L'amico Filippo Giorgianni, mi ha segnalato questo brano di Attilio Mordini di Selva.
Leggetelo:
"«Il macrocosmo e il microcosmo, la creazione e l’uomo, possono entrambi paragonarsi alla ruota. Nella tradizione cristiana il paragone è di Boezio, ma è presente in ogni tradizione spirituale come nel buddismo, nell’induismo e nella mitologia classica. È il rosone che si apre sulla facciata delle nostre chiese, il loto su cui diede il Buddha, la ruota del Sole e del tempo che dalla romanità antica è passata alle meridiane dei nostri monasteri. Se percorriamo nella sua lunghezza, movendo dalla periferia al centro il raggio di una ruota in azione, possiamo constatare che la velocità dei giri diminuisce sempre più in ragione proporzionale al nostro avvicinarci al centro stesso, benché immutata rimanga la velocità del moto di rotazione dell’intera ruota. E ciò perché più angusta è la circonferenza percorsa da un punto del raggio in ragione della minor distanza che la separa dal centro; e il centro è un unico punto, percorrendo l’asse, l’uomo si trascende. Il centro è d’altronde il punto che determina i giri di tutta la ruota, è il Purusha contemplante, mentre il resto della ruota è Prakriti, il mondo della prassi, quello che i buddisti chiamano mare del Sāmsāra. […] Se trasferiamo il simbolismo della ruota dall’uomo alla creazione intera, quel punto fermo è l’eternità dalla quale si snodano gli evi, si squadernano i secoli, si riversano i giorni a piene mani sulla faccia della Terra. La periferia della ruota, il mondo pratico nella sua manifestazione estrema, è il mondo fluido delle sensazioni e dei sensi; quello che Pascal chiamerebbe mondo del divertimento, da de-vèrtere, allontanandosi dal punto centrale. Per Agostino e per Boezio entrare in interiorem nomine significa trascendere i sensi nel sentimento, quindi nella ragione, ed infine nell’intuito, nel cuore dello spirito, nell’amore vero che nel poema di Dante “… muove il Sole e le altre stelle” (Paradiso, XXXIII, 145). E infatti quel punto è, come abbiamo detto, la via dell’asse, la via del cielo, la via sacra di Isaia, il theõrós (“osservatore” ambasciatore) che unisce l’uomo a Dio. I termini theõría e theós muovono dalla stessa radice. L’azione è il passaggio dalla potenza all’atto. Per San Tommaso Dio è atto puro; e nell’uomo, immagine di Dio, l’atto puro è contemplazione, quindi atto di Dio e dell’uomo al tempo stesso, o meglio presenza di Dio nell’uomo, ché l’uomo in quanto creatura non potrebbe essere capace da solo di atto puro. La pratica è la forza, l’aiuto ad attuare ciò che nell’uomo è potenziale; non vi può essere vera azione efficace che non proceda dalla teoria, dalla contemplazione, dall’atto sacro della Grazia e della libera volontà che aduna, unifica e assume in Dio il mondo della pratica, del divenire e della dynamis. Per passare efficacemente dalla potenza all’atto, quindi, è indispensabile ispirarsi all’atto già realizzato quale modello anteriore ad ogni azione e quale causa finale di ogni divenire; e quest’atto è appunto la presenza di Dio nell’uomo che si fa esperienza operante proprio nella contemplazione. L’uomo esteriore diviene sempre, e col divenire quasi si identifica, ma l’atto interiore con la sua presenza puntualizza ogni azione nell’identità del Sé. L’io psichico e sensoriale è mutamento continuo, alternarsi incessante di gioia e di dolore, di pianto e di riso, di godimento e di sofferenza; il Sé spirituale ed interiore è atto della presenza, è continuità di ciò che diviene o sembra divenire, ché non potrebbe divenire, né constatare alcun mutamento, se non fosse sempre lo stesso, come Prakriti non genererebbe se Purusha non lo fecondasse rimanendo in sé inalterato malgrado ogni trasformazione. E in questa presenza a se stesso e a Dio sta la memoria, l’intelletto e la volontà dell’uomo, che per San Bonaventura è immagine della Trinità nell’anima umana; sta la sua responsabilità tra il bene e il male; la responsabilità della scelta sul piano della dialettica, mentre sul piano dell’unità, della sintesi, dell’abbraccio con Dio, sta la piena realizzazione della personalità, il conseguimento del fine eterno; del fine che è principio, perché è ben quel Fine che crea l’uomo evocandolo dal nulla. Una pratica che non muova dalla teoria, un agire che non muova dalla contemplazione, è un assurdo, poiché non v’è azione che non abbia il suo principio e il suo fine nell’atto pur muovendosi dalla potenza, nel Verbo che è parola di Dio e dà vita e voce all’uomo. Una pratica che non è vera azione non crea, perché è priva di atto, cioè dalla parola che ha creato l’universo. Adamo può dar nome agli animali perché contempla Dio, e Dio glieli indica uno per uno davanti ai suoi occhi ancora casti ed innocenti. Quando si nega la contemplazione per la cosiddetta azione pura in una vita soltanto pratica, in realtà si continua a contemplare e si contempla il male. L’uomo si ribella così al suo primo Fattore e al tempo stesso alla puntualità del proprio essere che è immagine di Dio, alla radice della personalità che è il nome dell’uomo pronunciato dal Creatore nel fondo di ogni anima. La mistica della pratica è mistica del subcosciente, del caotico fluttuare di immagini e di impressioni incontrollate dalla volontà; e la scelta dell’uomo tende allora a deturparsi in bestiale riflesso condizionato; ogni vera libertà viene negata dall’arbitrio della libido in quello che per San Tommaso d’Aquino è il mondo dell’irascibile e del concupiscibile. È la mistica del nostro tempo; al Verbo si sostituisce lo slogan; la distrazione o l’ossessione alla redenzione. Dobbiamo render conto d’ogni parola oziosa, d’ogni parola cioè che non sia libera e consapevole adesione alla parola di Dio; e sono parole oziose tutte le azioni che non muovono dall’atto interiore della Grazia per elezione veramente libera, cioè per elezione nel bene. Se le parole non procedono dalla parola divina sono parole oziose, le azioni che non procedono dall’atto interiore della contemplazione sono dissipazione nel mondo della pura pratica, dell’illusione. E pertanto questa illusione acquista di giorno in giorno, per l’insipiente, una sua realtà, copia scimmiesca della realtà creata da Dio; e l’uomo, che nonostante tutto è immagine della divinità, crea il suo mondo demoniaco, l’inferno dell’angoscia.» ".
La cosa che distingue noi uomini dagli altri animali è la capacità di usare un linguaggio complesso e, quindi, la capacità di distinguere il Bene dal Male. Tutto ciò è la Sapienza. Per un animale uccidere un proprio simile può essere una questione di vita o di morte. In natura non esistono il Bene ed il Male. Per un uomo la cosa è ben diversa. Molto spesso, colui che uccide lo fa per fare del male. L'uomo, però, fu creato da Dio quale amministratore del Creato e quindi come colui che domina su tutti gli altri animali. Quindi, l'uomo è un piccolo riflesso di Dio sulla Terra. Egli esprime queste sue peculiarità nell'arte e nella parola scritta come in quella parlata.Ciò, però, dà all'uomo grandi responsabilità.
Con questo suo potere, l'uomo può fare grandi cose come può provocare immani tragedie. La storia ce lo insegna.
Avere questo potere è quindi fonte di grande responsabilità verso Dio, verso gli altri e verso sé stessi.
Allora, noi uomini dobbiamo recuperare quel senso di responsabilità che comporta questo dono che Dio ci diede, il linguaggio, quindi la Sapienza.
Leggete anche questo articolo che mi è stato segnalato dall'amico Andrea Casiere che è intitolato "Il linguaggio dei segni".
Esso è un saggio di Padre Theodosios Maria della Croce che parla di questo grande dono di Dio.
Facciamone buon uso.
Cordiali saluti.