesca, e che ha l'inconveniente di applicarsi solo all'intelligenza umana e alla veritàumana, alla povera verità umana, ma che ha il vantaggio di essere quanto più esplicita possubile. Se ne vogliamo una che convenga a ogni intelligenza, anche alle intelligenze pure (il cui giudizio non è asservito alla composizione e alla divisione dei concetti), diremo: la verità è la conformità dello spirito con l'essere, in quanto dice essere ciò che è, e non essere ciò che non è (9).

11. Ho parlato della verità dell'intelligenza. L'intelligenza è vera, secondo che giudica la cosa come essa è. Ma anche le cose dono vere, in quanto sono conformi all'intelligenza da cui dipendono: all'intelligenza umana, per le opere della nostra arte; all'intelligenza divina, per le cose della natura. Verità dell'intelligenza come verità della cosa, è sempre adaequatio rei et intellectus.

Ora, in Dio, non soltanto vi è conformità tra il suo essere e la sua intelligenza, ma « il suo essere è il suo stesso atto dell'intelletto. E la sua intellezione è la misura e la causa di ogni altro essere e di ogni altra intelligenza. E lui stesso è il suo essere e la lua intellezione. Donde segue che non solo la verità è in lui, ma che egli è la Verità stessa, sovrana e prima » (10). È così che san Tommaso risponde a Pilato.



Link alla seconda parte: http://www.facebook.com/note.php?note_id=10150851714064891



Note al capitolo primo



(3) Labóntes hos enargê prótasin, hóti hôn hoi lógoi héteroi taûta hétera esti, kaì hóti tà hétera kechóristai allêlon (Simplicius, Phys., 120, 12D).



(4) Quantum ai id quod rationis est, universalia magis sunt entia quam particularia, quantum vero ad naturalem subsistentiam, particularia magis sunt entia (San Tommaso, in Post. Anal.,

1. I, lect. 37).



(5) Cfr. san Tommaso, Sum. theol., I, 13, 12. Giovanni di San Tommaso, Logic.

II P., q. 5, a. 2, pp. 286 ss.



(6) Aristotele, De Anima, III, 2, 425 b 26: he dè toù aisthetoû enérgeia kaì aisthéseos he autè mén esti kaì mía, tò d'eînai ou tò auto autaîs. Ibidem 426 a 15: mìa mén estin he enérgeia he toû aisthetoû kaì he toû aisthetikoû, tò d'eînai héteron.



(7) Cfr. san Tommaso, Sum. theol, I, 16, 2. San Tommaso attribuisce questa formula a Isaac Israeli, medico e filosofo ebreo vissuto in Egitto tra T845 e il 940, nella cui opera De Definitionibus essa per altro non compare. Trasmessa da un qualche compilatore, deve certamente risalire più indietro nel tempo. Averroè, nella sua Destructio destructionis, dà una definizione analoga; Aristotele, pur non impiegando nel suo tenore letterale la formula: adaequatio rei et intellectus, si esprime in maniera equivalente in numerosi passaggi. Cfr. Sentroul, Kant et Aristote, 28 ed., p. 56, nota. Si veda altresì il nostro volume Les degrés du savoir, pp. 169 ss. (ed. it., Distinguere per unire. I gradi del sapere,Morcelliana, Brescia 19812, pp. 115



(8) San Tommaso, de Verit., q. I, a. 1, 3° sed contra. Cfr. in Boet. de Trinit.: «prima quidem operatio [intellectus] respicit ipsam naturam rei, Hccunda operatio respicit ipsum esse rei ».



(9) Cfr. san Tommaso, in Metaph. Aristot., lib. IV, lect. 8, n. 65.



(10) San Tommaso, Sum. theol., I, q. 16, a. 5. Sulla teoria tomista della verità, vedi Giovanni di San Tommaso, Curs. theol, t. IV, disp. II.".



Ringrazio Francesco Santoni che ha messo il testo su Facebook.
Voglio fare una breve riflessione, anche alla luce della disputa che sto avendo con i deterministi, coloro che, sostengono che tutto sia deciso che l'uomo sia solo un pezzo di un meccanismo e non  il primo attore della propria vita.
Il determinismo, tipo il pensiero di Lev Tolstoj, nega il valore dell'intelligenza umana, l'intelletto e la capacità dell'uomo di influenzare (nel bene e nel male) il proprio destino.
Stando al pensiero determinista, l'uomo è un pezzo di un meccanismo più grande, un meccanismo che nulla ha che fare con il Dio cristiano.
Quindi, sempre secondo i deterministi, l'uomo non ha un pensiero (né un intelletto)  e quello che pensa è imposto dall'esterno e deve solo espletare la funzione che gli è stata attribuita.
Per questo, il determinismo svilisce l'uomo.
Ora, nella visione cristiana (che era anche quella di Maritain) l'uomo ha un proprio intelletto poiché egli è un riflesso di Dio in piccolo.
Se l'uomo è un riflesso di Dio, vuole dire che il determinismo svilisce anche Dio, poiché non attribuisce l'intelletto all'uomo.
Non attribuendo l'intelletto all'uomo, il determinista non lo attribuisce nemmeno a Dio, che è intelletto.
L'uomo è ben più di un semplice pezzo di un meccanismo più grande.
Ogni uomo, infatti, è parte di Dio, pur nella sua diversità da ogni suo fratello.
Questo deve essere motivo di riflessione.
Cordiali saluti.

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Ringrazio un caro amico di questa foto.