Il sole ci cuoceva il cervello. Eppure stavamo lì scalzi e impolverati, ad aspettare ansiosi "la macchina che batte".
La trebbiatrice così veniva chiamata, arrivava trainata da un grosso trattore; aveva due corpi, uno per "battere" il grano e uno collegato al primo, ma indipendente, per pressare la paglia.
Erano due mostri che sbuffavano, cigolavano, si lamentavano, facevano versi strani quando ingoiavano da certe bocche dentate quei" mannini” di grano dorato.
Sembrava proprio lo masticassero, lo riducessero in poltiglia come noi facciamo del cibo coi nostri denti, e lo sputavano fuori diviso, pulito in chicchi, da altre bocche più piccole che si aprivano e si chiudevano a comando.
Ciò che del grano rimaneva veniva gettato dal dietro della prima, alla seconda macchina che con un ritmo incessante e cadenzato martellava con un grosso braccio a martello appunto, la paglia dentro certe guide; restringendola e bloccandola in presse che venivano affettate a misura e accatastate da una parte.
Tempo prima la pressatrice non c'era e la paglia veniva composta in quei pagliai simbolo di ogni casa toscana.Prima ancora, mi diceva nonna, la macchina era trainata da buoi e funzionava con una caldaia a vapore.
Adesso un insieme di rotelle e ingranaggi collegati fra loro da cinghie e cinghiette si muovevano in sincronia come dentro un orologio.
Il tutto veniva veniva fatto partire da una cinghia più grossa detta proprio "il cinghione" che collegava il corpo della macchina a una ruota particolare del trattore e che col motore del trattore stesso veniva fatta ruotare.
Si raccontavano strane storie sul pericolo di quel "cinghione".
Aveva staccato bracci e ucciso persone.
A noi ragazzi era proibito avventurarci in quella zona.
Noi naturalmente proprio perchè era proibito ci andavamo apposta e ci sfidavamo a vicenda a passarci sotto non visti, per dimostrare uno all'altro la nostra bravura e lo sprezzo del pericolo.
I "battitori" erano uomini reclutati da ogni parte e seguivano la macchina per tutta la stagione. Lungi dal pensare che con quel fazzoletto legato in testa alla pirata, stavano anticipando di molto la moda della bandana, anticipavano anche l'arrivo della macchina stessa che non si fermava mai, neanche di notte, per questo erano in tanti.
Col volto segnato e bruciato dal sole, nervosi e scattanti, venivano per controllare la "piazza", così si diceva. Cercavano il posto migliore per sistemare la trebbiatrice nella nuova situazione, prima di spostarla da dov'era. Li trovavi buttati per terra che dormivano a turno esausti, perchè lavoravano incessantemente giorno e notte.
Un po' prima i proprietari delle macchine passavano a contrattare col contadino, tempi, luoghi e compensi.. "Piazzavano " la macchina appunto.
Le corti erano costituite da più famiglie, quindi in un aia o si "batteva" per più comunità o ci si spostava da un aia all'altra a turno.
C'era dunque chi "batteva" il mattino, chi il pomeriggio, chi la notte e secondo la quantità del grano anche quei tempi messi tutti insieme.
Noi ci spostavamo con la macchina e coi battitori, seguendola per il periodo che rimaneva nella nostra zona. Anche la gente si spostava da un'aia all'altra. I vicini si aiutavano.
Oltre ai battitori, le persone che servivano erano molte. Due uomini ci volevano alle bocchette del grano, per le misure e per reggere i sacchi. Altri per portarli dentro. Alla pressa ce n'erano almeno due o tre per estrarre le balle dalla macchina, e altrettanti per accatastarle. Sulle bighe del grano ce ne stavano tre o quattro, a volte anche qualche ragazzo.
Donne forti e resistenti lavoravano come maschi, e con loro scherzavano sudate, e ridevano a battutacce sporche, inforcando i fasci di grano e buttandoli senza comunque perdere il ritmo, sulla scaletta che li portava in cima alla bocca della macchina, dove cadevano come tanti Kamicaze.
A volte di notte alla guerra ti facevano pensare davvero. Quel rumore continuo, incessante e quelle luci forti che illuminavano il cielo...
Allora si diceva: "Guarda si batte a..." indicando il posto del luogo. o "Si batte da...tizio e caio", dicendo il nome, o il soprannome del contadino.
Il ritmo, come dicevo non cambiava mai.
Tutto era in sincronia e tutti erano in sincronia.
Meglio ancora, in armonia.
Lavoravano come se stessero seguendo i passi di una danza. E osservando i loro volti non trovavi traccia di rabbia o di fatica, solo sorrisi schietti e radiosi di felicità.
La felicità c'era davvero in quel rito, perchè altro non era quel sistemare finalmente qualcosa che avevi aspettato quasi come un figlio.
Nove mesi, tanto serve al grano dalla semina al raccolto.
Non poteva non essere che una festa, e giusto come per un figlio al momento del parto, veniva dimenticata ogni fatica precedente.
L'esito del raccolto avrebbe determinato la qualità della vita dell'anno dopo per tutta la famiglia e l'esaltazione di quel momento la respiravi nell'aria assieme alla polvere.
Si ammazzavano polli, conigli, oche, tacchini. Nel forno, assieme al pane gonfiavano grosse torte. Le donne superavano loro stesse, cucinando i piatti migliori. Fritti e stufati andavano ad imbandire tavolate improvvisate all'ombra di pergolati d'uva, o grossi alberi di fico.
Si offriva il meglio.
Il vino bianco e rosso scorreva a fiumi, e gli uomini accaldati si tuffavano in quel ben di Dio, come si tuffavano con la testa nell'acqua fresca delle conche del pozzo, per avere un po' di refrigerio.
In mezzo a quel caldo, a quel polverone, a quel rumore infernale, io inventavo un gioco.
Avevo visto in televisione in alcuni film, che le donne portavano un fazzoletto in capo legato in un certo modo. Se lo attorcigliavano da sotto il mento fino dietro al collo e partivano a bordo di lunghi macchinoni scoperti, inforcando enormi occhiali neri e tenendo a braccetto una borsettina di paglia.
Imitando quelle"signorine", coinvolgevo Delia, e fasciate in quel modo con un surrogato del foulard, che era più che altro un cencio vecchio, ci pavoneggiavamo lavorando, e sognando al tempo stesso luoghi e mondi diversi, dove anche noi al pari di quelle signorine, di lì a poco saremmo state.
Conoscevo i miei sogni già da allora, e già da allora volevano sgambettare.
Vedevo la vita come in corsa e forse è stata più una corsa che una passeggiata.
Tutto veloce come in quei film di Ridolini. Ma ancora non lo sapevo e mi godevo quei momenti, li vivevo come tutti con l'esaltazione che davano e che ci mettevo io, forse solo perchè ero bambina.
Dana Carmignani
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