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giovedì 26 luglio 2012

Da "La critica", l'economia italiana nel contesto europeo

Cari amici ed amiche.

Leggete questo articolo scritto da Andrea Verde su "La critica"  ed intitolato "L'economia italiana nel contesto europeo":

"Nel 2011 il prestigioso premio letterario Strega è stato assegnato al libro Storia della mia gente di Edoardo Nesi, uno scrittore toscano ex industriale tessile, che con stile essenziale ripercorre la storia del declino dei distretti tessili di Prato, di Biella e Como, di Lecco e Carpi, della Val Seriana e di Chieri in Piemonte e Bronte in Sicilia. Tutto ciò in conseguenza del precedente collasso economico dei distretti dell’abbigliamento, che del tessile rappresentano il downstream.

Le cause di questo dissesto vengono attribuite in larga misura alla resistibile ascesa di masse schiavizzate di lavoratori cinesi che, in un clima ideologico di illimitata apertura dei mercati globali, propiziata da elite intellettuali di economisti di scuola e di accademici infastiditi da critiche definite “luddiste”, hanno messo fuori mercato aziende medio-piccole, impreparate a sostenere lo scontro competitivo emergente, in quanto sorte e prosperate nell’immediato dopoguerra “in un mondo perfetto e chiuso, protetto dai muri e dai missili nucleari, dai dazi e dalle tariffe.”

Quando un fenomeno economico, di grande portata sociale, si fa letteratura, riscuotendo peraltro un grande successo editoriale di massa, vuol dire che siamo in presenza di qualcosa che esce dall’ambito della saggistica dotta o della discettazione salottiera per entrare nel vivo della quotidianità dei problemi che la gente comune sente sulla propria pelle.

A questo proposito, nel suo saggio La Paura e la Speranza (2008) Giulio Tremonti si chiedeva: “Perché non è più l’Europa a cambiare il mondo ma è il mondo a cambiare l’Europa? Per una ragione molto semplice. Perché non è stata l’Europa a entrare nella globalizzazione ma è stata la globalizzazione a entrare in Europa, trovandola insieme incantata e impreparata.”

Di fatto una globalizzazione politicamente mal gestita a seguito di una attuazione degli accordi, negoziati nel 1994 insede WTO, di progressiva liberalizzazione dei mercati globali di beni, servizi e proprietà intellettuale, senza una ragionevole transizione modulata nel tempo, sta determinando, in un clima di costernazione impotente, una drammatica ridistribuzione di ricchezza e di lavoro tra i diversi Paesi del mondo, in larga misura a somma zero.

D’altronde non può sorprendere il fatto che una Europa, concepita come mera unione monetaria, priva di identità politica, si sia fatta sorprendere impreparata non solo dal prorompere degli effetti distorcenti della globalizzazione ma forse ancor più, come ulteriore fattore aggravante, dalla crisi finanziaria che ha investito l’occidente (e in particolare l’Europa), a seguito della espansione a livelli patologici della finanza derivata rispetto a quella al servizio dell’economia reale.

In tale contesto, quali sono le prospettive economiche di un Paese come l’Italia, per di più gravato da un debito pubblico a livelli patologici?

Considerate le limitazioni di sovranità nazionale che comunque l’adesione alla moneta unica comporta, occorrerebbe innanzi tutto rimuovere i tre principali vizi capitali che hanno gravato sull’Europa sin dalle sue origini:
Il primo in ordine di importanza, ma forse il più complesso da rimuovere, riguarda la mancata attuazione di una unione politica, con la conseguente delega, non sostenibile nel lungo periodo, alle burocrazie comunitarie dei compiti di governo dell’unione monetaria;
La rigidità dei parametri Eurostat di controllo (rapporto deficit/PIL) delle politiche di bilancio degli Stati membri, senza alcuna distinzione di trattamento tra flussi di spesa corrente improduttiva e quelli di spesa per investimenti; entrambi questi flussi concorrono indubbiamente a costituire lo stock del debito, ma con diversa prospettiva reddituale, che ne giustificherebbe un trattamento differenziato;
La mancata definizione di una exit strategy dall’area dell’Euro, come drammaticamente messo in evidenza dalla pasticciata gestione della crisi greca.

Non vi è dubbio che l’allineamento delle economie degli Stati membri ed in particolare del rapporto tra lo stock del debito e il prodotto interno lordo rappresenti l’obiettivo primario da perseguire, pregiudiziale tra l’altro all’emissione di eurobond.

L’obiettivo tuttavia dovrebbe essere raggiunto con strategie differenziate tra i diversi Stati in relazione all’esigenza di coniugare il rigore dei tagli di spesa con il mantenimento di un adeguato livello di sviluppo del PIL, presupposto indispensabile per evitare l’innesco di situazioni di avvitamento recessivo, che ne comprometterebbero il conseguimento.

Non si tratta evidentemente di attuare pratiche dilatorie elusive o di riservare trattamenti privilegiati a beneficio di qualche Stato, bensì della ricerca, in regime di massima trasparenza, della terapia più appropriata per il paziente, posto che l’uso indiscriminato di olio di ricino di manifattura teutonica potrebbe rivelarsi letale per pazienti che necessitano di una preventiva somministrazione transitoria di vitamine.

A titolo esemplificativo abbiamo effettuato alcune simulazioni delle manovre finanziarie correttive che l’Italia dovrà attuare per rientrare, in un arco temporale di venti anni, dall’attuale rapporto debito/PIL del 120% al valore obiettivo del 60%. Non si è tenuto cautelativamente conto del contributo all’abbattimento del debito, conseguibile attraverso la dismissione di beni pubblici, stimato, nella migliore delle ipotesi, in circa 80-100 miliardi di Euro, né del gettito proveniente dall’introduzione di una eventuale imposta patrimoniale straordinaria.

Sono stati ipotizzati diversi scenari che assumono una crescita media del PIL del 1,5% massimo, un avanzo primario variabile dal 1,5% al 3%, un tasso d’interesse di nuove emissioni variabile dal 5,0% al 7%, un deflattore medio del 2 % e una vita media del debito di 7,2 anni.

I risultati mostrano la necessità di attuare una manovra media annua che oscilla tra i 25 e i 50 miliardi di Euro; ad esempio, assumendo un avanzo primario del 3%, con una crescita del PIL del 1,5% ed un tasso di nuove emissioni del 5%, la manovra sarebbe di circa 25 miliardi di Euro, laddove, con una crescita del PIL del 1% ed un tasso di nuove emissioni del 6%, salirebbe a livelli dell’ordine dei 45 miliardi di Euro, certamente non sostenibili su basi ricorrenti.

Negli anni iniziali (orientativamente un triennio) sarebbe opportuno ridurre l’entità della manovra per contenere la pressione fiscale allo scopo di consentire un livello di crescita del PIL di almeno 1,5%, in grado di sostenere politiche estremamente selettive di investimenti pubblici infrastrutturali e di incremento, attraverso la leva fiscale, dei consumi delle fasce più basse di reddito; successivamente, su basi economiche consolidate, è possibile rendere più severa la manovra per conseguire comunque l’obiettivo nei tempi programmati.

Quanto detto è rafforzato dal fatto che il conseguimento dell’obiettivo è sostanzialmente dovuto all’incremento del PIL, restando il livello nominale del debito pressoché inalterato.

Questa modulazione nel tempo della manovra di rientro, specifica per ogni Stato, dovrebbe essere negoziata con le Autorità monetarie europee, purché dotate di autorevolezza e di poteri, che possono essere conferiti solo ad una istituzione investita di responsabilità politica, oggi inesistente.

La medesima istituzione dovrebbe inoltre farsi carico della tutela dei confini dell’Europa da flussi incontrollati di immigrazione e dalla importazione di merci, prodotte in aperta violazione di vincoli sociali e ambientali, attivando, se del caso, politiche di promozione dell’acquisto di prodotti europei, in linea con l‘idea espressa da Nicolas Sarkozy, che ha proposto che i mercati delle commesse pubbliche europee siano riservati alle imprese che producono sul territorio, adottando in Europa un Buy European Act sul modello americano.

Questo concetto deriva da un ragionamento più ampio che, nella visione del Presidente francese, mette in discussione la centralità del consumatore quale fattore trainante dello sviluppo, considerato il fatto che in una società in cui i produttori siano travolti da effetti di dumping, sostenuto dalla violazione sistematica delle regole fondanti di una corretta competizione, è improbabile la sopravvivenza del consumatore stesso.

Affinché si possa attuare questo salto di qualità nel governo dell’Europa occorre ridefinire una visione strategica, svincolata da schematismi ideologici di scuola, che, condivisa da leadership nazionali forti, legittimate dal voto popolare, sia in grado di recuperare un equilibrato spirito di appartenenza al Paese e all’Europa e soprattutto di infondere nei cittadini fiducia in una prospettiva futura credibile di stabilità, su basi durevoli.

Senza di ciò temo sia inevitabile che il vecchio continente sia destinato a fare la fine degli opifici di Prato, drammaticamente evocata nel libro di Edoardo Nesi.
".

L'Italia è un Paese bloccato.
L'Italia è un Paese figlio delle proprie opere.
In Italia è un Paese in cui ci sono troppi lacci burocratici e in cui non è stata fatta una riforma perché molte categorie erano (e tuttora sono) legate ad apparati e partiti politici.
Prendiamo, ad esempio, le cooperative.
Esse erano state legate al Partito Comunista Italiano (prima) ed oggi sono legate Partito Democratico.
Toccare le cooperative significa mettersi contro un partito politico.
Ora, le cooperative hanno un regime fiscale agevolato, nonostante siano a tutti gli effetti aziende.
Anche la burocrazia pesa.
Spesso,  per ragioni di potere, si è fatto sì che molte persone venissero assunte nei ceti burocratici.
Questi ultimi si sono ingigantiti a tal punto da creare parecchi problemi.
Un ceto burocratico pesante, infatti, causa i seguenti problemi:
  • Un aumento della spesa pubblica e quindi delle tasse.
  • Una riduzione della forza lavoro che produce ricchezza, quella delle aziende.
  • Lo scoraggiamento di chi vuole fare impresa che si deve trovare di fronte una burocrazia elefantiaca che lo costringe a dovere spendere tempo e denaro in vari uffici.
Inoltre, anche il sistema politico determina i problemi del nostro Paese.
Nella I Repubblica non ci fu mai una democrazia vera e propria poiché vi era il Partito Comunista Italiano, il più forte partito comunista d'Occidente.
Per timore che esso portasse l'Italia al comunismo, si diede consenso alla Democrazia che fu sempre al governo.
Quindi, il sistema fu bloccato ma non ci fu solo ciò.
Anzi, ci fu un vero e proprio compromesso con i comunisti.
Tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano ci fu una vera e propria "spartizione del potere".
Questo determinò i problemi che vennero dopo.
Un altro problema è l'Euro.
Prima dell'avvento dell'Euro, l'Italia poteva svalutare la propria moneta e fare concorrenza a Paesi come la Germania.
Oggi non può più farlo.
La pregressa situazione della I Repubblica fu anche la fonte di parecchia corruzione, corruzione che oggi è presente in Italia.
Anche quest'ultima pesa.
L'Italia è un Paese che ha grandi potenzialità ma se non fa le riforme (sia a livello istituzionale che a quello economico) il suo fallimento sarà inevitabile.
Cordiali saluti. 







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