La coltivazione di questa pianta ha rappresentato, per i paesi sede di zuccherificio, una consistente fonte di ricchezza. Li ha fatti additare come paesi importanti e ricchi perché, durante l'estrazione industriale dello zucchero dalle barbabietole, "la campagna", si poteva contare su lavoro ben pagato sia come braccianti, sia come operai avventizi allo zuccherificio.
La preparazione del terreno per le semine delle bietole cominciava già in autunno con la zappa per rompere le zolle formatesi durante l'aratura e per colmare gli avvallamenti. Si contava sui geli invernali perché le zolle fossero dissolte e ridotte in polvere per la primavera. Già in gennaio o febbraio, tuttavia, con zappe e rastrelli si ricominciava la preparazione del letto di semina, che doveva diventare piatto ed essere affinato. Per distribuire uniformemente la terra fine si trainava sulla superficie una serie di fascine di ramaglie legate accostate l'una all'altra, "la rapghina" (termine intraducibile, ma che si collega all’erpicatura). La semina era eseguita a mano: un uomo, indietreggiando a brevi passi con un attrezzo a tre o quattro cunei, formava dei buchi, altrettante donne immettevano in ogni foro un pizzico di seme che le stesse prendevano da una bisaccia legata sul davanti a guisa di grembiule. Un ammodernamento importante fu l'uso di uno strumento che oltre a fare i buchi depositava automaticamente un pizzico di semi provenienti da contenitori inseriti sull'attrezzo stesso, "as sumnava a rastél", (si seminava con il rastrello). Le donne,trascinando i piedi, in entrambi i casi ricoprivano il seme.
Il seme di allora era un seme multiplo, ossia che generava più piantine, le quali si andavano ad aggiungere a quelle di altri semi supplementari deposti per sicurezza nello stesso foro. Pertanto, dopo la nascita bisognava procedere al diradamento, "al sciarsir", per isolare una sola piantina. Il lavoro era gravoso. Si poteva fare solo inginocchiati sul terreno e spostandosi carponi. Contemporaneamente, si estirpavano con le mani anche le piccole erbe che nel frattempo erano cresciute intorno. Quando la piantina isolata si era ben radicata nel terreno, si procedeva alle zappature per aerare i primi strati, per eliminare le erbe infestanti che man mano crescevano e coprire quel po' di concime, "al salon", che gli uomini distribuivano manualmente. "Al sapar li bieti", (lo zappare le bietole) era un lavoro che si ripeteva quasi in continuazione man mano che in mezzo alle stesse spuntavano erbe estranee. Quando la rigogliosità del fogliame era divenuta tale da impedire l’uso della zappa, si procedeva ad estirpare le erbe infestanti soprastanti con le mani. Il campo avrebbe dovuto arrivare adeguatamente pulito fino ad inizio del raccolto, ma ciò capitava di rado.
A fine luglio-inizio agosto nello zuccherificio cominciavano i lavori di messa in moto dei vari reparti e quindi cominciava l'assunzione della manodopera avventizia per il periodo della campagna; tale manodopera si aggiungeva alla "casta" dei cosiddetti operai fissi dello zuccherificio, oggetto di molta invidia, anche se molti si autoassegnavano molta più importanza di quella che effettivamente avevano nell’economia dei lavori di fabbrica. A quei tempi era facile sentir dire: "l'è propria na famea furtunada, la ga n'om fis in sucarificio", (è proprio una famiglia fortunata, annovera un componente fisso in zuccherificio), oppure "l'è propria furtunà, il a ciamà a far la campagna dal sucarificio", (è proprio fortunato. L’hanno chiamato a fare la campagna dello zuccherificio). Dalle campagne era reclutata manodopera maschile per lo scarico dei carri di bietole, "il a ciamà a la discarica", che affluivano nello zuccherificio. La raccolta delle bietole (che, per chi non lo sapesse, sono delle radici di forma conica sulla cui parte superiore, affiorante, sono inserite delle foglie lisce e alte 30-40 centimetri) si faceva, a forza di braccia, tirando verso l'alto un lungo manico alla cui estremità era inserito un attrezzo in ferro dalle punte ricurve, "al rampin da bieti" (il rampino da bietole). Questa serie d’uncini si conficcava nella parte della radice sporgente dal terreno e, tirando, si procedeva alla sua estrazione. Il lavoro era faticoso, lungo e fatto dai soli uomini o dalle donne più robuste.
Altre donne, invece, erano addette al taglio delle foglie, operazione che si eseguiva su ogni radice estirpata, per mezzo della falce, "al sghet da bieti", che ne decapitava la parte superiore su cui erano inserite le foglie stesse. Le radici così ripulite erano ammucchiate. L'apparato fogliare, invece, ancora attaccato al colletto, "al culet", era raccolto, caricato e somministrato come mangime alle vacche in stalla. L'ingegno contadino capì poi che legando una corda sull'attrezzo di ferro in fondo al manico, e collegandola ad una cintura o tracolla avvolta al busto dell'operaio si cavavano le radici con meno fatica. Poteva capitare che la radice si spezzasse, ecco allora il ricorso all’arnese “fursina da bieti”, (la forchetta da bietole) che con le sue due punte arpionava il mozzicone di radice e la faceva rimontare in superficie. Guai a lasciar andare una parte anche piccola di prodotto!
Le radici, così scollettate, come si dice in gergo, si ammucchiavano nei campi e si coprivano con le foglie per non farle essiccare nell'attesa del caricamento su carri trainati da cavalli o anche da buoi (l'uso generalizzato dei trattori o dei camion avvenne solo a partire dagli anni '50/60; prima, una parvenza di meccanizzazione del traino era dato dalle “carioche”). Pure il carico era manuale: gli uomini usavano delle grosse forche a punte pomellate, "al furcon da bieti, mentre le donne e i ragazzi (perché a quei tempi non esisteva ancora il concetto di sfruttamento di manodopera minorile), prendevano le radici per la coda e le gettavano nel carro.
I carri pieni di radici affluivano dai campi al paese e si disponevano in fila nelle strade adiacenti lo zuccherificio, dove, a turno e sempre manualmente, erano svuotati in grosse vasche da scaricatori assoldati dalla fabbrica stessa per il periodo di campagna. Normalmente, essi erano braccianti agricoli che lavoravano a cottimo.
Alberto Guidorzi
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