Presentazione

Presentazione
Una voce libera per tutti. Sono Antonio Gabriele Fucilone e ho deciso di creare questo blog per essere fuori dal coro.

Il mio libro sul Covid

Il mio libro

Il mio libro

Il mio libro

Il mio libro

Il mio libro

Il mio libro

Il mio libro

Il mio libro, in collaborazione con Morris Sonnino

Il mio libro

Il mio libro

Il mio libro

Visualizzazione post con etichetta politica e cultura. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta politica e cultura. Mostra tutti i post

giovedì 16 agosto 2012

L'uguaglianza, un concetto male interpretato!

Cari amici ed amiche.

L'amico Fabio Trinchieri ha messo sul suo blog "Zoom Italia" questo articolo intitolato "Ingegneria dell’uguaglianza".
L'articolo è stato preso dl sito "Rinascita.eu", è stato scritto da Giuseppe Turrisi e recita:

"C'è una schizofrenia dilagante su termini di carattere puramente intellettivo come la democrazia, la libertà, l’uguaglianza.Ma guai a farlo notare, si rischia di passare per nazista. Ci troviamo in una dittatura capitalistica dove c’è l’aggravante di non poter neanche riconoscere il dittatore; subiamo in continuazione il lavaggio del cervello su libertà e uguaglianza per farci credere siano categorie personali e non condizioni dell’essere: sono condizioni perché si realizzano in forza delle relazioni con il contesto, fatto dal sistema dove esistono anche gli “altri”.
E la aberrazione del concetto di uguaglianza parte dentro il nostro cervello, con una serie di varianti che distruggono ogni logica e principio di non contraddizione, fatto in forza della falsificabilità Popperiana. Infatti l’uomo tutto è tranne che essere coerente che applica tale principio.
Per fare un esempio banale se ci muore la madre siamo capaci di piangere due giorni, muoiono 10 mila bambini al giorno, ed è una notizia come un’altra… Allora siamo noi i primi a non considerare uguali tutti se non in forza a certi contesti, per esempio la parentela o la prossimità: mi abita vicino… Dunque il pensiero secondo il quale siamo tutti uguali ha già una variabile, ossia siamo tutti uguali ma se qualcuno è parente certamente è più uguale degli altri (direbbe Orwell).
Eppure il voler imporre una uguaglianza industriale serve. Serve a chi ha un unico fine: quello di proiettarci nel progetto generale di formare pezzi di ricambio per il sistema.
L’ingegneria della uguaglianza psicologica ha diversi aspetti positivi, naturalmente solo per il sistema. Livellare il più possibile le aspirazioni, eliminare le identità, reprimere le unicità, pianificare ed impiantare il pensiero unico, incentivare l’emulazione ed il controllo in modo da far sentire scarto il “diverso” verso il controllo e la gestione industriale dell’umanità “uguagliando” prodotti, vita, orari, malattie, pensieri, film, bevande, ecc.
L’uguaglianza cosi come è stata impiantata è una droga che viene ricercata da tutti e più la si usa più si diventa tossicodipendenti e ci si rovina.
Naturalmente sarà frainteso ma non importa, invece è importante che passi la follia dell’umanità che non ha niente di sapiens sapiens. Come fa l’80% della popolazione mondiale a vivere con meno del 15% delle risorse del pianeta, ed il 20 per cento con la restante parte della ricchezza? Chi è che non ha capito il significato della parola uguaglianza? Oppure non è chiaro cosa significhi uguaglianza? Oppure di uguale c’è solo il trattamento delle pecore? Cosa non è stato capito? Come mai oltre 6 miliardi di persone non capiscono il concetto di uguaglianza? Forse è concetto difficile, oppure irrealizzabile o è uno specchietto per le allodole? Perché, soprattutto quando l’uomo diventa sempre più dipendente della industrializzazione c’è la necessità di uguagliargli la vita, forse per renderlo sempre più intercambiabile?
Gira nel mondo del lavoro la famosa frase che esplicita perfettamente questo concetto, “tutti sono utili nessuno indispensabile”, allora l’uguaglianza di fatto è una utilità del sistema? Il sistema non riconosce elementi estranei a prodotti “uguali” fatti in copia proprio perché utili al sistema, l’elemento diverso non trova collocazione nel sistema. L’industria spesso focalizza l’esigenza di avere specializzazioni per il suo sistema produttivo, e c’è la diatriba storica che l’università benché malridotta, sforna (sforma) elementi non proprio adatti al sistema.
L’industria ha la necessità di “risistemare” la formazione dei neo-laureati, un po’ per la decadenza dell’istruzione, un po’ perché, soprattutto, l’università non realizza “prodotti perfettamente uguali” come li vorrebbe l’industria del profitto. Paradossalmente le università private di un certo tipo, fanno uscire “soldatini perfetti” da impiegare nella battaglia del profitto dove vince chi è più competitivo (altro che uguaglianza), dove il manager ragiona (esegue programmi) in termini di margine, di profitto, di crescita ad ogni costo. Senza poi comprendere che se la ricchezza in questo sistema è rappresentata solo dal denaro che è controllato nella sua circolazione in termini di quantità con ogni mezzo, questo significa, che qualcuno fa profitto e qualcun altro sta fallendo o sta morendo, ma questi devono sempre avere l’idea di essere uguali e sopratutto di avere pari opportunità, invece andranno a combattere una guerra di cui non conoscono le vere strategie. La economia neoliberista prevede una uguaglianza di opportunità, peccato che chi è ricco parte molto più avvantaggiato e vincerà quasi certamente sul meno ricco. Cosa c’è di logico, di razionale, di uguale in tutto questo? Niente solo un film che ci proiettano per non farci capire la dittatura che tiene in piedi l’alibi della uguaglianza dell’uomo libero.
L’uguaglianza fluidifica la responsabilità rendendoci inermi e depressi, con il fatto che ci dobbiamo necessariamente livellare e sentire uguali, nessuno si prende la briga di prendersi la responsabilità dell’azione. Questa “ingegneria della uguaglianza industriale” di fatto ci rende inabili ad agire
collettivamente, infatti essendo tutti uguali, tutti hanno la stessa sorte ed allora perché mai qualcuno si dovrebbe sentire investito e motivato per fare una rivoluzione che lo renderebbe diverso?
Anzi l’ingegneria dell’uguaglianza prevede la cultura del controllo e del sospetto, ogni uguale deve controllare il grado di uguaglianza dell’altro per incriminarlo, salvo poi desiderare inconsciamente, di emergere e distinguersi. Già il sistema sovietico applicò l’ingegneria dell’uguaglianza in maniera diretta, oggi il neoliberismo la sta applicando in maniera diretta, ossia ti pone le condizioni di contorno al fine di avere un solo pensiero, una sola OGM, una sola banca, una sola industria farmaceutica, una sola casa cinematografica, un solo esercito buono e giusto che porta la democrazia nel mondo… Per fare tutto questo il sistema crea i propri generali, i propri dirigenti, i propri guardiani della verità, i propri “gatekeeper”, allevati e cresciuti già all’interno di famiglie agiate del sistema, solitamente il padre o la madre già fanno lo stesso mestiere (ingegneri dell’uguaglianza - degli altri naturalmente - ricordate il discorso di Monti: i giovani – uguali - si devono abituare a cambiare posto in continuazione). In questo contesto possiamo dunque dire che ci sono diversi livelli di uguaglianze che non interagiscono tra loro e che si reggono attraverso equilibri. Non è facile passare da un livello di uguaglianza ad un altro. Il passaggio da un livello all’altro prevede l’acquisizione dei requisiti del livello superiore, ed in parte l’abbandono di quelli inferiore.
I bambini in Africa certamente sono uguali nel morire di fame, i bambini americani sono certamente uguali, nell’ingrassare con patatine ed hamburger, i bambini italiani sono certamente uguali nel’essere difesi se la maestra si azzarda a pretendere la disciplina in classe, i bambini eschimesi sono certamente uguali a stare al freddo... Dobbiamo rassegnarci di essere irrazionali nel pretendere di attuare cose impossibili poiché innaturali.
E’ mai possibile che sei miliardi non comprendono e non sappiano mettere in pratica questo grande principio della uguaglianza? Spostare l’attenzione sulla uguaglianza è stato il più grande atto di manipolazione mentale che sia stato fatto, infatti nel rincorrere questo principio ci siamo persi una marea di battaglie sui diritti veri, l’uguaglianza non è un diritto al massimo può essere una condizione, le condizioni invece si realizzano solo con i diritti, il diritto è misurabile, l’uguaglianza poiché è un prodotto della filosofia astratta non è misurabile.
I diritti si possono misurare in termini di quantità ed in termini di qualità come l’acqua, la casa, l’istruzione, la salute, ecc. Oggi il vero pensiero stupefacente (nel senso di droga) è proprio nel fatto che siamo tutti convinti fino all’ultimo osso del piede (appunto drogati) di “uguaglianza” come principio inderogabile, ma poi non abbiamo un minimo di eziologia di come questa uguaglianza debba esprimersi.
Se l’uguaglianza è la risultante di una serie di diritti che creano un contesto allora la si può anche accettare, ma se questa è solo una astrazione per imporre il mono pensiero, e sopratutto un comportamento fotocopia per servire il sistema allora è il caso di riformulare un pensiero alternativo all’essenza dell’uomo. Il diritto dell’*essere* viene confuso con il diritto dell’”essere uguale”: è una tecnica di manipolazione eccezionale poiché sposta l’attenzione da un diritto materiale e contingente (oltre che spirituale) “quello di essere” (senza nulla aggiungere) ad un principio astratto “quello di essere uguale”*.
L’uguaglianza è un qualcosa che si deve “avere”. Il diritto di essere c’è e basta, solo che bisogna esserne consapevoli ma il cammino della consapevolezza viene distolto dalle cose serie e finisce per rincorrere quella astrazione irraggiungibile.
Un aspetto psicologico di malessere sociale che può portare al suicidio potrebbe essere fatto risalire a questa “uguaglianza” imposta per esempio agli imprenditori costretti a stare in un mercato neoliberista competitivo dove si “fallisce scientificamente” per colpa del sistema di emissione monetaria e non certo per incapacità imprenditoriale. Eppure l’evento viene percepito come vergogna di non essere stato capace come gli altri imprenditori, uguale agli altri.
L’Ingegneria della uguaglianza (concetto astratto) comunque venga applicata fa sempre danni.
E c’è da fare molta attenzione al meta messaggio, ossia al messaggio nascosto che c’è sempre dietro ad un concetto astratto, come quello di “uguaglianza”. Per fare degli esempi: poniamo “l’uguaglianza nella italianità” (ossia quando leggiamo scrittori italiani, leggiamo scrittori italiani uguali). Siamo tutti italiani perché c’è lo hanno detto/imposto? Siamo tutti italiani perché stiamo nello stesso territorio fatto sulla carta?
Siamo tutti italiani perché paghiamo tutti le stesse tasse allo stesso dittatore? Siamo tutti italiani perché dobbiamo pagare l’IMU? Siamo tutti italiani perché parliamo la stessa lingua? Siamo tutti italiani perché abbiamo la stessa bandiera? Siamo tutti italiani perché abbiamo lo stesso presidente?
Fino agli anni Novanta dovevamo essere tutti italiani uguali, ora dobbiamo essere tutti europei uguali. Siamo noi, o ci impongono di essere “uguali” con la camicia di forza, per esempio con l’imposizione dell’euro? Possiamo essere uguali a noi stessi e basta?".

Io penso che l'uguaglianza non esista ed è giusto e naturale.
L'uguaglianza non esiste!
Ogni uomo è diverso dal proprio simile poiché ha capacità e caratteri che sono unici.
Questo non fu deciso dagli uomini ma da Dio stesso.
Il discorso non vale solo per i caratteri fisici e psicologici ma anche per quelli economici e politici.
Ad esempio, è naturale che vi siano ricchi e poveri.
Essere ricchi non è un'ingiustizia o un "furto".
Lo dico io, che non sono ricco!
Inoltre, ogni uomo ha meriti propri.
Io penso che una società debba basarsi su questi principi.
Invece, c'è una certa "cultura" che vuole che tutti siano eguali, al di là dei meriti e delle capacità di ogni uomo.
Questa "cultura" è tipica della sinistra.
Essa punta a massificare le persone.
Questa "cultura" punta più sulla massa che non sui talenti delle singole persone, mortificandoli.
Questa "cultura" è distruttiva perché punta a fare "eguaglianza al ribasso" e fa sì che le persone più meritevoli e capaci siano scavalcate da altri che non hanno capacità.
Questa concezione del mondo è la rovina della nostra società
Basti pensare alla scuola che non seleziona più gli studenti e che promuove anche chi non ha meriti o al mondo del lavoro, al quale troppo spesso si accede per conoscenze di persone importanti che non per meriti.
Se l'egualitarismo porta questo, allora io dico:

"Viva la diseguaglianza!".

Cordiali saluti. 

sabato 28 luglio 2012

Camillo Langone, "Ripartiamo da Itaca, non da Predappio", in 'Libero' del 18/07/12, pag. 11

Cari amici ed amiche.

Su Facebook, quel genio qual è l'amico Filippo Giorgianni ha messo questo testo di Camillo Langone:

«Purché non sia nostalgia. La mia paura è che l’indispensabile rifondazione culturale della destra italiana si rattrappisca in una sorta di rifondazione missina. Non tanto perché missino io non lo sono mai stato: non ne faccio una questione personale. Ma perché, molto evidentemente, di tutto l’Italia ha bisogno fuorché di un ritorno agli anni Settanta, anche se solo nei termini di un vintage intellettuale. Purtroppo invece leggo la lista dei promotori e dei partecipanti di “Ritorno a Itaca”, il convegno pro-destra tenutosi l’altro giorno ad Acquasanta Terme, e mi sembrano davvero poche le persone che non abbiano trascorso qualche remoto anno nel Fronte della Gioventù. Nonostante il toponimo cattolico e lo svolgimento dei lavori in un monastero benedettino, in quella località delle Marche mi sarei sentito spaesato e in tanti devono averla pensata come me, siccome l’appello di Marcello Veneziani “a tutte le destre” è stato raccolto da una destra sola, quella con Benito nell’album dei ricordi. Dov’era la destra cattolica? Dov’erano Giovanni Cantoni e Giovanni Lindo Ferretti, Angela Pellicciari e Costanza Miriano? Dov’erano Alleanza Cattolica e Antonio Socci, il giurista Francesco D’Agostino e Magdi Allam? E Roberto Dal Bosco gran di svelatore del nichilismo buddista? E dov’era la destra libertaria di Oscar Giannino, degli economisti dell’Istituto Leoni e dei ragazzi dei Tea Party? Non pervenuti nemmeno loro. Su quel palco piceno mi sarebbe piaciuto vedere Giancarlo Gentilini, leghista e patriota, e poi Pier Carlo Bontempi, sommo architetto della tradizione, e Ida Magli, una che di euro e di Europa aveva già capito tutto nel 197, e Claudio Risé con i suoi maschi selvatici, e un poeta di sicuri sentimenti nazionali come Aurelio Picca… Niente da fare. Non poteva andare altrimenti perché l’appello di Veneziani aveva un titolo includente ma un testo escludente che si rivolgeva esplicitamente solo alla Destra di Storace, a quel poco che resta di Futuro e Libertà e alla componente aennina all’interno del PdL. Dando la sensazione, più che di un ritorno a Itaca, di un ritorno a Predappio. La nostalgia è la grande malattia dell’intero centrodestra (ha colpito quindi non solo gli amici di Veneziani) e per diagnosticarla anziché Omero serve Jack London e il suo Richiamo della foresta. Tutti improvvisamente smaniano di tornare all’origine, sulle posizioni di quando erano giovani (o meno vecchi), e quindi c’è chi parte per Forza Italia, chi per Alleanza Nazionale. È un fenomeno anche comprensibile, visti i chiari di luna, però patetico (Premio Disperazione a Carmelo Briguglio che ieri ha proposto di rifare AN e di rimetterci a capo Gianfranco Fini). Purtroppo per loro, al posto della grande foresta i ritornanti troveranno solo radi boschetti, defogliati dal tempo. Se non addirittura singoli alberi, assediati dalla vecchiaia e dal cemento, incapaci di fornire qualsivoglia riparo. Contenti loro… Concludo qui la lista delle inevitabili critiche, che poteva perfino essere più lunga, per venire alla pars costruens: l’inevitabile condivisione della necessità, anzi dell’urgenza, di una rifondazione culturale della destra. Per uscire dall’intellettualismo e dal settarismo di Acquasanta, mantenendo però il medesimo format, propongo di intitolare il prossimo convegno “Ritorno alla Nazione”. Allora sì. Sul tema della sovranità (“politica, monetaria, internazionale” come precisato da Veneziani a Borgonovo su queste pagine) possono confluire tutte le destre possibili e immaginabili, e forse pure quelle inimmaginabili che al momento se ne stanno ben nascoste perché intenzionate a combattere Monti e la finanza mondiali sta ma non a partecipare ai raduni dei vecchi camerati. In fondo lo slogan giusto esiste già da qualche tempo, si tratta solo di dargli una bella lucidata. Verrà rilanciato in un libro in uscita a settembre per Mondadori, firmato proprio da Veneziani e felicemente intitolato Dio, patria e famiglia. E se qualcuno storce il naso di fronte alla grande triade delle “cose permanenti” (per citare Eliot) faccia la cortesia di accomodarsi altrove: abbiamo scoperto che è di sinistra.».

Io penso che essere di destra sia una cosa ed essere fascisti sia un'altra.
Come uomo di destra, io ho sempre cercato di fare una distinzione.
Specialmente ai miei conterranei di Roncoferraro (Mantova) ho sempre cercato di fare capire che la destra è una cosa ed il fascismo ne è un'altra.
La dimostrazione di ciò fu quello che accadde nel 1945.
Dopo la caduta del fascismo, ci furono molti tentativi di inglobare pezzi di quest'ultimo nei partiti antifascisti.
Ad esempio,  il Partito Comunista Italiano volle inglobare quella parte "rivoluzionaria" del fascismo.
La Democrazia Cristiana, invece, puntava ad inglobare il fascismo di governo, quello borghese.
Quindi, il fascismo non può essere definito "di destra".
La destra, invece, esiste da prima della venuta del fascismo.
Essa deriva dalla volontà dell'uomo di difendere le proprie radici contro il progressismo che puntava a distruggerle.
Il progressismo, in realtà, generò regresso.
Per esempio, nel Medio Evo i re avevano l'ebreo di corte, ossia un dignitario di religione ebraica che fungeva      
da "ambasciatore" della comunità ebraica presso la corte.
Nel  XX secolo, invece, ci furono governi che fecero morire parecchi ebrei. 
Eppure, dal Medio Evo al XX secolo ci furono "progressi". 
La destra vuole mantenere saldi quei valori che fondarono una civiltà come la nostra.
Essa, quindi, vuole attingere a quel punto di incontro tra le varie radici della nostra civiltà, la radice greco-latina e quella giudaico-cristiana.
Il Medio Evo fu quel punto di incontro.
La destra, per esempio, deve parlare di sussidiarietà (concetto che nacque nel Medio Evo) e deve ritornare a quella purezza iniziale di certi mestieri.
Ad esempio, le banca nacque nel Medio Evo, attraverso i Cavalieri Templari, come "Monte di Pietà".
La destra deve parlare di ciò ed abbandonare certe ampollose celebrazioni come quelle di stampo fascista.
La destra deve parlare di famiglia e di difesa della proprietà privata.
La destra non deve essere egualitaria ma meritocratica.
Ad esempio, nel Medio Evo, un re dava un feudo ad un signore per la sua fedeltà.
La destra può parlare di dialogo tra i popoli ma secondo le comuni radici (e senza rinnegare la propria cultura) e non secondo il pensiero massonico-illuminista.
Per esempio, re Carlo I Stuart (1600-1649)  era di destra.
Infatti, egli voleva il dialogo con gli altri, puntando però sulle radici comuni e senza rinnegare la cultura del proprio Paese, e, nel contempo, rifiutando la Rivoluzione, ossia il protestantesimo che minava le basi stesse della monarchia inglese.
Questo sarebbe stato il ritorno alla "cattolicità", ossia all'universalità della tradizione cristiana, secondo il canone del Medio Evo.
Questa è la vera destra.
Cordiali saluti. 



giovedì 28 giugno 2012

Identità e diversità secondo Kuehnelt-Leddihn-traduzione di Filippo Giorgianni

Cari amici ed amiche.

Sul sito di Ludwig von Mises Italia c'è questo brano scritto da Erik von Kuhenelt-Leddihin (1909-1999):

"Visti da una certa angolazione, siamo tutti soggetti a due spinte basilari: identità e diversità. Né nella vita delle persone né nella storia delle nazioni queste due spinte hanno sempre la medesima intensità e il medesimo equilibrio. Esse come si manifestano? Tutti noi sperimentiamo uno stato d’animo durante il quale sentiamo il desiderio di essere in compagnia delle persone della nostra stessa età o della stessa classe, sesso, convinzioni, religione o gusto.

Molto probabilmente, condividiamo con il mondo animale questa spinta verso la conformità, per una forte sensazione di identità che è come un istinto di branco, un comune e forte sentimento di comunità che guarda ogni altro gruppo con ostilità. Nelle rivolte razziali e nelle manifestazioni etniche, questo sentimento collettivo può mostrare una grande forza: l’istinto conformista del branco è stato, per esempio, il motore guida dietro le organizzazioni ginniche nazionaliste dei tedeschi e degli slavi, così potente nella prima parte di questo secolo. Guardando cinque o diecimila uomini e donne, vestiti identicamente, compiere i medesimi movimenti, si è assaliti da un’impressione irresistibile di omogeneità, sincronizzazione, simmetria, uniformità. L’identità e la sua spinta tendono all’autocancellazione, tendono a un «nostrismo» in cui l’ego viene eliminato.

Certamente, il «nostrismo» (termine creato dal nazionalsocialista austriaco Walther Pembaur) può essere, e di solito è, un’intelligente moltiplicazione degli egoismi. Chiunque esalti un’unità collettiva a cui partecipi (una nazione, una razza, una classe, un partito) esalta anche sé stesso. E dunque tutte le spinte verso la conformità non solo prendono posizione per l’uniformazione e si oppongono all’alterità, ma sono anche autoreferenziali. L’omosessualità possiede un aspetto di uniformazione a sé insieme a un rifiuto di stabilire un ponte – intellettuale, spirituale e psicologico –, a volte difficile, con l’altro sesso. Sotto questo aspetto, l’omosessualità è una forma di narcisismo, di immaturità e denota dei limiti da “sempliciotto”[2]. Fortunatamente, l’uomo nella sua maturità e nel pieno delle sue capacità non possiede solo spinte verso l’identità, ma anche verso la diversità, non solo un istinto del branco, ma anche un sentimento romantico. Più spesso che non, noi aneliamo ad incontrare persone del sesso opposto, un altro gruppo d’età, di mentalità, classe, persino di un’altra fede e convinzione politica.

Tutti i tipi di curiosità per il nuovo – il desiderio di viaggiare, di mangiare altri cibi, di sentire musica differente, di tenersi in contatto con varie culture e civiltà – derivano dalla tendenza alla diversificazione. Un cane non ha desiderio di viaggiare, né si oppone molto al cibarsi dello stesso cibo. Lo stadio della formica o della termite può rimanere inalterato attraverso i secoli. Ma il desiderio dell’uomo di cambiare produce risultati nella storia, come sappiamo. C’è qualcosa in noi che non sopporta la ripetizione. Questa brama per il nuovo può essere micidiale, certamente, se non viene fusa con un elemento di permanenza – e con la prudenza. In altri termini, condividiamo con le bestie l’istinto di cercare l’identità con l’altro; ma diventiamo completamente umani solo attraverso la nostra spinta e il nostro entusiasmo per la diversità.

Nonostante il pericolo, tutte le maggiori religioni teiste poggiano appieno su questo anelito, su questo amore per l’alterità. Anche se non sottoscriverei la formula di Karl Barth del Gott als der ganz andere(Dio come il totalmente altro), nessun teista può negare l’alterità di Dio. Noi siamo creati a Sua immagine, per quanto non siamo un facsimile di Dio. Questa è una ragione del perché l’Incarnazione smuova gli uomini così profondamente, del perché il primo Concilio Ecumenico si sia infuriato con asprezza con riguardo all’esatta natura dell’Incarnazione, del perché essa abbia dato origine a tragiche eresie e scismi.

Osservando queste due spinte, identità e diversità (entrambe hanno fondamenta psicologiche, ma solo la seconda possiede un carattere intellettuale), dobbiamo concludere che i tempi moderni sono molto più favorevoli all’istinto di branco che alla diversità. Questo potrebbe non essere di immediata evidenza, perché in qualche modo l’opposto sembra essere la regola: la brama di viaggiare può essere ora molto facilmente soddisfatta e nelle arti esiste una grande varietà di gusti e di scuole. Ma in altri più importanti reami, l’identità è stata favorita in ogni modo, in parte dalle passioni (per lo più di ordine animale) e in parte dalla moderna tecnologia e dalle procedure che formano la civiltà moderna. Sebbene sia di moda parlare del pluralismo dei nostri giorni, infatti, tutte le tendenze moderne puntano verso lo spettro di una terrificante, più grande e più spietata, conformità. A tal proposito, l’identità è una cugina dell’eguaglianza. Ogni cosa che sia identica è automaticamente uguale. Due monete da cinquanta centesimi della stessa provenienza non sono solo identiche, ma anche eguali. Due quarti sono uguali a una moneta di cinquanta centesimi, ma essi non le sono identici.

L’identità è uguaglianza: essa è eguaglianza a prima vista, un’eguaglianza che non necessita di alcun lungo ragionamento o accurata indagine per essere ritrovata. Di conseguenza, tutte le forme politiche o sociali che sono ispirate dall’idea di uguaglianza punteranno quasi inevitabilmente al concetto di identità e favoriranno l’istinto del branco, con il susseguente sospetto, se non avversione, per coloro i quali osino essere differenti o per coloro i quali reclamino una superiorità. C’è un’ottusa inclinazione animalistica verso la conformità sociale (l’identità) così come un programmatico e fanatico impulso in quella direzione. Nietzsche[3] ne era consapevole, così come lo era Jacob Burckhardt[4]. Il suo motore portante è la paura, proveniente da un complesso d’inferiorità che genera l’odio, e l’invidia come sua sorella di sangue. Questa paura deriva dal sentirsi inferiori a un’altra persona (o ad una situazione); l’odio è possibile solo attraverso il sentirsi impotenti davanti a una persona più forte. Uno schiavo debole e imbelle può temere e odiare il suo padrone; il padrone, d’altro canto, non odierà ma piuttosto proverà disprezzo per il suo schiavo. Chi odia in tutto il corso della storia ha commesso orribili atti di crudeltà (la vendetta dell’inferiore)[5], mentre il disprezzo – spesso accoppiato a un senso di superiorità – ha prodotto crudeltà solo raramente.

La domanda di eguaglianza ed identità nasce precisamente al fine di evitare quella paura, quel senso di inferiorità. Nessuno è migliore, nessuno è superiore, nessuno si sente toccato, tutti sono “tranquilli”. Inoltre, se l’identità, se l’uniformità viene raggiunta, le azioni e le reazioni delle persone possono essere previste. Senza (sgradevoli) sorprese, emerge una calda sensazione collettiva di fratellanza. Questi sentimenti – questo rigetto della qualità (che ineluttabilmente differisce da persona a persona) – spiegano molte cose a proposito dello spirito dei movimenti di massa degli ultimi duecento anni. Simone Weil ci ha insegnato che l’“io” viene dall’uomo, ma il “noi” proviene dal Diavolo. L’altro fattore dell’identità è l’invidia. L’invidia possiede diverse e complesse radici psicologiche. C’è, prima di tutto, la strana sensazione secondo cui, qualunque situazione viva una persona, ciò dipenderebbe in qualche modo da qualcun altro: “Sono povero perché lui è ricco”. Questo sentimento intimo e spesso taciuto riposa sull’assunto che tutte le cose buone in questo mondo sono limitate. Nel caso del denaro, o più ancora nel caso della proprietà fondiaria, potrebbe avere qualche fondamento (da qui l’invidia enorme dei contadini per i beni immobili di qualcun altro). Questa contesa, tuttavia, è spesso inconsciamente estesa ai valori che non sono limitati. Isabella è bellissima; Luisa è brutta. Eppure la bellezza di Isabella non è il risultato della bruttezza di Luisa, né l’intelligenza di Roberto dipende dalla stupidità di Timoteo. L’invidia a volte usa inconsciamente un argomento statistico: “Non tutte le nostre sorelle possono essere belle, né tutti i nostri fratelli intelligenti. Il destino mi ha discriminato!”. Il secondo aspetto dell’invidia risiede nella superiorità di un’altra persona in un diverso ambito. Un’invidia bruciante può essere creata dal mero sospetto che un’altra persona si senta superiore a causa dello sguardo, dell’intelligenza, dei muscoli, dei soldi o quant’altro. Il solo modo per compensare è trovare qualità inferiori nella persona oggetto dell’invidia: “Lui è ricco, ma è cattivo”, “Ha successo, ma la sua vita familiare è miserabile”. Le carenze della persona invidiata servono quali consolazioni: a volte esse servono come accusa per attaccarla, specialmente se le sue carenze sono morali.

Negli ultimi duecento anni lo sfruttamento dell’invidia – la sua mobilitazione presso le masse – accoppiata alla denigrazione degli individui, ma molto frequentemente anche di classi, di razze, di nazioni, di comunità religiose, sono state la chiave del successo politico[6]. La storia del mondo occidentale dalla fine del diciottesimo secolo non può esser scritta senza tenere questo fatto sempre a mente. Tutti gli “ismi” sinistrorsi suonano intorno a questo tema: vale a dire, sul privilegio dei gruppi che sono oggetto dell’invidia e, al medesimo tempo, che vengono considerati inferiori in qualche aspetto intellettuale o morale. Essi non hanno diritto alla loro posizione di rilievo, bando alle ipocrisie. Essi dovrebbero adeguarsi, divenire identici al “popolo”, rinunciare ai loro privilegi, conformarsi. Se parlano un altro linguaggio, dovrebbero astenersi dal farlo in favore dell’idioma comune. Se sono benestanti, le loro ricchezze dovrebbero essere tassate maggiormente o confiscate. Se aderiscono ad una ideologia impopolare, dovrebbero rinunciarvi[7]. Ogni cosa speciale, ogni cosa astrusa, ogni cosa non facilmente comprensibile dai più, diventa sospetta e malvagia (come, per esempio, le sempre più “antidemocratiche” arte e poesia moderne[8]). Un tipo di minoranza impopolare che non può conformarsi e quindi è sempre in pericolo di essere esiliata, oppressa o massacrata, è la minoranza razziale.

Poiché – come sempre – l’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù, il cattivo incitamento all’invidia non verrà mai pubblicamente invocato. La persona o il gruppo non conformisti, peccando contro il sacro principio dell’uniformità, saranno invece trattati come traditori e, se non sono traditori, la maggioranza invidiosa li spingerà in quella direzione (ancora nel 1934 alcuni ebrei tedeschi provarono a formare un proprio gruppo Nazista; essi consideravano ingenuamente l’antisemitismo una “fase passeggera”. Ma si può immaginare un ebreo tedesco nel 1943 non pregare per una vittoria Alleata? Essi sono stati spinti in quella direzione). Di conseguenza, essere diversi significa essere trattati da (o diventare un) traditore.

Persino laddove lo schema “nonconformista = traditore” non sia apertamente utilizzato, frequentemente esso si nasconde dietro la mentalità dell’uomo moderno, che si abbracci o meno direttamente il totalitarismo. Quante, tra le molte persone che rigettano sinceramente tutte le dottrine totalitarie, oggi sottoscriverebbero la famosa massima di Santo Stefano, Re d’Ungheria, che scrisse nel suo testamento al proprio presunto erede, Sant’Emerico: «Un regno con una sola lingua e un solo costume è una cosa stupida»[9]?

Unicità e conformità sono mischiati nelle nostre menti. La moderna fascinazione dell’uniformità è stata incrementata non solo dalla tecnologia che produce oggetti identici (un tipo d’auto di proprietà “comune” a mezzo milione di persone), ma anche dalla percezione subcosciente che l’uniformità sia legata alla compera a buon mercato e al fatto che essa rende più intelligibili le cose per le menti semplici. Leggi identiche, dimensioni identiche, lingua identica, identica valuta, potere politico identico (“una testa – un voto”), abiti identici o quasi identici (i blue-jeans maoisti): tutto questo sembra altamente desiderabile. Semplifica le cose. È più economico. Evita di far pensare. A certe menti pare addirittura “più giusto”. Ma queste tendenze identiche si imbattono in due ostacoli: la natura e l’uomo (che è parte della natura). Tra le due, la natura può più facilmente essere compressa dallo sforzo umano in modelli identici, come testimoniano certi tipi di giardinaggio o le colline che vengono livellate.

Ma inserire l’uomo in uno stampo identico è un’impresa più difficile, per quanto non priva di speranza per lo stolto che dichiari allegramente: “Tutti gli uomini sono uguali” e “Tutte le persone sono tra loro più simili che dissimili”. Ciò evoca Procuste, il leggendario predone sadico che stendeva le sue vittime su di un letto: coloro che erano troppo corti venivano stirati e martellati sino a giungere alla loro forma, coloro che erano troppo lunghi venivano tagliati alla giusta misura. Procuste è il precursore della tirannia moderna. Ma inevitabilmente il livellatore si scontra con il mistero della personalità. Gli esseri umani sono diversi. Sono diversi per età, per sesso; variano nella forza fisica, nell’intelletto, nell’educazione, nell’ambizione. Hanno differenti caratteristiche, diverse disposizioni e diversi tipi di memoria; essi reagiscono differentemente allo stesso trattamento (tutte cose che resistono all’egualitarista). Mentre il calzolaio dà per scontata la diversità, il grattacapo sorge per il calzaturiere. Se essa è naturale per la governante e non è un mistero per il genitore, può divenire un problema insolubile per l’insegnante di una classe di grandi dimensioni.

In effetti, i gruppi di rilevanti dimensioni tendono a rinunciare almeno in parte alla personalità. L’uomo-massa ha la tendenza a pensare, agire e reagire in modo sincronizzato con la folla (un fenomeno che può avere una spiegazione scientifica). Più precisamente, poiché l’identità umana è difficile da raggiungere, deve essere frequentemente approntato un mediocre succedaneo. Questo succedaneo è l’uguaglianza: ed essa è ugualmente inattuabile.

Di Erik von Kuehnelt Leddihn

Traduzione di Filippo Giorgianni
[1] Herman Borchardt, The Conspiracy of the Carpenters,Simon&Shuster,New York 1943.

[2] Il dottor Marcel Eck scrive in un suo saggio che l’«inferno dell’omosessualità» sta proprio nel fatto che essa evita il vero dialogo; l’amore omosessuale non è la ricerca di un altro, ma semplicemente una ricerca di se stessi. Cfr. Marcel Eck, Propos de la sexualité, in Idem, Qu’est-ce-que l’homme, Pierre Horay, Parigi 1955, p. 110.

[3] José Ortega y Gasset scrive: «Probabilmente l’origine della furia anti-individuale risiede nel fatto che nei loro cuori più intimi le masse si sentono deboli e indifese di fronte al loro destino. In una pagina amara e terribile Nietzsche nota come, nelle società primitive che erano deboli allorquando si confrontavano con le difficoltà dell’esistenza, ogni atto individuale e originale fosse un crimine e come l’uomo che provava a condurre una vita solitaria fosse un malfattore. Egli doveva comportarsi in ogni cosa al modo della tribù». Cfr. José Ortega y Gasset, Invertebrate Spain, traduzione di Mildred Adams, Norton, New York 1937, pp. 170-171. Sull’antagonismo tra libertà ed eguaglianza, liberalismo e democrazia, si veda anche Roger John Williams, Free and Unequal: The Biological Basis of Individual Liberty, University of Texas Press, Austin 1953; Alexander Dunlop Lindsay, The Modern Democratic State, Oxford University Press, Londra 1945, vol. I, pp. 46 e 79; Franz Schnabel, Deutsche Geschichte im Neunzehnten Jahrhundert, Herder, Friburgo in Brisgovia 1933, vol. II, pp. 97-98; Heinz Otto Ziegler, Autoritärer oder totaler Staat, J. C. B. Mohr, Tubinga 1932, p. 10; Wilhelm Stählin, Freiheit und Ordnung, in Der Mensch un die Freiheit, Neues Abendland, Monaco 1954, p. 17. Werner Jaeger pone l’accento sul fatto che Atene fosse democratica, che essa insistesse sull’ison (eguaglianza), ma non sulla libertà personale: cfr. Werner Jaeger, Paideia, Walter de Gruyter, Berlino 1954, vol. II, p. 104. Il professor Goetz Briefs ricorda che tutti i democraticismi (che egli distingue dalla democrazia) devono concludersi in un dispotismo dal momento che essi si oppongono alla realtà dell’uomo e della società: cfr. Goetz Briefs, Zwischen Kapitalismus und Syndakalismus, A. Francke, Berna 1952, p. 75. Herbert Marcuse, riferendosi a Hegel, giunge a conclusioni simili: cfr. Herbert Marcuse, Reason and Revolution, Boston Press, Boston 1960, pp. 242-243.

[4] Jacob Burckhardt nella sua lettera a Friedrich von Preen, datata 1 gennaio 1879 scrive: «Sei perfettamente nel giusto: si vuol educare la gente agli incontri. Alla fine, le persone inizieranno a gridare ove non formino folle di almeno un centinaio di componenti». cfr. Jakob Burckhardt, Briefe an seinen Freud Friedrich von Preen 1864-1893, Deutsche Verlaganstalt, Stoccarda 1922, p. 130.

[5] Friedrich Nietzsche, Werke, Kröner, Lipsia 1917, vol. XII, p. 140.

[6] Sull’invidia, si vedano i magistrali lavori di Gonzalo Fernández de la Mora, La invidia igualitaria, Planeta, Barcellona 1984; Helmut Schoeck, Der Neid, Karl Alber, Friburgo in Brisgovia 1966 e Idem,Recht auf Ungleichheit, Herbig, Monaco 1979.
La candida dichiarazione del Presidente Wilson poco prima dell’entrata dell’America nella Prima Guerra Mondiale fu: «La conformità sarà la sola virtù. E ogni uomo che rifiuti di conformarsi sarà sanzionato». Cfr. Harold U. Faulkner, From Versailles to the New Deal, Yale University Press, New Haven 1950, p. 141.

[7] La candida dichiarazione del Presidente Wilson poco prima dell’entrata dell’America nella Prima Guerra Mondiale fu: «La conformità sarà la sola virtù. E ogni uomo che rifiuti di conformarsi sarà sanzionato». Cfr. Harold U. Faulkner, From Versailles to the New Deal, Yale University Press, New Haven 1950, p. 141.

[8] Gran parte dell’arte moderna è simultaneamente: 1) una reazione contro la democrazia e il “populismo”, 2) una bufala enorme a spese degli ingenui, che sfrutta la loro ammirazione snobistica per i «Vestiti Nuovi dell’Imperatore» e 3) (a volte) un pizzico di Satanismo, una protesta contro la creazione di Dio. Ma ricordiamo che il superfuturista d’Italia, Marinetti, era un devoto fascista e che il nazionalsocialismo e il comunismo russo (dopo un periodo di accettazione) si sono rivoltati violentemente contro l’arte moderna (Khruschev pensava che tutti gli artisti moderni fossero omosessuali e quindi li faceva incarcerare). C’è, comunque, un’arte moderna legittima.

[9] «Monita quibus Stephanus filium Emericum instruxit, ut regnum recte pieque administraret», cap. VI, in Jacques Paul Migne, Patrologiae Cursus Completus, Series Latina, vol. CLI, pp. 124 e ss
.".

Lo devo proprio dire, sono onorato di avere una persona come Filippo tra i miei interlocutori.
Per me è un piacere interloquire con una persona come lui.
E' intelligente, colto e disponibile a dialogare.
E' una brava persona.
Ora, quello che c'è scritto è pienamente condivisibile.
L'uguaglianza non esiste.
Ogni uomo è diverso dl suo simile.
Questo non fu deciso dall'uomo ma da Dio.
Basti pensare ai doni dello Spirito.
Lo Spirito dà i carismo ad ogni uomo ed ogni uomo riceve doni diversi.
Leggete questo brano della lettera di San Paolo agli Efesini (capitolo 4, versetti 6-11):

"[6] Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
[7] A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo.

[8] Per questo sta scritto:
Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri,
ha distribuito doni agli uomini.

[9] Ma che significa la parola "ascese", se non che prima era disceso quaggiù sulla terra?

[10] Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose.

[11] È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri,

[12] per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo,

[13] finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo.".



Se Dio stabilì ciò, come può pretendere l'uomo di fare il contrario.  
La diseguaglianza non è un crimine.
Ogni uomo ha una sa funzione nella società.
E' un po' come nel corpo umano.
L'occhio è diverso dal cuore ed il fegato è diverso dalle ossa.
Eppure, ogni organo serve.
Lo stesso discorso vale per la società.
Ci sono i politici, gli imprenditori, gli operai, i preti, i contadini, gli insegnanti ed altri.
Ogni categoria ha la sua funzione.
Certo, ognuno deve rispettare l'altro ma la diseguaglianza in sé non è negativa.
Immaginate una società composta da soli politici, da soli operai, da soli preti, da soli contadini, da soli insegnanti o solo da qualsiasi altra categoria, escludendo le altre. 
Una società del genere sarebbe destinata allo sfascio.
Invece, la presenza di più categorie garantisce la sopravvivenza di una società.
Certo, non è escluso che un operaio possa diventare un politico o che un contadino possa diventare un imprenditore ma la presenza di più categorie è la situazione più naturale di una società umana.
Per questo, idee come il comunismo sono sbagliate.
Cordiali saluti. 

venerdì 25 maggio 2012

Jean Madiran, "La destra e la sinistra"

Cari amici ed amiche.

Il sempre acuto Filippo Giorgianni mi ha inoltrato questo brano di Jean Madiran:

«L'uomo di sinistra (che ha naturalmente nel suo partito altrettanti ed ancor più approfittatori e politicanti che il partito avversario) è sinceramente indignato per delle ingiustizie che sono un motivo di indignazione e per altre ancora che non esistono se non nella sua immaginazione; ma bisogna dire che confonde ed imbroglia tutto, confondendo la giustizia e l'uguaglianza: i grandi ed i grossi, in qualsiasi ordine, non possono essere grandi e grossi, lo creda o meno egli lo dice, che per effetto di una ingiustizia. L'indignazione è facile da creare, facile a sviluppare, facile da sfruttare quando si appoggia anche sull'invidia, invidia democratica, che sicuramente preesisteva alla sinistra, e di molto, ma che la sinistra a decorrere dal 1789 ha organizzato ideologicamente, sociologicamente, sistematicamente. Si arriva di conseguenza ad una situazione dell'opinione pubblica conforme alla mitologia di sinistra, dove si crede fermamente che tutti sono di sinistra salvo i privilegiati. Quando questa situazione è raggiunta, o già quando è prevedibile, gli stessi privilegiati si manifestano di sinistra, per non denunziarsi all'opinione pubblica e per stornare verso altri il risentimento e la concupiscenza. […] Tutti sono di sinistra, a cominciare dai privilegiati, che hanno da tempo compreso che è più utile per loro servirsi della sinistra piuttosto che combatterla.»

Mi sembra di leggere un brano di Plinio Correa de Oliveira. 
La sinistra non vuole l'eguaglianza dei diritti ma odia ogni diseguaglianza e ciò è male.
Infatti, ogni uomo è diverso dal proprio prossimo.
Ciò fa parte dell'ordine naturale delle cose.
Ogni è uomo è diverso per cultura, caratteristiche fisiche, sesso, posizioni politiche e quant'altro.
Ora, la sinistra vuole "portare l'eguaglianza generando l'odio".
La sinistra, per esempio, genera odio verso i ricchi, senza tenere conto del fatto che un uomo ricco possa essere diventato tale per meriti suoi.
Oppure, la sinistra odia la meritocrazia, perché essa è fonte di diseguaglianza.
Fondamentalmente, la sinistra ha la "cultura dell'odio".
Quando il presidente Berlusconi dice che la sinistra è "il partito dell'odio", dice una cosa vera.
Ora, nella realtà delle cose, la meritocrazia fa parte della natura.
Ogni uomo ha ambizioni proprie e, quindi, proprie capacità di arrivare a certi obbiettivi.
L'egualitarismo rischia di "castrare" chi può emergere (per capacità proprie) e di non aiutare chi è meno capace a migliorarsi.
Infatti, la sinistra odia chi emerge rispetto la massa ma non si pone il problema di fare in modo che gli altri possano migliorarsi.
Quindi, questa idea non è solo inutile ma è anche dannosa.
Cordiali saluti.


sabato 12 maggio 2012

Alfredo Mantovano, "Ricostruire un contesto sociale 'coriandolare'...", in AA.VV., "A maggior gloria di Dio, anche sociale"

Cari amici ed amiche.

Leggete questo brano che mi è stato segnalato dall'amico Filippo Giorgianni che è intitolato "Alfredo Mantovano, "Ricostruire un contesto sociale "coriandolare"", in AA.VV, "A maggior gloria di Dio anche nel sociale":

«Nel novembre 1996, a pochi mesi dall’avvio dell’esperienza di governo dell’Ulivo, è stato pubblicato un libro dalla casa editrice Il Fenicottero: ha una diffusione e un’eco limitate, ma la lettura delle sue pagine è di non scarso interesse. S’intitola Anti-prince. L’autore è François Sauzey, responsabile dell’ufficio stampa della Trilateral Commission. È un romanzo, e descrive il ritorno nella sua città, dopo anni di lontananza, dello stesso autore e di un certo P-Bee, iniziali di un personaggio reale, appartenente al mondo dell’industria e della finanza italiane: un personaggio che Sauzey piega essergli presentato da David Rockefeller a Washington, durante un meeting della Commissione Trilaterale, e che lo accompagna nel viaggio di rientro [...]. Il tema del libro è la morte dello Stato e l’emergere di una nuova polis, senza confini, nella quale si accede senza documenti, che ha e caratteristiche di un network: tante bandiere, l’una diversa dall’altra, una grande quantità di lingue parlate – con prevalenza dell’inglese – e una marcata incertezza sulla titolarità del potere. Chi comanda nella nuovapolis? Al quesito, che François pone a P-Bee, costui risponde spiegando che “[...] c’è stato un cambio della guardia”. Nella polis riscoperta un luogo inutile è il Parlamento. La stampa “sembra non parlare di nulla”. Dappertutto ci sono banche. Il Principe,che dovrebbe essere il capo della polis, è dipinto come un essere ripugnante e marginale, disteso su un sofà, privo di qualsiasi potere effettivo, a cominciare da quello di emanare le leggi che dovrebbe approvare il Parlamento, dal momento che “[...] ora è Bruxelles ad avere la precedenza sulle nostre leggi”. Il “cambio della guardia” è radicale: l’impresa ha acquisito la centralità che prima, come soggetto istituzionale prevalente, aveva il cittadino; il mercato detta le regole della convivenza quotidiana, sostituendo le norme una volta dettate dalla legge; caduto ogni confine, il mondo, il globo in generale, diventa il territorio naturale e subentra alla vecchia patria; non è più la civiltà la forza più attiva e consistente, bensì le etnie. La vita reale si svolge non nelle istituzioni e nelle sedi delle tradizionali autorità sociali, ma altrove: in borsa, nelle banche, su internet… Come la gran parte della letteratura detta “utopistica”, anche in questo romanzo non è ben definito il confine fra la descrizione di ciò che è già e la proiezione di ciò che non è ancora, ma di cui s’intravedono i segni. Anti-prince è stata però una lettura utile perché ha indicato una linea di tendenza: ai secoli della progressiva ipertrofia dello Stato, al momento della formazione dello Stato moderno, segue da tempo l’altrettanto progressivo, e progressivamente accelerato, scioglimento de più elementari presidi istituzionali. Al “tutto nello Stato, tutto per lo Stato, niente al di fuori dello Stato”, del quale il secolo XIX secolo aveva fatto conoscere la versione centralizzatrice d’impronta liberale, e il secolo XX le varianti nazionalsocialista e socialcomunista, si sostituisce la fuga dallo Stato, senza che vi sia lo sforzo per cercare un punto di equilibrio, che faccia svolgere allo Stato le funzioni che gli spettano, evitando di appropriarsi di compiti non propri, ma anche di rinunciare alle proprie responsabilità. Non che l’impresa, il mercato, la borsa, internet, la globalizzazione, l’integrazione multietnica abbiano, ciascuno in sé considerato, connotazioni negative. Si tratta però di capire se questi elementi devono restare gli esclusivi dominatori della scena pubblica e gli esclusivi regolatori della vita dei singoli, e se invece elementi come società, patria, nazione, Stato, siano ormai fuori dalla realtà; si tratta di capire se la politica ha ancora un senso, o se tutto deve essere dominato da scelte che si spacciano per “tecniche”, imponendo ai Parlamenti e ai popoli europei decisioni adottate in sedi comunitarie prive in modo diretto di mandato rappresentativo, senza un vaglio approfondito delle autorità politiche dei singoli Stati. In una prospettiva tradizionale, lo Stato ha una funzione propria e insostituibile: una funzione naturale, che prescinde dai condizionamenti culturali e storici. Si tratta, in particolare, di uno Stato non accentratore o prevaricatore, bensì autorevole, che rispetta le realtà istituzionali e sociali, in un’ottica di effettiva sussidiarietà, senza abdicare alle proprie funzioni. Uno Stato che non esiste per sé: esiste in relazione al popolo e al territorio, entrambi elementi materiali, cui si affiancava il vincolo giuridico che costituisce l’elemento formale; la nazione, a sua volta, benché spesso sia un termine adoperato indifferentemente rispetto a popolo, si basa su vincoli non giuridici, più profondi e di rilievo morale. Logicamente e cronologicamente non viene prima lo Stato, e quindi il popolo, il territorio, l’ordinamento giuridico, e quei valori comuni nei quali il popolo si riconosce: esistono dapprima questi fattori, e la loro organica composizione integra e legittima la sovranità dello Stato. Questo è tanto più autorevole quanto più è chiara la memoria dell’identità della nazione che esso rappresenta e guida; quanto più sono evidenti le libertà concrete, dei singoli e dei corpi intermedi, che all’interno della nazione si sono sviluppati nel corso dei secoli, e i valori che in quelle libertà hanno trovato compimento; quanto più quelle libertà e quei valori trovano riscontro nell’esperienza storica di altre nazioni, anzitutto nel continente europeo; quanto più valori e libertà trovano composizione con gli interessi economici e finanziari delle singole comunità; quanto più, infine al centro dell’attività delle istituzioni viene posto il bene della persona. Nell’Anti-prince l’esito del “cambio della guardia” è un “nuovo uomo”, espressione di una “nuova soggettività”. Nella parte finale del libro di Sauzey, costui si sorprende quando scopre l’esistenza di “[…] un Uomo che è soltanto l’ombra del precedente. Un uomo della rete, la cui indipendenza è accerchiata da ogni parte. […] Un Uomo che non è più sovrano, non è più neppure ‘uno’. […] un Soggetto polverizzato”. A queste osservazioni P-Bee risponde con franchezza: “[…] Se per Soggetto tu intendi qualche cosa che, anche se lontanamente, assomiglia all’uomo di Cartesio, […]sì, il soggetto si è frantumato – irreparabilmente rotto, temo”. Riecheggia, anche nei termini adoperati, il monito lanciato dallo scrittore russo Aleksandr Solženicyn trent’anni fa, l’8 giugno 1978, quando si presentò l’Università di Harvard davanti a ventimila persone, per la maggior parte studenti, e pronunciò un discorso che gli ascoltatori non compresero, tanto che raccolse più fischi che applausi. Nell’occasione descrisse con poche pennellate la crisi della modernità, che accomuna Est e Ovest, e ne identificò i caratteri. Dopo aver parlato del “bazar del Partito” a Est – si era ancora un decennio prima della caduta del Muro di Berlino, avvenuto nel 1989 – e della “fiera del commercio”, a Occidente, disse: “quello che fa paura, della crisi attuale, non è neanche il fatto della spaccatura del mondo, quanto che i frantumi più importanti siano colti da un’analoga malattia”. Adoperò proprio quell’espressione, all’inizio dell’esposizione, riassuntiva della condizione umana di oggi: parlò di “un mondo in frantumi”, e cioè di spaccatura profonde, non tanto o non solo di natura politica, o fra blocchi contrapposti, ma “[…] di crepe più profonde, più larghe e più numerose di quanto non appaia al primo sguardo”. Aggiunse che “[…] questa frantumazione profonda e multiforme è gravida per tutti noi di vari rischi mortali”, dal momento che “[…] qualsiasi regno diviso contro sé stesso – oggi la nostra Terra – è destinato a morire”. Qualche anno dopo, nel 1984, la medesima espressione – “mondo frantumato” – si incontra in uno dei più importanti documenti del magistero di Papa Giovanni Paolo II: l’esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia. E la si è ritrovata altre volte nel magistero pontificio, per descrivere la situazione di disorientamento esistenziale, prima ancora che sociale e politico, che grava sull’uomo di fine e d’inizio millennio. Questa espressione appare oggi ancora più puntuale rispetto a trent’anni fa. La si ritrova nel 41° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese, l’ultimo redatto a cura del CENSIS – il Centro Studi Investimenti Sociali, presieduto dal prof. Giuseppe De Rita – che descrive il contesto sociale italiano come “una realtà ambigua, senza rilievi e contorni di tipo sociologico e politico, piattamente de-totalizzata, e quindi sfuggente a ogni schema e sforzo interpretativo. Una realtà che diventa ogni giorno una poltiglia di massa; impastata di pulsioni, emozioni, esperienze e, di conseguenza, particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa”. Prosegue il rapporto: “Al termine poltiglia di massa si può […] sostituire il termine più espressivo di ‘mucillagine’, quasi un insieme inconcludente di ‘elementi individuali e di ritagli personali’ tenuti insieme da un sociale di bassa lega, e senza alcuna funzione di coesione da parte delle istituzioni. […] la frammentazione progressiva di tutte le forme di coesione e appartenenza collettiva ha creato una molecolarità che […] sta creando dei ‘coriandoli’, i quali stanno insieme (meglio sarebbe dire ‘accanto’) per pura inerzia, per appagato imborghesimento, per paura di tornare indietro, magari mitridatizzata da una sempre più generalizzata volgarità plebea. La caratteristica fondamentale dei ‘ritagli umani’ senza identità è la dispersione del sé, nello spazio e nel tempo collettivo. Nello spazio, per la vittoria irresistibile della soggettività esasperante in ogni comportamento, senza attenzione al momento della relazione e della convivenza. Nel tempo, per il declino irresistibile dell’attenzione su un tema, un problema, un fenomeno […]. Con i ritagli non si costruisce un tessuto sociale: così abbiamo, sul piano individuale, bolle di aspirazioni senza scopo e senza mordente e, sul piano sociale, deboli connessioni, smorte forme di aggregazione e inanimati simulacri dei processi di coesione che furono”. Di fronte a questa realtà sociologica non si può pretendere dalla politica il recupero di un’organicità che è perduta da decenni, ma si può esigere che individui nella frantumazione di un quadro una volta coerente la causa di una crisi molto più profonda di tante analisi di superficie. Potrebbe costituire un utile esercizio, per chi abbia voglia di farlo, percorrere a ritroso il cammino della modernità, per identificare in esso le ragioni reali delle spaccature e delle frammentazioni. Nel mondo politico è indispensabile interrogarsi su quale sia la parte da recitare per rispondere, nei limiti delle proprie competenze, alle necessità e ai disagi di un corpo sociale che ha le caratteristiche appena descritte. […] L’eliminazione dello Stato, in questo quadro, “lo Stato in fase calante” – per riprendere l’espressione di Sauzey –, la sua riduzione ai minimi termini è funzionale alla frantumazione dell’uomo, alla scomposizione dell’integralità del suo essere, all’allontanamento dell’uomo da un tipo definito dalla natura invece che dai laboratori. “Non lo troverai certo – spiega P-Bee nell’Anti-prince –, con una matita in mano, nella tranquillità del suo studio, a cercare di scoprire chi è. No! Questo no! Del nostro nuovo Uomo, potremmo dire che è un satellite capace di fargli scoprire sé stesso, che gli mostra chiaramente la sostanza di quello che egli è veramente. In questo senso, in quanto nuovo Soggetto, egli […] non è più autonomo, non è più sovrano; non è più veramente ‘il tutto’, ma soltanto una parte del tutto. […] egli non è più un soggetto personale!”. Dunque, non è lo Stato l’obiettivo finale, il nemico da abbattere, di un percorso storico e culturale plurisecolare. Ovvero, lo è in quanto oggi è, in qualche misura, strumento di difesa dell’integrità della persona. L’obiettivo che compare al centro del mirino di un processo intellettuale, prima che politico, è la persona come corrispondente a una natura data; obiettivi secondari, la cui disgregazione è volta al perseguimento dell’obiettivo principale, sono le comunità nelle quali la persona nasce, cresce e viene educata, in primis la famiglia. Si ricava qualche esempio illuminante dall’azione politica mirata alla disgregazione della famiglia e alla frantumazione dell’identità naturale della persona dagli atti della XV Legislatura, durata – grazie a Dio – appena due anni, dal 28 aprile 2006 al 28 aprile 2008: mai come in tale periodo vi è stata una così intensa concentrazione di attacchi alla vita e alla comunità familiare. In ogni legislatura dell’Italia repubblicana, a partire dagli anni 1970, sono stati depositati progetti legislativi eversivi su questi fronti, ma in quel biennio si è concretizzato lo sforzo per tradurli in norme di legge, su iniziativa parlamentare, ma soprattutto su impulso del governo presieduto dall’on. Romano Prodi. Per una serie di ragioni, legate non soltanto alla contingenza politica: la necessità della parte più a sinistra dello schieramento di Centrosinistra, la cosiddetta “sinistra radicale”, di dimostrare all’elettorato di riferimento di potere conseguire risultati ritenuti qualificanti fin dal periodo del 1968; la corrispondente esigenza delle altre componenti dello schieramento di Centrosinistra di cedere su questi fronti alla “sinistra radicale” per non perdere l’appoggio di essa a provvedimenti di natura economica e finanziaria penalizzanti per le fasce sociali in condizioni di maggiore disagio; la linea di continuità, anche personale, di alcuni esponenti della “sinistra radicale” con le rivendicazioni emerse negli anni che ruotano attorno al 1968: taluni animatori, e soprattutto talune animatrici, delle occupazioni universitarie e delle “comuni”, e perfino qualche ex terrorista, si sono ritrovati a distanza di qualche decennio sui banchi del Parlamento nazionale, affiancati da qualche loro più giovane epigono, espressione delle aree dell’antagonismo e dei centri sociali; la sponda offerta da personaggi eletti nelle file dell’Ulivo come “cattolici democratici”, convinti, non solo per mera opportunità, che in fondo non esistano principi non soggetti a negoziazione, e che il richiamo al diritto naturale sia una forma di deviazione ideologica. […] Basti pensare, con riferimento alla famiglia, al disegno di legge del governo teso a introdurre i cosiddetti “diritti delle persone conviventi”, cioè il riconoscimento pubblico delle unioni civili, e in particolare delle unioni omosessuali, al disegno legge della maggioranza di Centrosinistra di cambiare le norme sul doppio cognome, allo sforzo dell’Esecutivo di far passare – con voto di fiducia! – una disposizione tesa a esprimere la cosiddetta omofobia, in realtà lesiva di un’impostazione pedagogica rispettosa del diritto naturale in materia di omosessualità. A proposito dell’integrità della vita, vanno ricordate: le disposizioni nei fatti favorevoli all’eutanasia promosse dal professor Ignazio Marino, nella XV Legislatura presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato; l’iniziativa del ministro dell’Università e della Ricerca on. Fabio Mussi, il 30 maggio 2006, a margine del Consiglio dell’Unione europea sulla competitività, di ritirare in rappresentanza dell’Italia il sostegno che in precedenza il nostro Paese aveva dato alla “dichiarazione etica”, riguardante la ricerca sulle cellule staminali: un’iniziativa che ha permesso di finanziare con denaro pubblico la ricerca distruttiva degli embrioni viventi; il decreto ministeriale con il quale il ministro della Salute sen. Livia Turco, a Legislatura conclusa, negli ultimi giorni di vita del Governo Prodi, ha modificato le linee guida della legge sulla fecondazione artificiale, introducendo la possibilità della diagnosi pre-impianto, cioè di fatto della selezione del concepito; il decreto ministeriale con il quale nell’agosto 2006 lo stesso ministro ha raddoppiato il quantitativo di principio attivo dei derivati della cannabis, che segna la linea di confine tra la sanzionabilità per via amministrativa e quella per via penale della detenzione di sostanze stupefacenti; la decisione di più assessori regionali alla Sanità di introdurre nel sistema sanitario di propria competenza la RU 486, cioè la pillola abortiva. È possibile identificare una trama unitaria in questo impegno teso a colpire l’uomo, nella sua integrità e nella sua dimensione sociale? È difficile dare una risposta sintetica e chiara: nel corso degli ultimi cinque secoli, il percorso di fronte al quale ci si trova ha dapprima sottratto all’uomo, e in particolare all’uomo occidentale e cristiano, le difese delle quali si era dotato, in virtù dell’inserimento in una comunità di fede, in una comunità politica, in una comunità di lavoro e territoriale, lasciandolo solo di fronte allo Stato onnipervasivo; quindi lo ha aggredito direttamente, puntando a disarticolare quelle strutture statali, o comunque istituzionali, ancora sopravviventi e in grado di condizionare positivamente l’uomo a divenire ciò che è. Scrive Antonio Gramsci (1891-1937), nei Quaderni dal carcere, che il materialismo – dialettico e storico – “[…]presuppone tutto questo passato culturale, […] la Riforma, […] la Rivoluzione francese, […] il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita”. Il materialismo è “[…] coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale” e corrisponde “[…] al nesso Riforma protestante + Rivoluzione francese”. Per Gramsci vi è una connessione strutturale fra queste tappe; non è possibile immaginarne una senza le precedenti; le prime si perpetuano “generando” necessariamente le successive, per una meccanica interna al processo. Questo percorso, nelle sue diverse manifestazioni, si appoggia sopra un sostrato comune: la convinzione ideologica secondo la quale il mondo è stato fatto male; così com’è non può andare, va cambiato in radice, nei suoi elementi strutturali. Non tutti però possono dare un contributo sostanziale nella direzione del cambiamento: ciò compete a cerchie ristrette di persone, alle avanguardie della Rivoluzione, dai capi giacobini ai dirigenti del Partito comunista; costoro, ponendosi alla guida del mutamento e valendosi di particolari tecniche – di natura politica e non –, sono i soli in grado di ribaltare la situazione e di condurre a un mondo finalmente e materialmente redento dai limiti naturali che ancora lo affliggono. Che cosa accade però se il processo unitario richiamato da Gramsci finisce in un vicolo cieco, se, cioè, la costruzione innalzata a costo di tanti sacrifici alla fine implode e dal lungo travaglio del parto nasce un morto? L’esito, emblematizzato dalle pietre che rotolano dal Muro in disfacimento, si ripercuote necessariamente sull’intero processo, con una sorta di effetto domino, per la connessione che salda ogni tassello con il precedente. Il crollo del Muro pone in crisi nel suo insieme l’itinerario descritto con lucidità dal fondatore del PCI. “Il crollo del comunismo – si legge nella dichiarazione dell’Assemblea Speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, del dicembre 1991 – mette in questione l’intero itinerario culturale e socio-politico dell’umanesimo europeo, segnato dall’ateismo non solo nel suo esito marxista”. L’implosione dei regimi totalitari dei regimi totalitari dell’Europa centrale e orientale è la certificazione storica della falsità della tesi di fondo del processo rivoluzionario sfociato nel comunismo. La logica imporrebbe di risalire indietro, fino a ritrovare il punto a partire dal quale si è sbagliato strada: per cogliere quei presupposti remoti, culturali e politici, che hanno condotto senza soluzione di continuità all’universo dei gulag. Questo finora non è stato fatto, o è stato fatto in modo incompleto e parziale: la nuvola di polvere sollevata dallo sbriciolamento del Muro e, un paio d’anni dopo, la rimozione della bandiera rossa dalla sommità del Cremlino non sono bastate a smuovere dalle fondamenta l’impalcatura ideologica di cui il Cremlino è stato soltanto uno degli emblemi. Nel frattempo, ha preso corpo la galassia dei movimenti antagonisti e no-global, manifestazione anche fisica della frantumazione e del rifiuto del pensiero e dell’azione all’insegna della razionalità: una sorta di aggregazione sui generis, fondata sull’a-socialità dei comportamenti di chi ne fa parte. L’arretramento ideologico di larga parte della Sinistra ha permesso ad alcune frange di essa di attestarsi alla fase antecedente, col rinvio, esplicito o implicito, al trinomio rivoluzionario del 1789, pur se variamente declinato e attualizzato. Una parte della Sinistra arretra di una tappa, che peraltro reca in sé per intero i germi – e non solo i germi – del social comunismo sconfessato: non c’è poi tanta distanza fra égalité giacobina e il livellamento sociale realizzato sotto il simbolo della falce e del martello; o fra la ghigliottina, uguale per tutti, e l’universo dei gulag, egualmente massificante. L’arretramento tattico consente di evitare l’abiura della struttura profonda del processo rivoluzionario, quel comune denominatore appena descritto. Va aggiunto però che se, nella sostanza e oltre i distinguo, a Sinistra, soprattutto in Italia, non ci si è allontanati dal comune denominatore che è stato l’humus – tra l’altro – del comunismo, non sempre nel Centrodestra si è colta fino in fondo la lezione del crollo del Muro: in un passato anche recente ci si è spesso limitati a un’analisi schiacciata fra i poli dialettici comunismo/anticomunismo, senza cogliere il processo rivoluzionario nella sua dinamica e nel suo fondamento. È ben vero che l’analisi critica del processo posto in forse dai fatti del 1989 non è semplice né agevole; ma è altrettanto vero che, se essa non può essere compiuta in via principale dal ceto politico, non può essere ignorata dallo stesso. Anche perché l non comprensione del carattere strutturale della crisi – il “mondo in frantumi” – si traduce in non comprensione del corollario della dinamica della crisi medesima, che conduce all’esilio della politica. Nel Centrodestra non mancano i fattori inquinanti, la cui presenza non meraviglia e non deve provocare scandalo: il sistema bipolare, ormai avviato a consolidarsi come bipartitico, impone forze politiche di dimensioni ampie, che finiscono con il costituire megacontenitori, e il contesto culturale è ancora più variegato. L’importante è esserne consapevoli, e lavorare perché nel contenitore non manchino le idee e i principi: i quali vanno salvati dalle onde del libertarismo e del filo anarchismo, dai residui sessantottini, e perfino dal rammarico – che talora affiora in alcuni esponenti, anche autorevoli, del Centrodestra – di non essere stati parte attiva ai fatti significativi del 1968; un rammarico fondato su un’impropria mitizzazione di quel momento storico. Detto questo, non è detto tutto. Il politico non può limitarsi a un’analisi, ma deve far seguire una terapia. E la terapia è tenuta a considerare anzitutto il contesto nel quale viviamo. Della difficoltà di tentare il governo di una realtà che ha le caratteristiche descritte dal 41° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese del CENSIS il Centrodestra sembra conscio […]. È evidente che la politica non ha la chiave per soluzioni esclusive o per chiare inversioni di rotte: la rinuncia a mettere al mondo figli, che è uno dei segni più drammatici della frammentazione del corpo sociale e del suo ridursi a poltiglia, non può essere contrastata soltanto con i decreti e con le leggi. E tuttavia, si può immaginare una correzione di rotta in tempi lunghi e con decisioni dal respiro strategico, che partano, per esempio, dalla revisione del rapporto tra fisco e famiglia, in vista di una correzione del costume e dei comportamenti. […] È necessario, una volta acquisito il consenso, “fare” in positivo per recuperare al corpo sociale elementi essenziali di sana struttura. La sfida per una politica che aspiri a essere degna del suo mandato è quella di riempire lo spazio fra il “già” e il “non ancora” descritti dall’Anti-prince, e cioè di ritrovare un ruolo, circoscritto ma autonomo e non subordinato; ma essa deve convincersi che la non subordinazione a poteri privi del mandato rappresentativo e di consenso diffuso è legata alla subordinazione a un quadro di principi non oggetto di transazione. Primo fra tutti, la centralità dell’uomo. Partire dalla persona, e dal riconoscimento e dalla tutela dei suoi diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita, rappresenta non un mero dato cronologico, ma una precisa scelta di adesione alla realtà. Proseguire con la tutela e con la ricostruzione di elementi normativi e di fiscalità più favorevoli alla formazione, alla crescita e alla conservazione del nucleo famigliare non risolverà le crisi concrete di tutte le famiglie, ma in prospettiva sarà in grado di limitare i problemi materiali di una parte di esse. Dalla “mucillagine”, lo ripeto, si esce facendo perno sull’uomo e sulla famiglia.».

Questo brano fa il paio con quest'altro, che mi è stato segnalato sempre da Giorgianni. Esso è stato scritto da Simona Colarizi,  è intitolato "Il finanziamento pubblico, la partitocrazia, la mistica della...", in 'Italianieuropei' n. 5/2012, pag. 19" e recita:

«La mistica della “società civile sana” contrapposta alla partitocrazia afflitta dal male della corruzione offre a tutti gli italiani l’illusione di una verginità nei comportamenti civili contro l’evidenza di un paese dove senso civico e rispetto della legalità non sono pratiche poi così diffuse.»

Io penso che questa volta Filippo Giorgianni si sia superato. 
Questo ragazzo di Barcellona Pozzo di Gotto (in Provincia di Messina) ha cultura e passione.
Va valorizzato. 
Qui in Italia, ci sono tanti giovani come lui e non vengono valorizzati. Ciò è uno scempio.
Ora, entro nel merito dei testi qui riportati.
Come ho già detto in precedenza, l'antipolitica ha due volti, il populismo qualunquista e gnostico (come quello del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo o la sinistra estrema di Nichi Vendola e  Paolo Ferrero) e la tecnocrazia, come il governo Monti
Chi dice che Beppe Grillo sia l'anti-Monti, dice una grossa sciocchezza. 
Beppe Grillo, infatti, è il vero alleato di Monti, forse più dei vari Pierferdinando Casini e soci.
Ragionate, Grillo delegittima la politica, esaltandone i vizi che (per carità di Dio) ci sono.
I moderati, vedendo che il populismo sta prendendo piede, si rifugiano nella tecnocrazia.
Si sta verificando quanto scritto da Plinio Correa de Oliveira sul suo libro "Rivoluzione e Controrivoluzione":  

"4. Le velocità della Rivoluzione
Questo processo rivoluzionario si manifesta con due diverse velocità. L'una, rapida, è generalmente
destinata al fallimento sul piano immediato. L'altra è stata abitualmente coronata da successo, ed è molto più lenta.
A. L'alta velocitàI movimenti pre-comunisti degli anabattisti, per esempio, trassero immediatamente, in diversi
campi, tutte o quasi tutte le conseguenze dello spirito e delle tendenze della Pseudo-Riforma.
Fallirono.
B. La marcia lenta
Lentamente, nel corso di più di quattro secoli, le correnti più moderate del protestantesimo,
avanzando di eccesso in eccesso, per tappe successive di dinamismo e di inerzia, vanno tuttavia
favorendo gradatamente, in un modo o nell'altro, la marcia dell'Occidente verso lo stesso punto
estremo (vedi parte II, cap. VIII, 2).
C. Come si armonizzano queste velocità
È necessario studiare la parte di ciascuna di queste velocità nella marcia della Rivoluzione. Si
direbbe che i movimenti più veloci siano inutili. Ma non è vero. L'esplosione di questi estremismi
alza una bandiera, crea un punto di attrazione fisso che affascina per il suo stesso radicalismo i
moderati, e verso cui questi cominciano lentamente a incamminarsi. Così, il socialismo respinge il  comunismo, ma lo ammira in silenzio e tende a esso. Ancora prima nel tempo si potrebbe dire lo stesso a proposito del comunista Babeuf e dei suoi seguaci negli ultimi bagliori della Rivoluzione
francese. Furono schiacciati. Ma lentamente la società sta percorrendo la via sulla quale essi
avevano voluto portarla. Il fallimento degli estremisti è, dunque, soltanto apparente. Essi danno il loro contributo indirettamente, ma potentemente, alla Rivoluzione, attirando lentamente verso la realizzazione dei loro colpevoli ed esasperati vaneggiamenti la moltitudine innumerevole dei
"prudenti", dei "moderati" e dei mediocri.".

Gli estremisti di Beppe Grillo, di fatto, hanno spinto i moderati verso la tecnocrazia, che così ha avuto buon gioco nel fare cadere il presidente Berlusconi, un presidente che governava legittimamente, e mettere al suo posto Mario Monti.
Possiamo dire che Beppe Grillo e Mario Monti siano come Maximilien de Robespierre e Napoleone Bonaparte.
Se l'uno non avesse innescato la Rivoluzione Francese, l'altro non avrebbe preso il potere. 
La dimostrazione sta proprio nel fatto che Grillo si limiti a protestare, senza proporre nulla di realmente alternativo. 
Ad esempio, egli dice no ai termovalorizzatori, alla TAV Lione-Torino o alle centrali nucleari ma non propone nulla che sia alternativo. 
La gente, che è stremata dalla crisi economica (una crisi inventata dai tecnocrati), si rifugia nel voto di protesta rappresentato da Beppe Grillo.
Questi mette i ricchi contro i poveri, gli imprenditori contro gli operai ed i giovani contro i vecchi, creando la disgregazione sociale (di cui parla Mantovano).
I moderati si rifugiano così in Mario Monti, che viene visto come "il salvatore delle istituzioni".
In realtà, le tensioni sociali vengono aggravate.
I tecnocrati fanno il bello ed il cattivo tempo, tassando a destra e a manca e rendendo i cittadini completamente dipendenti dalle banche.
Beppe Grillo ed i suoi continuano ad aizzare la gente contro la politica.
Se dovesse sparire Beppe Grillo, Mario Monti lo seguirebbe, e vale anche il contrario.
Monti, Grillo, i comunisti e tutti gli estremisti sono il prodotto della cultura rivoluzionaria.
Io penso che la politica debba riprendersi il suo posto, cambiando atteggiamento.
I politici devono incominciare a parlare di più con i cittadini e capirne i problemi.
Devono anche dare l'impulso alle riforme che servono, oltre ad altre politiche importanti, come le politiche infrastrutturali.
Inoltre, la politica deve valorizzare i giovani.
Se farà così, questo "circolo vizioso" sarà destinato a spezzarsi.
In caso contrario, la situazione sarà destinato a peggiorare.
Cordiali saluti. 



 

lunedì 26 marzo 2012

Tom Wolfe, "Radical Chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto"

Cari amici ed amiche.
L'amico Filippo Giorgianni mi ha fatto avere su Facebook il seguente brano di Tom Wolfe:

«In effetti, questa specie di nostalgie de la boue, o romanticizzazione degli animi primitivi, è stata una delle cose che ha portato il Radical Chic in primo piano nella Società newyorkese. Nostalgie de la boueè un’espressione francese del secolo XIX che, alla lettera, significa ‘nostalgia del fango’. […] Nostalgie de la boue diventa il tema preferito ogni volta che un mucchio di facce nuove e un mucchio di soldi nuovi fanno il loro ingresso in Società. I nuovi arrivati hanno sempre avuto due modi per dimostrare la propria superiorità sull’odiata borghesia. Possono far propri gli sfarzi dell’aristocrazia, tipo sontuose architetture, domestici, palchi a teatro, e un rigido protocollo. Oppure possono concedersi l’ebbrezza della Sinistra di far proprio quello che è lo stile delle classi sociali inferiori. I due modi non si escludono a vicenda, e in effetti vengono sempre adottati in coppia. In Inghilterra, durante la Reggenza, lanostalgie de la boue fece furore. […] La prima regola è che la nostalgie de la boue – lo stile romantico e rudemente vitale dei primitivi che abitano nelle case popolari, per esempio – è bella, e che la borghesia, nera o bianca che sia, è brutta. Diventa così inevitabile che il Radical Chic prediliga chi ha l’aria primitiva, esotica e romantica, tipo i raccoglitori d’uva, che oltre al fatto che sono radicali e “vengono dalla Terra” sono anche latini, o le Panthers, con le loro giacche di pelle, le acconciature afro, gli occhiali da sole e le sparatorie, o i Pellerossa, che, logicamente, hanno sempre avuto un’aria primitiva, esotica e romantica. Quantomeno all’inizio, tutti e tre i gruppi avevano un’altra qualità che li avvantaggiava: stavano tutti a tremila miglia di distanza dall’East Side di Manhattan, in posti tipo Delano (i raccoglitori d’uva), Oakland (le Panthers) e l’Arizona e il New Mexico (i Pellerossa). Non c’erano molte probabilità che ce li ritrovassimo troppo… come dire, tra i piedi. Esotici, romantici, lontani...».

Prima di tutto, faccio i miei complimenti a Giorgianni. Mi dà sempre degli spunti interessanti.
In effetti, questo brano porta in sé tante verità.
Molto spesso si parla di "Radical Chic", di coloro che si dicono con il popolo ma che poi stanno nei "salotti buoni", mangiando caviale e bevendo champagne.
Essi sono coloro che dicono agli altri che si debba cambiare e si fanno propugnatori delle rivoluzioni, rivoluzioni il cui "lavoro sporco", secondo il loro modo di pensare, deve essere fatto dagli altri.
In realtà, il "Radical Chic" è un misantropo.
Egli si dice a "favore del povero" e con gli altri.
In realtà, egli si crede superiore agli altri e li bolla come "ignoranti", "stupidi" e quant'altro.
Questo è il pensiero, ad esempio, della sinistra italiana.
Questo è il nuovo farisaismo, il più grosso inganno in cui può cadere l'umanità.
Cordiali saluti.




venerdì 16 marzo 2012

Il suicidio dell'Europa-commento all'articolo de "La Bussola Quotidiana"

Cari amici ed amiche.

Leggete l'articolo su "La Bussola Quotidiana" che è intitolato "Il suicidio dell'Europa", seguendo il link


Io concordo sul fatto che le ultime discutibili decisioni prese dalle istituzioni europee (come quella di equiparare le unioni gay alla famiglia) siano gravemente lesive.

Infatti, com'è noto, la famiglia è la cellula della società.

Ora, equiparare le coppie gay alle famiglie porta alla distruzione del tessuto sociale.

Esso si basa sulla persona e la persona si forma principalmente nella famiglia.

Equiparando le coppie gay alle famiglie, significa non dare un vero riferimento ai giovani e, di fatto, distruggere la famiglia.

Distruggere la famiglia significa mettere gravemente in pericolo la società.
In realtà, la questione riguardo alla coppie gay è più una decisione politica atta a favorire un certo modello di società che la storia ha già bocciato.
Mi viene in mente la società comunista, che voleva distruggere la famiglia, secondo la dottrina di Karl Marx e Fredrich Engels.
L'Europa sta correndo un grave rischio.

Cordiali saluti.

martedì 13 marzo 2012

Marcel de Corte, "Una definizione della Destra", in 'la Destra. Rivista internazionale..." n. 1/1972, pagg. 4-8

Cari amici ed amiche.

Su Facebook, l'amico Filippo Giorgianni mi ha fatto trovare questa nota:

«L’uomo di Destra è l’uomo che accetta la condizione umana. Correlativamente, chiunque non accetti la condizione umana non è di Destra, anche se si dice o lo si dice di Destra. È chiaro. È netto. È tutto, e potremmo fermarci qui, se la mente dei nostri contemporanei non fosse imbottita di miti e di pregiudizi, se il pensiero moderno potesse ancora vedere la realtà alle quali il linguaggio rinvia. Accettare la condizione umana, significa ammettere la duplice e unica limitazione della nascita e della morte, con tutto ciò che comporta, né più né meno. Questo consenso non è né l’atto della vita inconscia né quello dello spirito cosciente: nell’uomo, la vita senza lo spirito non è la vita, ma il suo rottame, e lo spirito senza la vita non è lo spirito, ma la sua caricatura. Ciò che è proprio dell’uomo maturo è l’accettazione totale della vita e della morte. Egli non le sceglie. Nascita e scomparsa si pongono per lui al di là della sua libertà. Se è lucido, contempla, con un sorriso beffardo, le contorsioni degli esistenzialisti che pretendono “farsi da loro stessi”, in una specie d’incesto da cui un Aristofane potrebbe trarre, se scrivesse delle nuove Nuvole, i suoi più sicuri effetti scenici. Quanto alla morte, l’essere umano la può scegliere soltanto apparentemente. Anche riflettendo poco, il suicidio non è un atto che emanerebbe dall’uomo in cui lo spirito e la vita fanno una cosa sola, ma dall’uomo che non è già più uomo, che ha già rotto i ponti con la vita, che si è fatto puro spirito e che, troncando con la condizione umana, non esercita più la sua libertà di uomo. Acconsentire alla nascita, significa molto semplicemente acconsentire all’irrevocabile relazione che ci unisce a una determinata famiglia, a un determinato ambiente, a una determinata civiltà. Questo è un dono ricevuto in deposito che possiamo accettare, rifiutare, sprecare, dissipare. L’uomo di Destra lo investe e lo fa fruttare nel profondo dell’anima sua. Se ne sente radicalmente responsabile e tanto più in quanto si sente incaricato di trasmetterlo con la stessa liberalità usata nel riceverlo. È la sola ricchezza totale che possa tenere per tale e che è così incorporata al suo essere totale che si confonde con lui e egli stesso con tutti coloro che l’hanno ricevuta in retaggio. In questo caso, l’uomo di Destra è infinitamente più socialista e comunista di qualsiasi seguace di Marx, infinitamente più ricco di tutti i banchieri e i grossi industriali del mondo. Sottrarsi agli imperativi della nascita è il segno infallibile della mentalità di Sinistra, come della plutocrazia che le è intimamente collegata, perché ciò che è proprio della ricchezza in valori monetabili è sostituire l’avere all’essere, in quanto indice del Sacro. […] L’uomo di Sinistra, come il finanziere puro, esclude dal suo campo visivo tutti i valori gratuiti legati alla nascita e tiene in considerazione soltanto quei valori convertibili in cifre e in statistiche. Per questo la Finanza è quasi sempre complice del socialismo che aborre in apparenza. Tutta la sua storia, nel corso di questi ultimi due secoli, è quella delle sue opposizioni e delle sue concessioni coniugate al socialismo. Essa ricerca ostinatamente un terreno d’intesa con esso perché ha la sua stessa struttura. […] L’uomo di Destra è incapace di entrare in questa dialettica quantitativa. I valori della nascita, che gli sono cari, sono per lui valori ontologici che fanno parte del suo essere. Invitarlo a metterli sullo stesso piano dei valori economici, significa spingerlo a trasformarsi in uomo di sinistra, e negare se stesso. Non più di qualunque essere umano, egli disprezza i valori economici. Ma, per lui, essi sono strettamente e rigorosamente subordinati ai valori della nascita, della famiglia, della patria, della cultura e della civiltà, da cui il suo essere non si separa mai. Ciò vuol dire che l’uomo di Destra trova estreme difficoltà vivendo nel mondo attuale lasciato in balìa del primato economico. È bene che egli le subisca. Si effettua allora una scelta tra gli autentici uomini di destra e gli altri che fanno finta o sono persuasi di essere tali. L’enorme confusione che colpisce attualmente la Destra politica e sociale, le divisioni che la dilaniano derivano dal vaglio che si sta compiendo sotto i nostri occhi laboriosamente, ma necessariamente. […] L’uomo di Destra, oggi, non ha più che una sola scelta possibile: o trasmettere ai suoi discendenti un’eredità intatta di cui avrà illuminato la sostanza, trionfando così della morte, o iscriversi al partito dei suoi carnefici, “passare ai Barbari”. Questa presa di coscienza della condizione umana e del dono gratuito che essa presuppone può condurre soltanto a Dio, alla Divinità che veglia in defettibilmente sulla Casa, sulla Patria e su questa Civiltà che suo Figlio ha eletto come luogo di nascita. Armato in questo, l’uomo di Destra può resistere, invincibile, a tutti gli assalti di una Barbarie che finirà per distruggere se stessa. […]. È dunque il senso nudo, liberato da ogni mitologia, il senso mistico e sacro, spogliato da ogni accidente, ridotto alla sua sostanza purissima, che egli deve ormai riconoscere alla Casa, alla Patria, alla Civiltà, alla Tradizione. Il grande albero sotto il quale si riparavano i suoi padri è stato abbattuto dai Barbari. Ma lui, l’uomo di Destra, ne conserva il seme prezioso, imperituro. Non c’è altro modo d’integrare il passato e l’avvenire che la presenza di questo piccolissimo germe che li contiene. […] ecco ciò che d’ora in avanti è richiesto all’uomo di Destra. In una parola: non sembrare, ma essere. Non tollerare attorno a sé, né soprattutto in sé alcuna apparenza, alcuna chimera, alcuna utopia, alcun miraggio. Dissipare tutte le suggestioni del mondo artificiale che ci circonda. […] Recuperando la propria realtà, la propria pura condizione umana, l’uomo recupera il vincolo nuziale che lo unisce costitutivamente all’universo reale: nella misura, nella sola misura in cui saremo uomini reali, potremo percepire e comprendere la realtà accessibile all’uomo. Ciò è di un’evidenza solare: per raggiungere l’altro, è necessario essere se stessi. […] Odio, da parte mia, quei sedicenti uomini di Destra che si vergognano di esserlo. L’autentico uomo di Destra è colui che ripugna a quella “Destra”, la cui caratteristica principale è di cedere a tutte le pressioni sociali del rispetto umano, della paura, della moda e del conformismo. L’uomo di Destra è l’uomo che affronta, che capisce le umili realtà della Nascita malgrado tutti i sarcasmi della plebe e delle “élites”, che traccia il suo solco, dritto davanti a sé. È l’uomo del progresso umano, perché è l’uomo della realtà umana, della sua definizione d’uomo. Gli altri? Dalla Sinistra a questa Destra, dei retrogradi.»

Voglio commentare questa nota in modo pratico, da uomo di destra quale sono.
Lo voglio fare, facendo un introduzione storica sul rapporto tra destra e cattolicesimo.
Tra il XVII ed il XVIII secolo, nacquero in Inghilterra due partiti politici, i Wighs ed i Tories.
I Wighs erano i progressisti ed erano legati al Parlamento e al presbiterianesimo.
I Tories, invece, erano i conservatori ed erano legati al re e all'anglo-cattolicesimo.
Questi ultimi erano inclini a simpatizzare con i cattolici.
Ora, i Wighs e i Tories furono il "prototipi" della sinistra e della destra.
Da tutto ciò si evince che un cattolico che si voglia impegnare in politica possa stare solamente a destra.
L'uomo destra, infatti, come dice la nota, è l'uomo che accetta la sua condizione umana, con tutti i punti di forza e quelli di debolezza.
Il cattolicesimo insegna la stessa cosa.
Infatti, come il cattolicesimo, l'identità di destra non è rivoluzionaria poiché la rivoluzione è un rifiuto della propria condizione.
Sapete chi fu colui che tentò di fare una rivoluzione nella notte dei tempi?
Il prototipo del rivoluzionario fu Lucifero, l'angelo che si ribellò a Dio.
Ora, il peccato di Lucifero fu la non accettazione della propria condizione.
L'uomo di destra, quindi, non rifiuta la propria condizione, pur cercando di migliorarla.
Essere di destra, quindi, deve essere qualcosa di cui andare e non di cui doversi vergognare.
Qualcuno al giorno d'oggi impari.
Cordiali saluti.

Translate

Continuiamo insieme per Roncoferraro

Ieri sono stato alla convention della lista Continuiamo insieme per Roncoferraro , la lista che sostiene l'attuale sindaco di Roncoferr...