Leggete questo brano che mi è stato segnalato dall'amico Filippo Giorgianni che è intitolato "Alfredo Mantovano, "Ricostruire un contesto sociale "coriandolare"", in AA.VV, "A maggior gloria di Dio anche nel sociale":
«Nel novembre 1996, a pochi mesi dall’avvio dell’esperienza di governo dell’Ulivo, è stato pubblicato un libro dalla casa editrice Il Fenicottero: ha una diffusione e un’eco limitate, ma la lettura delle sue pagine è di non scarso interesse. S’intitola Anti-prince. L’autore è François Sauzey, responsabile dell’ufficio stampa della Trilateral Commission. È un romanzo, e descrive il ritorno nella sua città, dopo anni di lontananza, dello stesso autore e di un certo P-Bee, iniziali di un personaggio reale, appartenente al mondo dell’industria e della finanza italiane: un personaggio che Sauzey piega essergli presentato da David Rockefeller a Washington, durante un meeting della Commissione Trilaterale, e che lo accompagna nel viaggio di rientro [...]. Il tema del libro è la morte dello Stato e l’emergere di una nuova polis, senza confini, nella quale si accede senza documenti, che ha e caratteristiche di un network: tante bandiere, l’una diversa dall’altra, una grande quantità di lingue parlate – con prevalenza dell’inglese – e una marcata incertezza sulla titolarità del potere. Chi comanda nella nuovapolis? Al quesito, che François pone a P-Bee, costui risponde spiegando che “[...] c’è stato un cambio della guardia”. Nella polis riscoperta un luogo inutile è il Parlamento. La stampa “sembra non parlare di nulla”. Dappertutto ci sono banche. Il Principe,che dovrebbe essere il capo della polis, è dipinto come un essere ripugnante e marginale, disteso su un sofà, privo di qualsiasi potere effettivo, a cominciare da quello di emanare le leggi che dovrebbe approvare il Parlamento, dal momento che “[...] ora è Bruxelles ad avere la precedenza sulle nostre leggi”. Il “cambio della guardia” è radicale: l’impresa ha acquisito la centralità che prima, come soggetto istituzionale prevalente, aveva il cittadino; il mercato detta le regole della convivenza quotidiana, sostituendo le norme una volta dettate dalla legge; caduto ogni confine, il mondo, il globo in generale, diventa il territorio naturale e subentra alla vecchia patria; non è più la civiltà la forza più attiva e consistente, bensì le etnie. La vita reale si svolge non nelle istituzioni e nelle sedi delle tradizionali autorità sociali, ma altrove: in borsa, nelle banche, su internet… Come la gran parte della letteratura detta “utopistica”, anche in questo romanzo non è ben definito il confine fra la descrizione di ciò che è già e la proiezione di ciò che non è ancora, ma di cui s’intravedono i segni. Anti-prince è stata però una lettura utile perché ha indicato una linea di tendenza: ai secoli della progressiva ipertrofia dello Stato, al momento della formazione dello Stato moderno, segue da tempo l’altrettanto progressivo, e progressivamente accelerato, scioglimento de più elementari presidi istituzionali. Al “tutto nello Stato, tutto per lo Stato, niente al di fuori dello Stato”, del quale il secolo XIX secolo aveva fatto conoscere la versione centralizzatrice d’impronta liberale, e il secolo XX le varianti nazionalsocialista e socialcomunista, si sostituisce la fuga dallo Stato, senza che vi sia lo sforzo per cercare un punto di equilibrio, che faccia svolgere allo Stato le funzioni che gli spettano, evitando di appropriarsi di compiti non propri, ma anche di rinunciare alle proprie responsabilità. Non che l’impresa, il mercato, la borsa, internet, la globalizzazione, l’integrazione multietnica abbiano, ciascuno in sé considerato, connotazioni negative. Si tratta però di capire se questi elementi devono restare gli esclusivi dominatori della scena pubblica e gli esclusivi regolatori della vita dei singoli, e se invece elementi come società, patria, nazione, Stato, siano ormai fuori dalla realtà; si tratta di capire se la politica ha ancora un senso, o se tutto deve essere dominato da scelte che si spacciano per “tecniche”, imponendo ai Parlamenti e ai popoli europei decisioni adottate in sedi comunitarie prive in modo diretto di mandato rappresentativo, senza un vaglio approfondito delle autorità politiche dei singoli Stati. In una prospettiva tradizionale, lo Stato ha una funzione propria e insostituibile: una funzione naturale, che prescinde dai condizionamenti culturali e storici. Si tratta, in particolare, di uno Stato non accentratore o prevaricatore, bensì autorevole, che rispetta le realtà istituzionali e sociali, in un’ottica di effettiva sussidiarietà, senza abdicare alle proprie funzioni. Uno Stato che non esiste per sé: esiste in relazione al popolo e al territorio, entrambi elementi materiali, cui si affiancava il vincolo giuridico che costituisce l’elemento formale; la nazione, a sua volta, benché spesso sia un termine adoperato indifferentemente rispetto a popolo, si basa su vincoli non giuridici, più profondi e di rilievo morale. Logicamente e cronologicamente non viene prima lo Stato, e quindi il popolo, il territorio, l’ordinamento giuridico, e quei valori comuni nei quali il popolo si riconosce: esistono dapprima questi fattori, e la loro organica composizione integra e legittima la sovranità dello Stato. Questo è tanto più autorevole quanto più è chiara la memoria dell’identità della nazione che esso rappresenta e guida; quanto più sono evidenti le libertà concrete, dei singoli e dei corpi intermedi, che all’interno della nazione si sono sviluppati nel corso dei secoli, e i valori che in quelle libertà hanno trovato compimento; quanto più quelle libertà e quei valori trovano riscontro nell’esperienza storica di altre nazioni, anzitutto nel continente europeo; quanto più valori e libertà trovano composizione con gli interessi economici e finanziari delle singole comunità; quanto più, infine al centro dell’attività delle istituzioni viene posto il bene della persona. Nell’Anti-prince l’esito del “cambio della guardia” è un “nuovo uomo”, espressione di una “nuova soggettività”. Nella parte finale del libro di Sauzey, costui si sorprende quando scopre l’esistenza di “[…] un Uomo che è soltanto l’ombra del precedente. Un uomo della rete, la cui indipendenza è accerchiata da ogni parte. […] Un Uomo che non è più sovrano, non è più neppure ‘uno’. […] un Soggetto polverizzato”. A queste osservazioni P-Bee risponde con franchezza: “[…] Se per Soggetto tu intendi qualche cosa che, anche se lontanamente, assomiglia all’uomo di Cartesio, […]sì, il soggetto si è frantumato – irreparabilmente rotto, temo”. Riecheggia, anche nei termini adoperati, il monito lanciato dallo scrittore russo Aleksandr Solženicyn trent’anni fa, l’8 giugno 1978, quando si presentò l’Università di Harvard davanti a ventimila persone, per la maggior parte studenti, e pronunciò un discorso che gli ascoltatori non compresero, tanto che raccolse più fischi che applausi. Nell’occasione descrisse con poche pennellate la crisi della modernità, che accomuna Est e Ovest, e ne identificò i caratteri. Dopo aver parlato del “bazar del Partito” a Est – si era ancora un decennio prima della caduta del Muro di Berlino, avvenuto nel 1989 – e della “fiera del commercio”, a Occidente, disse: “quello che fa paura, della crisi attuale, non è neanche il fatto della spaccatura del mondo, quanto che i frantumi più importanti siano colti da un’analoga malattia”. Adoperò proprio quell’espressione, all’inizio dell’esposizione, riassuntiva della condizione umana di oggi: parlò di “un mondo in frantumi”, e cioè di spaccatura profonde, non tanto o non solo di natura politica, o fra blocchi contrapposti, ma “[…] di crepe più profonde, più larghe e più numerose di quanto non appaia al primo sguardo”. Aggiunse che “[…] questa frantumazione profonda e multiforme è gravida per tutti noi di vari rischi mortali”, dal momento che “[…] qualsiasi regno diviso contro sé stesso – oggi la nostra Terra – è destinato a morire”. Qualche anno dopo, nel 1984, la medesima espressione – “mondo frantumato” – si incontra in uno dei più importanti documenti del magistero di Papa Giovanni Paolo II: l’esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia. E la si è ritrovata altre volte nel magistero pontificio, per descrivere la situazione di disorientamento esistenziale, prima ancora che sociale e politico, che grava sull’uomo di fine e d’inizio millennio. Questa espressione appare oggi ancora più puntuale rispetto a trent’anni fa. La si ritrova nel 41° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese, l’ultimo redatto a cura del CENSIS – il Centro Studi Investimenti Sociali, presieduto dal prof. Giuseppe De Rita – che descrive il contesto sociale italiano come “una realtà ambigua, senza rilievi e contorni di tipo sociologico e politico, piattamente de-totalizzata, e quindi sfuggente a ogni schema e sforzo interpretativo. Una realtà che diventa ogni giorno una poltiglia di massa; impastata di pulsioni, emozioni, esperienze e, di conseguenza, particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa”. Prosegue il rapporto: “Al termine poltiglia di massa si può […] sostituire il termine più espressivo di ‘mucillagine’, quasi un insieme inconcludente di ‘elementi individuali e di ritagli personali’ tenuti insieme da un sociale di bassa lega, e senza alcuna funzione di coesione da parte delle istituzioni. […] la frammentazione progressiva di tutte le forme di coesione e appartenenza collettiva ha creato una molecolarità che […] sta creando dei ‘coriandoli’, i quali stanno insieme (meglio sarebbe dire ‘accanto’) per pura inerzia, per appagato imborghesimento, per paura di tornare indietro, magari mitridatizzata da una sempre più generalizzata volgarità plebea. La caratteristica fondamentale dei ‘ritagli umani’ senza identità è la dispersione del sé, nello spazio e nel tempo collettivo. Nello spazio, per la vittoria irresistibile della soggettività esasperante in ogni comportamento, senza attenzione al momento della relazione e della convivenza. Nel tempo, per il declino irresistibile dell’attenzione su un tema, un problema, un fenomeno […]. Con i ritagli non si costruisce un tessuto sociale: così abbiamo, sul piano individuale, bolle di aspirazioni senza scopo e senza mordente e, sul piano sociale, deboli connessioni, smorte forme di aggregazione e inanimati simulacri dei processi di coesione che furono”. Di fronte a questa realtà sociologica non si può pretendere dalla politica il recupero di un’organicità che è perduta da decenni, ma si può esigere che individui nella frantumazione di un quadro una volta coerente la causa di una crisi molto più profonda di tante analisi di superficie. Potrebbe costituire un utile esercizio, per chi abbia voglia di farlo, percorrere a ritroso il cammino della modernità, per identificare in esso le ragioni reali delle spaccature e delle frammentazioni. Nel mondo politico è indispensabile interrogarsi su quale sia la parte da recitare per rispondere, nei limiti delle proprie competenze, alle necessità e ai disagi di un corpo sociale che ha le caratteristiche appena descritte. […] L’eliminazione dello Stato, in questo quadro, “lo Stato in fase calante” – per riprendere l’espressione di Sauzey –, la sua riduzione ai minimi termini è funzionale alla frantumazione dell’uomo, alla scomposizione dell’integralità del suo essere, all’allontanamento dell’uomo da un tipo definito dalla natura invece che dai laboratori. “Non lo troverai certo – spiega P-Bee nell’Anti-prince –, con una matita in mano, nella tranquillità del suo studio, a cercare di scoprire chi è. No! Questo no! Del nostro nuovo Uomo, potremmo dire che è un satellite capace di fargli scoprire sé stesso, che gli mostra chiaramente la sostanza di quello che egli è veramente. In questo senso, in quanto nuovo Soggetto, egli […] non è più autonomo, non è più sovrano; non è più veramente ‘il tutto’, ma soltanto una parte del tutto. […] egli non è più un soggetto personale!”. Dunque, non è lo Stato l’obiettivo finale, il nemico da abbattere, di un percorso storico e culturale plurisecolare. Ovvero, lo è in quanto oggi è, in qualche misura, strumento di difesa dell’integrità della persona. L’obiettivo che compare al centro del mirino di un processo intellettuale, prima che politico, è la persona come corrispondente a una natura data; obiettivi secondari, la cui disgregazione è volta al perseguimento dell’obiettivo principale, sono le comunità nelle quali la persona nasce, cresce e viene educata, in primis la famiglia. Si ricava qualche esempio illuminante dall’azione politica mirata alla disgregazione della famiglia e alla frantumazione dell’identità naturale della persona dagli atti della XV Legislatura, durata – grazie a Dio – appena due anni, dal 28 aprile 2006 al 28 aprile 2008: mai come in tale periodo vi è stata una così intensa concentrazione di attacchi alla vita e alla comunità familiare. In ogni legislatura dell’Italia repubblicana, a partire dagli anni 1970, sono stati depositati progetti legislativi eversivi su questi fronti, ma in quel biennio si è concretizzato lo sforzo per tradurli in norme di legge, su iniziativa parlamentare, ma soprattutto su impulso del governo presieduto dall’on. Romano Prodi. Per una serie di ragioni, legate non soltanto alla contingenza politica: la necessità della parte più a sinistra dello schieramento di Centrosinistra, la cosiddetta “sinistra radicale”, di dimostrare all’elettorato di riferimento di potere conseguire risultati ritenuti qualificanti fin dal periodo del 1968; la corrispondente esigenza delle altre componenti dello schieramento di Centrosinistra di cedere su questi fronti alla “sinistra radicale” per non perdere l’appoggio di essa a provvedimenti di natura economica e finanziaria penalizzanti per le fasce sociali in condizioni di maggiore disagio; la linea di continuità, anche personale, di alcuni esponenti della “sinistra radicale” con le rivendicazioni emerse negli anni che ruotano attorno al 1968: taluni animatori, e soprattutto talune animatrici, delle occupazioni universitarie e delle “comuni”, e perfino qualche ex terrorista, si sono ritrovati a distanza di qualche decennio sui banchi del Parlamento nazionale, affiancati da qualche loro più giovane epigono, espressione delle aree dell’antagonismo e dei centri sociali; la sponda offerta da personaggi eletti nelle file dell’Ulivo come “cattolici democratici”, convinti, non solo per mera opportunità, che in fondo non esistano principi non soggetti a negoziazione, e che il richiamo al diritto naturale sia una forma di deviazione ideologica. […] Basti pensare, con riferimento alla famiglia, al disegno di legge del governo teso a introdurre i cosiddetti “diritti delle persone conviventi”, cioè il riconoscimento pubblico delle unioni civili, e in particolare delle unioni omosessuali, al disegno legge della maggioranza di Centrosinistra di cambiare le norme sul doppio cognome, allo sforzo dell’Esecutivo di far passare – con voto di fiducia! – una disposizione tesa a esprimere la cosiddetta omofobia, in realtà lesiva di un’impostazione pedagogica rispettosa del diritto naturale in materia di omosessualità. A proposito dell’integrità della vita, vanno ricordate: le disposizioni nei fatti favorevoli all’eutanasia promosse dal professor Ignazio Marino, nella XV Legislatura presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato; l’iniziativa del ministro dell’Università e della Ricerca on. Fabio Mussi, il 30 maggio 2006, a margine del Consiglio dell’Unione europea sulla competitività, di ritirare in rappresentanza dell’Italia il sostegno che in precedenza il nostro Paese aveva dato alla “dichiarazione etica”, riguardante la ricerca sulle cellule staminali: un’iniziativa che ha permesso di finanziare con denaro pubblico la ricerca distruttiva degli embrioni viventi; il decreto ministeriale con il quale il ministro della Salute sen. Livia Turco, a Legislatura conclusa, negli ultimi giorni di vita del Governo Prodi, ha modificato le linee guida della legge sulla fecondazione artificiale, introducendo la possibilità della diagnosi pre-impianto, cioè di fatto della selezione del concepito; il decreto ministeriale con il quale nell’agosto 2006 lo stesso ministro ha raddoppiato il quantitativo di principio attivo dei derivati della cannabis, che segna la linea di confine tra la sanzionabilità per via amministrativa e quella per via penale della detenzione di sostanze stupefacenti; la decisione di più assessori regionali alla Sanità di introdurre nel sistema sanitario di propria competenza la RU 486, cioè la pillola abortiva. È possibile identificare una trama unitaria in questo impegno teso a colpire l’uomo, nella sua integrità e nella sua dimensione sociale? È difficile dare una risposta sintetica e chiara: nel corso degli ultimi cinque secoli, il percorso di fronte al quale ci si trova ha dapprima sottratto all’uomo, e in particolare all’uomo occidentale e cristiano, le difese delle quali si era dotato, in virtù dell’inserimento in una comunità di fede, in una comunità politica, in una comunità di lavoro e territoriale, lasciandolo solo di fronte allo Stato onnipervasivo; quindi lo ha aggredito direttamente, puntando a disarticolare quelle strutture statali, o comunque istituzionali, ancora sopravviventi e in grado di condizionare positivamente l’uomo a divenire ciò che è. Scrive Antonio Gramsci (1891-1937), nei Quaderni dal carcere, che il materialismo – dialettico e storico – “[…]presuppone tutto questo passato culturale, […] la Riforma, […] la Rivoluzione francese, […] il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita”. Il materialismo è “[…] coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale” e corrisponde “[…] al nesso Riforma protestante + Rivoluzione francese”. Per Gramsci vi è una connessione strutturale fra queste tappe; non è possibile immaginarne una senza le precedenti; le prime si perpetuano “generando” necessariamente le successive, per una meccanica interna al processo. Questo percorso, nelle sue diverse manifestazioni, si appoggia sopra un sostrato comune: la convinzione ideologica secondo la quale il mondo è stato fatto male; così com’è non può andare, va cambiato in radice, nei suoi elementi strutturali. Non tutti però possono dare un contributo sostanziale nella direzione del cambiamento: ciò compete a cerchie ristrette di persone, alle avanguardie della Rivoluzione, dai capi giacobini ai dirigenti del Partito comunista; costoro, ponendosi alla guida del mutamento e valendosi di particolari tecniche – di natura politica e non –, sono i soli in grado di ribaltare la situazione e di condurre a un mondo finalmente e materialmente redento dai limiti naturali che ancora lo affliggono. Che cosa accade però se il processo unitario richiamato da Gramsci finisce in un vicolo cieco, se, cioè, la costruzione innalzata a costo di tanti sacrifici alla fine implode e dal lungo travaglio del parto nasce un morto? L’esito, emblematizzato dalle pietre che rotolano dal Muro in disfacimento, si ripercuote necessariamente sull’intero processo, con una sorta di effetto domino, per la connessione che salda ogni tassello con il precedente. Il crollo del Muro pone in crisi nel suo insieme l’itinerario descritto con lucidità dal fondatore del PCI. “Il crollo del comunismo – si legge nella dichiarazione dell’Assemblea Speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, del dicembre 1991 – mette in questione l’intero itinerario culturale e socio-politico dell’umanesimo europeo, segnato dall’ateismo non solo nel suo esito marxista”. L’implosione dei regimi totalitari dei regimi totalitari dell’Europa centrale e orientale è la certificazione storica della falsità della tesi di fondo del processo rivoluzionario sfociato nel comunismo. La logica imporrebbe di risalire indietro, fino a ritrovare il punto a partire dal quale si è sbagliato strada: per cogliere quei presupposti remoti, culturali e politici, che hanno condotto senza soluzione di continuità all’universo dei gulag. Questo finora non è stato fatto, o è stato fatto in modo incompleto e parziale: la nuvola di polvere sollevata dallo sbriciolamento del Muro e, un paio d’anni dopo, la rimozione della bandiera rossa dalla sommità del Cremlino non sono bastate a smuovere dalle fondamenta l’impalcatura ideologica di cui il Cremlino è stato soltanto uno degli emblemi. Nel frattempo, ha preso corpo la galassia dei movimenti antagonisti e no-global, manifestazione anche fisica della frantumazione e del rifiuto del pensiero e dell’azione all’insegna della razionalità: una sorta di aggregazione sui generis, fondata sull’a-socialità dei comportamenti di chi ne fa parte. L’arretramento ideologico di larga parte della Sinistra ha permesso ad alcune frange di essa di attestarsi alla fase antecedente, col rinvio, esplicito o implicito, al trinomio rivoluzionario del 1789, pur se variamente declinato e attualizzato. Una parte della Sinistra arretra di una tappa, che peraltro reca in sé per intero i germi – e non solo i germi – del social comunismo sconfessato: non c’è poi tanta distanza fra égalité giacobina e il livellamento sociale realizzato sotto il simbolo della falce e del martello; o fra la ghigliottina, uguale per tutti, e l’universo dei gulag, egualmente massificante. L’arretramento tattico consente di evitare l’abiura della struttura profonda del processo rivoluzionario, quel comune denominatore appena descritto. Va aggiunto però che se, nella sostanza e oltre i distinguo, a Sinistra, soprattutto in Italia, non ci si è allontanati dal comune denominatore che è stato l’humus – tra l’altro – del comunismo, non sempre nel Centrodestra si è colta fino in fondo la lezione del crollo del Muro: in un passato anche recente ci si è spesso limitati a un’analisi schiacciata fra i poli dialettici comunismo/anticomunismo, senza cogliere il processo rivoluzionario nella sua dinamica e nel suo fondamento. È ben vero che l’analisi critica del processo posto in forse dai fatti del 1989 non è semplice né agevole; ma è altrettanto vero che, se essa non può essere compiuta in via principale dal ceto politico, non può essere ignorata dallo stesso. Anche perché l non comprensione del carattere strutturale della crisi – il “mondo in frantumi” – si traduce in non comprensione del corollario della dinamica della crisi medesima, che conduce all’esilio della politica. Nel Centrodestra non mancano i fattori inquinanti, la cui presenza non meraviglia e non deve provocare scandalo: il sistema bipolare, ormai avviato a consolidarsi come bipartitico, impone forze politiche di dimensioni ampie, che finiscono con il costituire megacontenitori, e il contesto culturale è ancora più variegato. L’importante è esserne consapevoli, e lavorare perché nel contenitore non manchino le idee e i principi: i quali vanno salvati dalle onde del libertarismo e del filo anarchismo, dai residui sessantottini, e perfino dal rammarico – che talora affiora in alcuni esponenti, anche autorevoli, del Centrodestra – di non essere stati parte attiva ai fatti significativi del 1968; un rammarico fondato su un’impropria mitizzazione di quel momento storico. Detto questo, non è detto tutto. Il politico non può limitarsi a un’analisi, ma deve far seguire una terapia. E la terapia è tenuta a considerare anzitutto il contesto nel quale viviamo. Della difficoltà di tentare il governo di una realtà che ha le caratteristiche descritte dal 41° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese del CENSIS il Centrodestra sembra conscio […]. È evidente che la politica non ha la chiave per soluzioni esclusive o per chiare inversioni di rotte: la rinuncia a mettere al mondo figli, che è uno dei segni più drammatici della frammentazione del corpo sociale e del suo ridursi a poltiglia, non può essere contrastata soltanto con i decreti e con le leggi. E tuttavia, si può immaginare una correzione di rotta in tempi lunghi e con decisioni dal respiro strategico, che partano, per esempio, dalla revisione del rapporto tra fisco e famiglia, in vista di una correzione del costume e dei comportamenti. […] È necessario, una volta acquisito il consenso, “fare” in positivo per recuperare al corpo sociale elementi essenziali di sana struttura. La sfida per una politica che aspiri a essere degna del suo mandato è quella di riempire lo spazio fra il “già” e il “non ancora” descritti dall’Anti-prince, e cioè di ritrovare un ruolo, circoscritto ma autonomo e non subordinato; ma essa deve convincersi che la non subordinazione a poteri privi del mandato rappresentativo e di consenso diffuso è legata alla subordinazione a un quadro di principi non oggetto di transazione. Primo fra tutti, la centralità dell’uomo. Partire dalla persona, e dal riconoscimento e dalla tutela dei suoi diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita, rappresenta non un mero dato cronologico, ma una precisa scelta di adesione alla realtà. Proseguire con la tutela e con la ricostruzione di elementi normativi e di fiscalità più favorevoli alla formazione, alla crescita e alla conservazione del nucleo famigliare non risolverà le crisi concrete di tutte le famiglie, ma in prospettiva sarà in grado di limitare i problemi materiali di una parte di esse. Dalla “mucillagine”, lo ripeto, si esce facendo perno sull’uomo e sulla famiglia.».
Questo brano fa il paio con quest'altro, che mi è stato segnalato sempre da Giorgianni. Esso è stato scritto da Simona Colarizi, è intitolato "Il finanziamento pubblico, la partitocrazia, la mistica della...", in 'Italianieuropei' n. 5/2012, pag. 19" e recita:
Io penso che questa volta Filippo Giorgianni si sia superato.
Questo ragazzo di Barcellona Pozzo di Gotto (in Provincia di Messina) ha cultura e passione.
Va valorizzato.
Qui in Italia, ci sono tanti giovani come lui e non vengono valorizzati. Ciò è uno scempio.
Ora, entro nel merito dei testi qui riportati.
Come ho già detto in precedenza, l'antipolitica ha due volti, il populismo qualunquista e gnostico (come quello del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo o la sinistra estrema di Nichi Vendola e Paolo Ferrero) e la tecnocrazia, come il governo Monti.
Chi dice che Beppe Grillo sia l'anti-Monti, dice una grossa sciocchezza.
Beppe Grillo, infatti, è il vero alleato di Monti, forse più dei vari Pierferdinando Casini e soci.
Ragionate, Grillo delegittima la politica, esaltandone i vizi che (per carità di Dio) ci sono.
I moderati, vedendo che il populismo sta prendendo piede, si rifugiano nella tecnocrazia.
Si sta verificando quanto scritto da Plinio Correa de Oliveira sul suo libro "Rivoluzione e Controrivoluzione":
"4. Le velocità della Rivoluzione
Questo processo rivoluzionario si manifesta con due diverse velocità. L'una, rapida, è generalmente
destinata al fallimento sul piano immediato. L'altra è stata abitualmente coronata da successo, ed è molto più lenta.
A. L'alta velocitàI movimenti pre-comunisti degli anabattisti, per esempio, trassero immediatamente, in diversi
campi, tutte o quasi tutte le conseguenze dello spirito e delle tendenze della Pseudo-Riforma.
Fallirono.
B. La marcia lenta
Lentamente, nel corso di più di quattro secoli, le correnti più moderate del protestantesimo,
avanzando di eccesso in eccesso, per tappe successive di dinamismo e di inerzia, vanno tuttavia
favorendo gradatamente, in un modo o nell'altro, la marcia dell'Occidente verso lo stesso punto
estremo (vedi parte II, cap. VIII, 2).
C. Come si armonizzano queste velocità
È necessario studiare la parte di ciascuna di queste velocità nella marcia della Rivoluzione. Si
direbbe che i movimenti più veloci siano inutili. Ma non è vero. L'esplosione di questi estremismi
alza una bandiera, crea un punto di attrazione fisso che affascina per il suo stesso radicalismo i
moderati, e verso cui questi cominciano lentamente a incamminarsi. Così, il socialismo respinge il comunismo, ma lo ammira in silenzio e tende a esso. Ancora prima nel tempo si potrebbe dire lo stesso a proposito del comunista Babeuf e dei suoi seguaci negli ultimi bagliori della Rivoluzione
francese. Furono schiacciati. Ma lentamente la società sta percorrendo la via sulla quale essi
avevano voluto portarla. Il fallimento degli estremisti è, dunque, soltanto apparente. Essi danno il loro contributo indirettamente, ma potentemente, alla Rivoluzione, attirando lentamente verso la realizzazione dei loro colpevoli ed esasperati vaneggiamenti la moltitudine innumerevole dei
"prudenti", dei "moderati" e dei mediocri.".
Questo processo rivoluzionario si manifesta con due diverse velocità. L'una, rapida, è generalmente
destinata al fallimento sul piano immediato. L'altra è stata abitualmente coronata da successo, ed è molto più lenta.
A. L'alta velocitàI movimenti pre-comunisti degli anabattisti, per esempio, trassero immediatamente, in diversi
campi, tutte o quasi tutte le conseguenze dello spirito e delle tendenze della Pseudo-Riforma.
Fallirono.
B. La marcia lenta
Lentamente, nel corso di più di quattro secoli, le correnti più moderate del protestantesimo,
avanzando di eccesso in eccesso, per tappe successive di dinamismo e di inerzia, vanno tuttavia
favorendo gradatamente, in un modo o nell'altro, la marcia dell'Occidente verso lo stesso punto
estremo (vedi parte II, cap. VIII, 2).
C. Come si armonizzano queste velocità
È necessario studiare la parte di ciascuna di queste velocità nella marcia della Rivoluzione. Si
direbbe che i movimenti più veloci siano inutili. Ma non è vero. L'esplosione di questi estremismi
alza una bandiera, crea un punto di attrazione fisso che affascina per il suo stesso radicalismo i
moderati, e verso cui questi cominciano lentamente a incamminarsi. Così, il socialismo respinge il comunismo, ma lo ammira in silenzio e tende a esso. Ancora prima nel tempo si potrebbe dire lo stesso a proposito del comunista Babeuf e dei suoi seguaci negli ultimi bagliori della Rivoluzione
francese. Furono schiacciati. Ma lentamente la società sta percorrendo la via sulla quale essi
avevano voluto portarla. Il fallimento degli estremisti è, dunque, soltanto apparente. Essi danno il loro contributo indirettamente, ma potentemente, alla Rivoluzione, attirando lentamente verso la realizzazione dei loro colpevoli ed esasperati vaneggiamenti la moltitudine innumerevole dei
"prudenti", dei "moderati" e dei mediocri.".
Possiamo dire che Beppe Grillo e Mario Monti siano come Maximilien de Robespierre e Napoleone Bonaparte.
Se l'uno non avesse innescato la Rivoluzione Francese, l'altro non avrebbe preso il potere.
La dimostrazione sta proprio nel fatto che Grillo si limiti a protestare, senza proporre nulla di realmente alternativo.
Ad esempio, egli dice no ai termovalorizzatori, alla TAV Lione-Torino o alle centrali nucleari ma non propone nulla che sia alternativo.
La gente, che è stremata dalla crisi economica (una crisi inventata dai tecnocrati), si rifugia nel voto di protesta rappresentato da Beppe Grillo.
Questi mette i ricchi contro i poveri, gli imprenditori contro gli operai ed i giovani contro i vecchi, creando la disgregazione sociale (di cui parla Mantovano).
I moderati si rifugiano così in Mario Monti, che viene visto come "il salvatore delle istituzioni".
In realtà, le tensioni sociali vengono aggravate.
I tecnocrati fanno il bello ed il cattivo tempo, tassando a destra e a manca e rendendo i cittadini completamente dipendenti dalle banche.
Beppe Grillo ed i suoi continuano ad aizzare la gente contro la politica.
Se dovesse sparire Beppe Grillo, Mario Monti lo seguirebbe, e vale anche il contrario.
Monti, Grillo, i comunisti e tutti gli estremisti sono il prodotto della cultura rivoluzionaria.
Io penso che la politica debba riprendersi il suo posto, cambiando atteggiamento.
I politici devono incominciare a parlare di più con i cittadini e capirne i problemi.
Devono anche dare l'impulso alle riforme che servono, oltre ad altre politiche importanti, come le politiche infrastrutturali.
Inoltre, la politica deve valorizzare i giovani.
Se farà così, questo "circolo vizioso" sarà destinato a spezzarsi.
In caso contrario, la situazione sarà destinato a peggiorare.
Cordiali saluti.
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