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Il mio libro, in collaborazione con Morris Sonnino

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lunedì 3 agosto 2015

Eccovi la seconda puntata sulla Canapa...



Eccovi la seconda puntata sulla Canapa, che parla della preparazione del tiglio (fibra della canapa) per la filatura.
La corte, ormai disseminata di cumuli di canapuli e d’ammassi filiformi di fibra di canapa, si animava di buon'ora. Al rumore della battitura della mannella seguiva quello dello scuotimento ed il tintinnio metallico dei canapuli che cadevano a terra. Il rumore ritmico della gramolatura risuonava poi per tutta la giornata.
La lavorazione del tiglio avveniva in azienda; essendo spesso una coltura compartecipata ad un terzo o a metà, la manodopera era prestata dal compartecipante o dal mezzadro. Solo nelle piccole aziende era una coltura fatta nell'ambito dell'economia familiare. Era, in ogni modo, un lavoro affidato in gran parte alle donne; all'uomo era demandato lo "scavezzamento", che consisteva nello spezzare lo stelo cellulosico, ancora integro, per mezzo di un robusto bastone a forma di clava. In altri termini l'uomo, di prima mattina e prima di recarsi al lavoro salariato, riprendeva i fasci, li slegava, liberava le mannelle e batteva quest'ultime con la clava in modo da rompere lo stelo legnoso, fragile e secco, in tanti pezzi. Molti cadevano a terra, ma altrettanti rimanevano ancora attaccati al tiglio, che era rimasto integro e di lunghezza pari allo stelo. Tutti questi pezzi di stelo costituivano i canapuli, "i canuin” in dialetto, ed erano un ottimo e ben infiammabile combustibile per accendere un fuoco o rintuzzarlo. In periodi di totale “autarchia famigliare” i canapuli lunghi 15-20 centimetri servivano anche per fare "i solfar", i sostituti dei fiammiferi in uso nelle cucine contadine. Nel periodo bellico mia nonna li faceva. Prendeva dello zolfo in polvere (sempre presente in campagna perché si distribuiva sulle viti), lo stemperava con acqua, riscaldava la poltiglia finché diveniva collosa e poi v’intingeva l'estremità di tanti pezzi di canapulo. Si otteneva in tal modo una capocchia, che poi si lasciava essiccare. Sul camino esisteva sempre un barattolo o un anfratto con infilati mazzi di “solfar”, da cui ci si riforniva al bisogno. Negli anni '50, ricordo che per definire una famiglia esageratamente all'antica e sparagnina si diceva: "pensa, is fa incora i sulfanei in ca' " (pensa si fanno ancora gli zolfanelli in casa).
Evidentemente, i “solfar” non s’infiammavano per sfregamento come gli zolfanelli che si acquistavano; anch’essi avevano una capocchia di zolfo, ma questa era sormontata da uno strato di un composto di fosforo che s’accendeva per sfregamento. Gli zolfanelli sono spariti, sostituiti dai fiammiferi svedesi fatti senza uso di zolfo, ma tra i più anziani di noi, chi non ricorda d’aver acceso troppo vicino al viso uno di quei fiammiferi solforati e di averne respirato i vapori soffocanti d’anidride solforosa che si sprigionavano all’accensione? Bisognava accenderli ben lontano dal viso. L’accensione dei “solfar”, quindi, avveniva solo per contatto con una fiamma o con delle braci, sempre presenti nel camino o nelle lucerne e candele. La sera, dopo la cena, era d’uso raggruppare tutte le braci ancora esistenti nel camino, coprirle con cenere e cercare di preservarle fino al mattino, per poi riutilizzarle nell’accensione del nuovo fuoco della giornata. Quando si usava la stufa, invece, il mattino si accendeva con lo zolfanello comprato, ma poi il fuoco si trasferiva solo con i “solfar”. In ogni modo, camino o stufe erano accesi solo lo stretto necessario per cucinare, quasi mai per riscaldare. Per scaldarsi c'era il calore animale della stalla, con conseguenti cattivi odori, che tra di noi in campagna non sentivamo perché ne eravamo tutti impregnati, ma che, invece, tanto schifavano “i piasarot" (gli abitanti del paese). Le sigarette che gli uomini arrotolavano ancora manualmente con la cartina oppure con le brattee interne di "scartos” erano spesso accese con “i canuin”, risparmiando così un "sulfanel compar"(uno zolfanello acquistato). Le cartine per fare le sigarette si compravano e quindi si cercava di economizzarle. Un sostituto, era dato dai calendari formati da blocchetti di foglietti di carta velina, in cui, per ogni giorno, vi era indicato il numero, in rosso e ben in grande, la fase della luna ed, in caratteri più piccoli, il santo. Ogni sera si staccava il foglietto del giorno per far comparire quello del successivo. Questo foglietto non si buttava, ma serviva per fare una sigaretta. Un fumatore accanito ma sparagnino, già a marzo aveva il calendario che indicava i giorni di dicembre: egli, infatti, si fumava più foglietti in un giorno.
Ritorniamo alla nostra canapa. La fibra ricavata dalla mannella era grezza, cioè richiudeva ancora piccoli pezzi di canapuli e parti di fibra grossolana e non ben sfibrata, pertanto la si riponeva provvisoriamente a terra disponendola incrociata rispetto alla fibra ricavata dalla mannella precedente. Ciò allo scopo dal poterla poi riprendere facilmente. Il lavoro di scavezzatura da parte dell’uomo durava quanto bastava per assicurare lavoro per tutto il giorno alla donna. Egli, infatti, doveva poi prestare la sua giornata di lavoro salariato. La mannella solo ripulita per scuotimento, si riprendeva e si passava alla gramola. Esso era un arnese a forma di cavalletto lungo circa 150 centimetri, che portava incernierata ad un estremo una parte mobile, la quale era impugnata e usata in guisa di tagliere con movimento continuo dall'alto al basso. In questa maniera il mazzetto di fibre della mannella, adagiato trasversalmente sulla parte fissa, si fletteva per effetto dell'abbassamento della parte mobile e i canapuli ancora attaccati si rompevano in pezzi più piccoli che in parte si staccavano. La mannella era man mano ritirata e la “scavezzatura” si eseguiva per tutta la lunghezza. La gramola serviva anche per eseguire la rasatura al fine di staccare gli ultimi rimasugli di canapuli ed eliminare la parte più grossolana della fibra. Rimanevano, alla fine, delle fibre sottili abbastanza lunghe e ben depurate. Questa era la canapa grezza che si vendeva sotto forma di balle costituite da un insieme di tanti manipoli attorcigliati ad un estremo, “i garsoi”, e disposti gli uni sopra gli altri in modo da far loro assumere una forma di parallelepipedo opportunamente legato.
Queste balle erano pesate e si vendevano ai canapifici. Nella sala d’entrata di casa mia, su una trave in legno del soffitto, vi è ancora un tassello in cui era stato conficcato il gancio che sosteneva la stadera per pesare le balle di canapa prima della vendita. Tutta la canapa prodotta era venduta in unica partita sia che fosse tutta di proprietà dell'agricoltore, sia che fosse da dividersi con il colono terziario o mezzadro. La valutazione qualitativa del prodotto (la filaccia) era fatta da esperti che calcolavano quanto si potesse ricavare in fibra (gargioli, basse, cordami), quale fosse lo scarto (stoppa) e quanto fosse utilizzabile solo per imballaggi o imbottiture (il canapaccio).
Alcune balle di filaccia erano trattenute per i bisogni della famiglia: per farne tela,"par far la dota a li fioli" (fare la dote alle figlie), o corde per stendere panni o legare il fieno sui carretti,"li soghi da pagn o da caret".
Qui entrava in scena una persona esterna alla famiglia "al cunsin d'la canua" (il conciatore di canapa). Era una persona che girava di famiglia in famiglia e aveva come unica strumentazione delle specie di spazzole a lunghi denti radi in ferro che servivano per pettinare la filaccia e costituire "i garsoi da filar"(le matasse pronte per la filatura). Mentre pettinava la filaccia sulle spazzole, "al cunsin" oliava le fibre per farle divenire lucide e fissarne i filamenti. Era una vera e propria concia, da qui il nome dialettale dato all'operatore ed era normale che fosse la famiglia a dare l'olio, che doveva essere d'oliva, "l'oiu bon”. Spesso però il cunsin usava dell'olio di scarto che portava con sé di nascosto e tratteneva per i propri usi famigliari il migliore, l'olio che riceveva.
La fine della navigazione a vela, la concorrenza delle altre fibre, l’evoluzione sociale e lo spopolamento delle campagne, sono tutti fattori che non invogliarono a tentare di meccanizzare la coltivazione e pertanto questa scomparve. Nella foto potete vedere sullo sfondo i mazzi di canapa da gramolare, in primo piano la gramola ed il tiglio in parte privato dei canapuli e dietro le persone il mucchio dei canapuli che servivano per il fuoco (anticamente servivano per fare la polvere da sparo in quanto una volta bruciati era una polvere di carbone di cellulosa finisssima)

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