Cari amici ed amiche.
Voglio portare alla vostra attenzione questa nota scritta dall'amico Angelo Fazio su Facebook, che è intitolata “Quella storia è finita. È finita una volta per tutte, qui non succederà più” e che recita:
"Confusi, impoveriti, banditi e spaventati dalla Rivoluzione d'ottobre, dalla guerra civile e dal potere rosso, gli scrittori ebrei di Odessa e gli attivisti sionisti si dispersero in ogni dove. Lo zio Yosef e la zia Zipporah, insieme a molti loro amici, immigrarono in terra d'Israele alla fine del 1919 a bordo della nave Ruslan, approdata al porto di Giaffa con la terza ondata migratoria. Altri fuggirono da Odessa verso Berlino, Losanna e l'America.
Nonno Alexander e nonna Shlomit, insieme ai loro due figli, invece, non andarono in terra d'Israele - malgrado l'ardore che rimbombava nelle poesie russe del nonno, quel paese gli sembrava ancora un po' troppo esotico, selvaggio arretrato. privo di un'igiene ancorché minima oltre che dei più rudimentali fondamenti di cultura. Così si diressero verso la Lituania. che i Klausner - cioè i genitori del nonno, dello zio Yosef e dello zio Bezalel - avevano lasciato più di venticinque anni prima. Vilna era a quell'epoca sotto il dominio della Polonia e l'antisemitismo violento, sadico, congenito da quelle parti. andav a crescendo in quegli anni sempre più: in Polonia e in Lituania il nazionalismo e l’odio per gli stranieri erano fortissimi. Per i lituani sottomessi e frustrati, la cospicua minoranza ebraica rappresentava l'agente di forze estranee e minacciose. Oltre confine, poi, cioè dalla Germania, spirava il vento algido e micidiale dell'odio antiebraico nazista.
Anche a Vilna il nonno si occupava di commercio. Non in grande: comprava qua e là e vendeva qua e là, e fra un acquisto e l'altro a volte riusciva a guadagnare qualcosa: i due figli li mandò dapprima a una scuola ebraica e poi al liceo pubblico "classico" (cioè umanistico). I fratelli Davíd e Arieh, o Ziuzya e Lonya, avevano portato con loro da Odessa tre lingue: in casa parlavano russo e yiddish, per strada russo, e all'asilo sionista di Odessa avevano imparato a parlare l'ebraico. Qui, al liceo classico di Vilna, si aggiunsero il greco e il latino, il polacco, il tedesco e il francese. Poi, nel dipartimento di Letterature europee dell'università, arrivarono anche l'inglese e l'italiano, e in quello di Filologia semitica mio padre imparò l'arabo, l'aramaico e la scrittura cuneiforme. Lo zio David divenne ben presto docente di letteratura, mentre mio padre, Yehudah Arieh, terminato il primo grado di laurea all'Università di Vilna nel 1932, s'accingeva a seguire le orme del fratello maggiore - ma l'antisemitismo montò sino a che la situazione divenne intollerabile. Gli studenti ebrei erano costretti a subire umiliazioni, botte, angherie quando non torture vere e proprie.
"Ma che cosa vi facevano esattamente?" domandai a papà. "Che specie di soprusi? Vi picchiavano? Vi strappavano i quaderni? E perché non vi lamentavate?"
"Tu," rispose papà, "non potrai mai capirlo. Ed è un gran bene che sia così. Ne sono felice, anche se so che tu non potrai capire questo mio sentimento, capire perché io sia contento che tu non capisca com'era laggiù: non voglio assolutamente che tu capisca. Non ce n'è bisogno, del resto. Non ce n'è più bisogno, tutto qui. Perché quella storia è finita. È finita una volta per tutte. Cioè, qui non succederà più. E adesso parliamo d'altro: parliamo del tuo album dei pianeti, vuoi? Di nemici ovviamente ne abbiamo ancora. Ci sono guerre. C'è l'assedio, e subiamo non poche perdite. Certo. Non si può negarlo. Ma non ci sono persecuzioni. Questo no. Niente persecuzioni, niente umiliazioni e niente pogrom. Niente sadismo da subire. Tutto questo non tornerà mai più. Non qui. Ci aggrediscono? E allora noi rendiamo il doppio di botte. Tu, guarda qua, hai incollato nell'album Marte fra Saturno e Giove. Errore. No, non ti dico nulla. Trova tu l'errore, e correggilo da solo."
Dei tempi di Vilna non resta che un logoro album di fotografie: ecco papà e suo fratello David, tutti e due liceali, tutti e due con un'aria seria, pallidi, le grandi orecchie che sporgono sotto il cappello a visiera, tutti e due in giacca, cravatta e camicia con il colletto rigido. Ecco nonno Alexander, con già un principio di calvizie, ma ancora i baffi, elegante, perfetto, assomiglia un po' a un funzionario di basso rango nella Russia zarista. Ecco alcune foto di una cerimonia, forse il diploma liceale. Papà o suo fratello David? Difficile dirlo: i volti sono un poco sfocati. Tutti portano il cappello, i ragazzi con la visiera e le femmine dei berretti rotondi. Hanno quasi tutte i capelli neri, qualcuna sfoggia un'ombra vaga di sorriso, un sorriso da Gioconda che sa qualcosa che tu muori dalla voglia di sapere ma non lo saprai perché non ti spetta.
A chi spetta, allora? È assai probabile che quasi tutti i ragazzi e le ragazze in quella foto di classe siano stati spogliati nudi e fatti correre, a suon di frustate, inseguiti dai cani, scheletrici dalla fame e raggelati dal freddo, verso le fosse comuni nel bosco di Funar. Chi fra loro sarà sopravvissuto, a parte mio padre? Osservo la foto contro la luce forte e tento di decifrare qualcosa che forse è impressa nei tratti dei loro volti: forse l'astuzia o la determinazione, forse una rigidità interiore che possa aver spinto quel ragazzo, quello li nella seconda fila di sinistra, a intuire ciò che lo aspettava, a diffidare delle parole rassicuranti, a scendere in tempo dentro la fogna sotto il ghetto, fuggire dai patrioti nei boschi. O questa bella ragazza proprio in mezzo all'immagine, con un'espressione cinica e spiritosa, no cari miei, me non mi fate fessa, sono ancora una ragazzina, certo, ma so già tutto io, so persino cose che voi nemmeno vi sognate che io sappia. Sarà scampata? Fuggita verso il campo dei combattenti nel bosco di Rudnik? Nascosta, grazie al suo "aspetto ariano" in un quartiere fuori dal ghetto? Rifugiata in un convento? O sfuggita in tempo ai tedeschi e alle loro guardie lituane, oltre confine, verso la Russia? O immigrata in tempo in terra d'Israele, e vissuta fino a settantasei anni, facendo la pioniera a denti stretti, lavorando sodo alla mielicoltura o con i polli in un kibbutz della valle?
Ecco mio padre da giovane, qui assomiglia molto a mio figlio Daniel (che porta anche il suo nome, Yehudah Arieh), una somiglianza che fa davvero rabbrividire, mio padre a diciassette anni, magro e lungo come una pannocchia ma tutto elegante con tanto di farfallino, gli occhi ingenui che mi guardano da dietro le lenti rotonde, un po' intimidito e un po' orgoglioso, gran chiacchierone ma anche tremendamente timido (e senza che vi sia contraddizione fra i due atteggiamenti), i capelli neri tirati alla perfezione in su, sul viso un ottimismo allegro, insomma, non preoccupatevi, cari amici, tutto andrà a posto, supereremo tutto, tutto passerà prima o poi, che volete che sia, niente di grave, andrà tutto bene.
In questa foto, mio padre è più giovane di mio figlio. Se solo fosse possibile, entrerei nella foto ad avvertire lui e la sua allegra compagnia. Proverei a raccontare loro quel che li attende. Quasi certamente non mi crederebbero, riderebbero di me.
[Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Milano, Feltrinelli, 2003 pp. 135/138]".
Esso parla della brutalità dell'antisemitismo.
Com'è noto, ieri è stato il Giorno della Memoria della Shoah.
Lo vorrei ricordare facendo una dedica a Simon Wiesenthal (1908-2005) un sopravvissuto alla Shoah che si dedicò alla ricerca di tutti i nazisti.
Egli ne fece giudicare e condannare tanti.
Quell'uomo era apparentemente fragile ma aveva una forza molto grande.
Ogni volta che leggo un libro che parla di lui o che guardo in televisione un documentario sulla sua vita, io provo un senso di ammirazione e quasi di stima.
Egli volle fare giustizia per i suoi correligionari, il suo popolo.
Non lo fece, però, con la forza e la brutalità.
Lo fece con il sapere e con l'intelletto.
Io non ho mai avuto la fortuna di conoscerlo. Se lo avessi conosciuto, gli avrei fatto tante domande.
Gli avrei chiesto, ad esempio, delle sue ricerche su Cristoforo Colombo.
Lui era un uomo veramente libero.
Era stato libero anche nell'orrenda prigionia nazista.
Di sicuro, merita rispetto, come merita rispetto il popolo di Israele.
Ieri è comparso su "Il Fatto Quotidiano" il titolo che recitava: "Israele spara sulla pace".
La foto qui sopra (che mi è stata inoltrata su Facebook dall'amico Morris Sonnino) lo mostra.
Ora, a mio modesto parere, chi ha fatto quel titolo dovrebbe vergognarsi!
Le genti che popolano oggi Israele soffrirono la prigionia e l'odio nazista.
Oggi, esse sono minacciate dal "novello Aman" o il "nuovo Hitler", Ahmadinejad, e da altri.
Il popolo di Israele avrà pure il sacrosanto diritto di difendersi?
Mi fa specie sentire parlare certe persone che dicono di essere amiche degli ebrei e che condannano la Shoah ma poi attaccano Israele, schierandosi, di fatto, con chi nega la Shoah.
Vorrei terminare con un ultimo pensiero.
La foto al centro è stata messa su Facebook dall'amica Irene Bertoglio.
La Shoah fu un crimine molto grave, un'ecatombe. Non va minimizzata.
Però, ci furono crimini analoghi.
Cito, ad esempio, il Genocidio armeno, il pogrom contro gli ebrei in Russia, l'Holodomor perpetrato dai sovietici in Ucraina, le violenze dei Khmer rossi in Cambogia, le persecuziuoni dei cristiani nella Cina comunista, il massacro delle foibe, qui in Italia, e le varie persecuzioni contro i cristiani nei Paesi musulmani.
Anche questi furono crimini contro l'umanità.
Cordiali saluti.