Cari amici ed amiche.
Questa mattina, sulla mia "Home" di Facebook, è comparsa una nota pubblicata dall'amico Vittorio Leo.
L'ho ritenuta interessante e ho voluto metterla in questo articolo.
Essa recita così:
"*Intervento di Massimo Introvigne, sociologo e rappresentante dell'OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa).
La rivolta di giovani immigrati, e inglesi figli di immigrati, disoccupati - in gran parte africani e caraibici -, scoppiata nel quartiere londinese di Tottenham dopo l'uccisione in un conflitto a fuoco del tassista e, secondo la polizia, spacciatore di droga Mark Duggan (1981-2011), rischia ora di estendersi a tutta la Gran Bretagna.
Benché alcuni degli attivisti che cercano di guidarla siano affiliati a movimenti islamici, la rivolta non ha carattere religioso. Né nasce, come molti quotidiani dicono, dai Blackberry che - spiazzati dalla concorrenza degli iPhone - sono diventati a Londra i telefoni dei poveri e degli immigrati e sono serviti a convocare a colpi di SMS i rivoltosi, aggirando la polizia che sorvegliava invece Twitter e Facebook. I Blackberry sono evidentemente lo strumento, non la causa di un fenomeno che nasce - e in questo senso è simile alle rivolte che hanno dato origine in Tunisia e in Egitto alle cosiddette "primavere arabe" - dalla crisi economica e dal carovita. Ancora una volta, assistiamo a tumulti che ricordano quelli settecenteschi della "vie chère" in Francia, che - abilmente indirizzati e sfruttati da politicanti che però non li avevano suscitati né organizzati - prepararono la Rivoluzione francese del 1789.
Se tuttavia la crisi economica ha prodotto e sta producendo in Gran Bretagna fenomeni così gravi, una causa va cercata anche nel fallimento - ormai ammesso anche da una parte della classe politica britannica - del modello multiculturalista di cui fino a qualche anno fa Londra andava orgogliosa, proponendolo anzi anche a noi come soluzione di tutti i problemi dell'immigrazione.
La parola “multiculturalismo”, in realtà, è nata in Canada negli anni 1960 come evoluzione di “biculturalismo”, espressione ottocentesca creata per sottolineare la possibilità offerta alla comunità di lingua francese di mantenere la sua lingua e le sue tradizioni. Nonostante il separatismo sempre vivo nel Québec, l'esperimento è riuscito perché ai canadesi divisi dalla lingua è stata offerta quella che il sociologo inglese Tariq Modood ha definito "una narrativa comune", un insieme di simboli e di riferimenti alla patria canadese cementati dal comune impegno nelle guerre mondiali. Il successo del biculturalismo in Canada ha permesso nel XX secolo la sua trasformazione in “multiculturalismo”, accogliendo anzitutto tre grandi comunità - cinese, italiana e giamaicana - che hanno mantenuto, molto più che negli Stati Uniti, la loro lingua e cultura.
In Gran Bretagna il multiculturalismo è diventato una parola d'ordine della sinistra e dei cosiddetti "professionisti dell'anti-razzismo" dopo il 1968 e ha significato sussidi e ampia autonomia per i vari gruppi etnici nigeriani, caraibici, indiani, pakistani. Ma la diffidenza di quella sinistra per il patriottismo ha impedito che agli immigrati fosse trasmessa una "narrativa comune" alla canadese.
I primi problemi sono nati quando una rivendicazione di autonomia è stata avanzata dai musulmani che, a differenza degli italiani, dei cinesi e anche dei pakistani, non sono un gruppo etnico ma religioso, le cui domande vanno ben al di là della preservazione di una lingua, di una musica o di una cucina e investono la sfera fondamentale dei rapporti di famiglia e dei diritti umani.
Questo equivoco che confonde etnicità e religione ha, per così dire, imbastardito il multiculturalismo, trasformandolo da rispetto per tradizioni culturali diverse che possono coesistere - all'interno, appunto, di una "narrativa comune" - in cedimento a pericolose pretese prima di musulmani e poi anche di altri di organizzarsi separatamente quanto al diritto di famiglia, a pratiche come l'uso di certe droghe "etniche" e alla gestione dei quartieri dove sono maggioranza.
In tempi di prosperità economica, era almeno mantenuto un certo ordine pubblico, non senza rivolte occasionali. In tempi di gravissima crisi economica e di disoccupazione maggioritaria tra i giovani, i quartieri "ingestibili" dalla polizia esplodono e la presunta gestione responsabile e separata da parte delle singole comunità etniche si rivela inaffidabile.
Il multiculturalismo britannico, dunque, è fallito. L'alternativa, tuttavia, non è l'uniculturalismo alla francese, che sostituisce il modello multiculturale con un laicismo che combatte ogni identità religiosa e culturale diversa dall'ideologia ufficiale laica e illuminista dello Stato. Come ricorda Benedetto XVI, la vera alternativa è la faticosa costruzione di un equilibrio fra un'affermazione forte dell'identità e della storia della maggioranza - che in Europa è cristiana - e una libertà religiosa e culturale offerta alle minoranze che rifiutino senza ambiguità la violenza e accettino i valori fondamentali della società di cui entrano a fare parte. È questa la vera porta d'ingresso a una "narrativa comune".
In Italia la situazione potenzialmente non è meno esplosiva che in Inghilterra. A Torino, per esempio, il venticinque per cento dei giovani tra i quindici e i ventinove anni non ha genitori italiani, e il problema della disoccupazione non è meno grave che a Londra. Quello che finora ci ha salvato da rivolte sullo stile di Tottenham - dove muore il multiculturalismo - e delle banlieue parigine, dove è morto l'uniculturalismo, è una "terza via" italiana che ha cercato di evitare i quartieri-ghetto monoetnici e, senza forzature alla francese, si è sforzata di proporre una offerta d'integrazione alle singole famiglie immigrate piuttosto che delegare un'ambigua "gestione separata" alle singole comunità. Ma anche la nostra non è solo una storia di successi, e la tentazione di percorrere strade sbagliate - per esempio, non mancano nel nostro Parlamento tardivi cantori del multiculturalismo - è sempre dietro l'angolo.".
Ora faccio una mia considerazione. Innanzitutto, mi complimento con Vittorio Leo per la sua nota che è ben documentata e ben scritta. Leo ha preso il materiale da un intervento del professor Massimo Introvigne, osservatore OSCE, che ha parlato di quanto è successo recentemente a Londra. Nella capitale britannica, infatti, vi sono stati episodi di violenza, in seguito all'uccisione in un conflitto a fuoco del tassista e spacciatore di droga Mark Duggan, episodio che avvenne il 07 agosto scorso. Io potrei sintetizzare questa nota, usando alcune parole dette dal Beato Giovanni Paolo II. Questo grande Papa (e uomo santo) affermò che il non mettere il riferimento alle radici giudaico-cristiane dell'Europa avrebbe creato tensioni che sarebbero state dovute, da una parte, a laicismi estremi e, dall'altra a fondamentalismi di carattere etnico e religioso. I "fondamentalismi laicisti", purtroppo, abbondano. Basti pensare a certe manifestazioni contro la Giornata Mondiale della Gioventù che si è tenuta a Madrid, ai Gay Pride fino ad arrivare a certe situazioni drammatiche di vero e proprio Anti-Cristianesimo (se non di satanismo), come le chiese bruciate nei Paesi nordici e vi è stato qualche caso analogo in Francia e persino in Italia. Un esempio fu quanto successe nel 1999 al Santuario di San Gabriele dell'Addolorata, in Provincia di Teramo. Io mi ricordo che, di fronte a tali affermazioni del Papa, ci furono alcuni esponenti della sinistra che si stracciarono le vesti e che parlarono di "fanatismo cattolico". Oggi, però, si sta verificando quanto questo grande Papa aveva previsto. Di sicuro, la sinistra in Gran Bretagna favorì ciò. Questa negazione dell'identità culturale britannica, un'identità culturale di antiche radici cristiane portò alla creazione di gruppi che, di fatto, erano veri e propri "Stati nello Stato". Ergo, non si creò il comune senso di appartenenza alla realtà britannica. Questo portò alla situazione attuale, una situazione acuita dalla crisi economica. Anche qui in Italia c'è un rischio simile. Infatti, c'è chi, ad esempio, vorrebbe togliere i crocifissi dai muri delle scuole e degli uffici pubblici e creare menù senza carne di maiale nelle mense scolastiche, sul "modello francese", altro modello fallimentare, con il suo laicismo forzato. Questo, in realtà, non può essere un modo di fare democratico. Infatti, sono minoritari coloro che non vogliono i crocifissi nelle scuole. Se si togliessero i crocifissi dai muri delle scuole, si accontenterebbe una minoranza e si scontenterebbe una maggioranza. Lo stesso discorso vale per la carne di maiale. Qui si rischia la "dittatura delle minoranze" e ciò non è democrazia. Integrare degli immigrati significa fare capire loro che il nostro Paese ha una sua cultura, una sua lingua e che vi è una tradizione religiosa maggioritaria e che non sono accettabili gli "Stati nello Stato" di cui ho parlato prima. Se accettano ciò, bene. In caso contrario, vadano da un altra parte. Fa parte della loro libertà. Leggete questa citazione di un discorso dell'ex-Premier australiano John Howard che dice:
Chi ha orecchi...intenda. Se ad una persona non piace una realtà, può andarsene! Nessuno la fermerà.
Cordiali saluti.
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