Presentazione

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Una voce libera per tutti. Sono Antonio Gabriele Fucilone e ho deciso di creare questo blog per essere fuori dal coro.

Il mio libro sul Covid

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Il mio libro, in collaborazione con Morris Sonnino

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giovedì 26 aprile 2012

Seminario di grafologia a Magenta.


Cari amici ed amiche.

Come avevo già scritto in precedenza, inizieranno i seminari di grafologia a Mangenta, in Provincia di Milano.
Essi saranno organizzati dall' associazione grafologi "Scriptorium". 
L'amica Irene Bertoglio, grafologa e scrittrice, sarà tra coloro che dirigeranno questo seminario.
La grafologia si basa su metodi scientifici.
La scrittura può dire molto sulla psicologia di chi scrive.
Le date sono state cambiate.
Per maggiori avere informazioni, rivolgersi direttamente ad Irene Bertoglio, una persona che tra l'altro stimo, per il suo impegno nella società.
E' davvero una brava persona ed è anche molto competente nel suo mestiere. 
La sua e-mail è i.bertoglio@libero.it.
Allora, spero che partecipiate in tanti.
Cordiali saluti. 

CORDOGLIO PER VANESSA SCIALFA

Cari amici ed amiche.

Purtroppo, Vanessa Scialfa, la ragazza di 20 che è scomparsa martedì 24 aprile, è stata trovata morta.
Esprimo il mio cordoglio ai suoi cari che l'hanno cercata.
Lei, sicuramente, sarà con Dio e mi auguro che Dio sia ora con i suoi cari, che vivono questo immenso dolore.
Cordiali salutu.

Roger Scruton, "Del buon uso del pessimismo (e il pericolo delle false speranze)"

Cari amici ed amiche.

L'ottimo Filippo Giorgianni mi ha fatto avere questa nota di Roger Scruton su Facebook:

"«Il poeta e storico Robert Conquest in un’occasione parlò di tre “leggi della politica”, la prima delle quali affermava che tutti sono di destra in merito a ciò che conoscono meglio[1]. Con l’espressione “di destra”, Conquest intendeva un atteggiamento sospettoso nei confronti degli entusiasmi e delle novità, e di rispetto per la gerarchia, la tradizione e le consuetudini ben fondate. Un indice di ignoranza, sosteneva, è il preferire l’originalità alla consuetudine, le soluzioni radicali all’autorità tradizionale. Certo, abbiamo bisogno di originalità, proprio come possiamo aver bisogno di soluzioni drastiche quando le circostanze cambiano in maniera radicale. Ma queste cose ci servono solo in situazioni eccezionali, e Conquest ci voleva mettere in guardia contro il desiderio di considerare ogni circostanza come un’eccezione. […] Ma ciò che Conquest intendeva ha un significato più ampio. Quando si tratta della nostra vita, delle cose che conosciamo e sulle quali abbiamo acquisito sia conoscenza sia competenza, adottiamo un punto di vista misurato. […] La levatrice che conosce il proprio mestiere rispetta e pratica le soluzioni verificate dalle generazioni che l’hanno preceduta, riconoscendo in esse un’autorità alle quali istintivamente obbedisce. Tuttavia misura le proprie valutazioni di contro a un sapere accumulato dalla tradizione, e se si assume un rischio, perché il problema che si trova ad affrontare manca di precedenti chiari, presta attenzione ai costi dell’eventuale errore, e si assicura che possano essere sostenuti. Una persona di questo tipo non è pessimista; la potremmo definire un’ottimista con degli scrupoli, una persona cioè che valuta la dimensione di un problema e che per risolverlo consulta il bagaglio di conoscenze accumulate nel tempo, affidandosi all’iniziativa personale e all’ispirazione quando non trova altra guida, o quando “un qualcosa” nella difficoltà che si trova ad affrontare innesca una determinata reazione in lei. In tutte le cose che conosciamo meglio, e in tutte le relazioni che ci sono care, il nostro atteggiamento è, o lo è normalmente, altrettanto scrupoloso. Abbiamo acquisito tutta la competenza possibile e sappiamo dove cercare consiglio e guida. E quando andiamo incontro a debolezze, oppure commettiamo degli errori, ci sforziamo di migliorare. Siamo profondamente consapevoli di essere solo uno fra tanti nel nostro settore di competenza, siamo disposti a rivolgerci a chi ha conoscenza ed esperienza, e abbiamo più rispetto per il sapere accumulato dagli altri che per il piccolo contributo che potremmo apportare noi stessi. È con educato senso della prima persona plurale che dispieghiamo quella conoscenza che è il nostro bene personale più sicuro. Questo ottimismo scrupoloso conosce anche gli usi del pessimismo, e sa quando ricorrervi per moderare i nostri progetti. Ci incoraggia a tenere in considerazione il costo del fallimento, a formarci un’idea del peggiore scenario possibile e ad avere piena consapevolezza dei pericoli di ciò che accadrebbe se il rischio non pagasse. L’ottimismo senza scrupoli non è affatto così. Fa dei salti logici che non si basano su atti di fede, ma sul rifiuto di ammettere che manca il sostegno della ragione. Non tiene conto del costo del fallimento, né immagina il peggior scenario possibile. Al contrario, è caratterizzato da quella che potrei chiamare la fallacia della “migliore delle ipotesi”. Davanti alla necessità di operare delle scelte in condizioni d’incertezza, immagina il miglior risultato possibile e presume che non serva considerarne altri. Si vota a quell’unico risultato e, o dimentica di mettere in conto il costo del fallimento, oppure – e questo nel suo aspetto più pernicioso – fa in modo che tale costo ricada su qualcun altro. La fallacia della migliore delle ipotesi caratterizza la mentalità del giocatore d’azzardo. A volte si dice che i giocatori siano persone capaci di assumersi dei rischi e che questa loro qualità sia degna d’ammirazione, poiché hanno il coraggio di rischiare ciò che possiedono nel gioco che li appassiona. In realtà, ciò è tutt’altro che vero. I giocatori d’azzardo non sono persone capaci di assumersi dei rischi; giocano aspettandosi solamente di vincere, spinti dalle loro illusioni a bearsi di un senso di sicurezza irreale. Ai loro occhi, non si stanno affatto assumendo dei rischi, ma procedono semplicemente verso un obiettivo predeterminato con la piena collaborazione della loro abilità e della loro sacrosanta fortuna. Hanno preventivato il miglior scenario possibile, nel quale la fortuna è assicurata dalla loro maestria nel lancio dei dadi, ed è questo il risultato al quale tendono, inesorabilmente. Lo scenario peggiore, nel quale loro, e le loro famiglie, si ritrovano in rovina, qualora mai si affacci alla loro mente, la considerano una fatalità di cui loro non hanno colpa, un brutto colpo del destino che sarà certamente compensato da un successo futuro, e che in sé diviene quasi una fonte di piacere poiché rende ancora più inevitabile la futura vittoria. È il carattere del personaggio descritto da Dostoevskij ne Il giocatore, oltre che il suo stesso carattere, che causò la rovina sua e della famiglia. Ed è anche il carattere dell’ottimista senza scrupoli, in ogni ambito. Un esempio ancora più significativo lo troviamo nell’attuale “stretta creditizia”. Sono numerosi i fattori che hanno concorso a produrre questa crisi, ma non dobbiamo guardare troppo lontano per capire che al cuore di tutto c’è la fallacia della migliore delle ipotesi. Le prime avvisaglie si possono rintracciare nel Community Reinvestment Act, trasformato in legge dal presidente americano Carter nel 1977. Secondo questa legge, le banche e le altre istituzioni prestatrici devono offrire mutui ipotecari in modo da rispondere “ai bisogni delle comunità” nelle quali operano, e soprattutto ai bisogni delle famiglie a basso reddito e appartenenti alle minoranze. In breve, chiede loro di mettere da parte il normale modo di ragionare dei prestatori di denaro in merito alla sicurezza di un debito, e di offrire il credito come parte di una politica sociale e non come una transazione d’affari. Il ragionamento sottostante la legge era un impeccabile atto di ottimismo, a partire dallo scenario della migliore delle ipotesi, nel quale gruppi altrimenti svantaggiati sarebbero così ascesi al novero dei proprietari di casa, il primo passo verso la realizzazione del sogno americano. Tutti ne avrebbero tratto benefici, e nessun’altro più delle banche, che in tal modo aiutavano le proprie comunità a prosperare. Di fatto, ovviamente, le banche che avevano subito pressioni affinché ignorassero i vecchi requisiti della prudenza, e alle quali era stato proibito per legge di tener conto della peggiore delle ipotesi, finirono inesorabilmente con l’accumulare insolvenze, il che alla fine portò alla “crisi dei mutui subprime” del 2008. Nel frattempo, altri operatori avevano iniziato a immettere sul mercato questi debiti. Dopo tutto, la prospettiva del miglior scenario possibile ci dice che un mutuo, essendo basato su una casa, e quindi sul maggior investimento del mutuatario, non può non ripagare gli interessi. E un mutuo ipotecario a tasso fisso può essere venduto con un profitto, quando i tassi d’interesse scendono al di sotto del tasso concordato. Il peggior scenario possibile – talmente ovvio che nessuno si preoccupò di controllarlo – ci dice che, quando i tassi d’interesse scendono, il denaro perde il suo valore, e i tassi fissi diventano più difficili da pagare. Il debito si trasforma in insolvenza, indipendentemente da quanto fosse stato investito nella casa che gli fa da garanzia. Alcuni sosterranno che in questo caso il problema non sia nell’ottimismo in sé, ma nella visione irrealistica della natura umana che ne sta alla base. A me sembra, però, che l’errore sia ancora più profondo. Esiste una sorta di dipendenza da illusione che informa le tipologie più distruttive di ottimismo: il desiderio di cancellare la realtà come premessa dalla quale far partire il ragionamento pratico, e di sostituirla con un sistema d’illusioni compiacenti. Il “futurismo” è così. L’esaltata descrizione di possibilità future che troviamo negli scritti di Buckminster Fuller[3] e Ray Kurzweil, e nelle fantasie di trans-umanisti e cybernerds, deve la sua capacità d’attrazione alle irrealtà che evoca nella mente del lettore. In questi scritti troviamo il richiamo profondo del tempo futuro. Cambiando un “è” con un “sarà” permettiamo all’irreale di vincere sul reale, e a mondi senza limiti di cancellare quelle limitazioni che ben conosciamo. La stessa dipendenza dall’irrealtà può essere vista nell’atteggiamento nei confronti del credito. Una piccola dose di pessimismo ci avrebbe ricordato che, quando le persone finanziano i propri consumi ricorrendo a un prestito da ripagare in futuro, trattano un bene irreale – la promessa di una produzione futura – e che possono sorgere un migliaio di contingenze che impediscono che tale bene venga realizzato. Un’economia del credito, di conseguenza, dipende da una fiducia condivisa nella natura umana e dal potere delle promesse, in circostanze in cui l’obbligo di mantenerle è sempre meno riconosciuto, proprio perché le persone stanno prendendo l’abitudine di posporre i propri debiti. In queste circostanze subentra una particolare illusione. La gente smette di vedere il mondo finanziario come un mondo composto da esseri umani, con tutte le loro debolezze morali e gli schemi di tornaconto personale, e lo vede come un qualcosa composto da grafici e indici, cifre che a loro volta rappresentano quote, tassi d’interesse e valute, tutte cose che possono essere scambiate con l’energia umana, ma che di per sé sono solamente delle astrazioni, il cui valore economico dipende solo dalla fiducia che le persone ripongono in esse. Il mercato finanziario assume, nelle loro teste, le caratteristiche di un grande cartone animato, in cui le cose si muovono su uno schermo come se fossero sospinte da vita propria, e questo nonostante il fatto che lo schermo in sé sia solamente una lontana proiezione delle azioni e dei desideri delle persone. La verità morale fondamentale, che una piccola dose di pessimismo avrebbe reso d’importanza cruciale per tutte le decisioni dalle quali dipende il mercato, è che il credito si basa sulla fiducia, la fiducia dipende dal nostro senso di responsabilità e, in un’economia di credito nella quale la gente vuole godere subito del possesso di qualcosa e pagare in un secondo momento, il senso della responsabilità è in costante diminuzione, fuoriuscendo dal sistema attraverso lo stesso meccanismo che da esso dipende.»

[1] Le altre due leggi sono: 2. Qualsiasi organizzazione che non sia esplicitamente di destra prima o poi diviene di sinistra, e 3. Il modo più semplice per spiegare il comportamento di un’organizzazione burocratica è presumere che sia controllata da una cricca di suoi nemici.

[3] Oggi quasi dimenticato, questo trans-umanista avant la lettre negli anni ’60 era il beniamino di architetti progressisti, riformatori sociali e panglossiani. Si veda Buckminster Fuller, in Roger Scruton,The Politics of Culture and Other Essays, Carcanet, Manchester 1981.
".


Innanzitutto, faccio i complimenti a Filippo Giorgianni e lo ringrazio dello spunto che mi ha dato. 
Essere di destra non significa essere tetragoni di fronte ad ogni cosa nuova e grettamente conservatori.
Essere di destra significa essere attaccati ai valori più comuni di coloro che vivono nella propria realtà, senza trascurare i cambiamenti che avvengono.
Essere di destra significa dare delle speranze in base alle potenzialità della propria realtà, senza voli pindarici.
Questo distingue la destra dalla sinistra.
La sinistra (specialmente quella comunista)  instilla false speranze, arrivando ad incitare all'odio e all'invidia sociale, per "fare un mondo migliore".
Questa è la peggiore delle false speranze 
Io penso che oggi ci siano tante persone (politici in primis) che alimentano false speranze.
Un esempio è Barack Hussein Obama, il presidente degli Stati Uniti d'America.
Egli, ad esempio, aveva fatto una riforma della sanità di stampo europeo una riforma che "avrebbe stabilito una maggiore eguaglianza" del diritto alle cure mediche.
Purtroppo, con la crisi che c'è, quella riforma della sanità ha creato dei problemi perché ha pesato sulle casse del Paese.
Il discorso vale anche per i vari europeisti italiani che hanno visto nell'Unione Europea e nell'Euro la panacea.
Oggi, la storia li sta smentendo.
Allora, queste parole di Scruton sono molto attuali.
Riflettiamo.





AIUTATE A TROVARE QUESTA RAGAZZA!

Cari amici ed amiche.

Su Facebook mi è pervenuta questa foto con la seguente didascalia:

"A tutti gli amici di Facebook,vi prego di diramare questa foto,è mia figlia non abbiamo notizie da martedì 24 Aprile,vi prego di fare più annunci possibili in modo di potere scongiurare il peggio,eventualmente potete chiamare ai numeri qui di seguito 3476075351-3404664845 oppure direttamente ai carabinieri o qualsiasi altra forza dell'ordine. Vi ringrazio tutti per la collaborazione. ".

Questa ragazza è figlia di Giovanni Scialfa. Egli non ha sue notizie da due giorni.
Chi sa qualcosa o ha visto qualcosa faccia sapere.
Cordiali saluti.



25 aprile, la ricorrenza che divide-commento all'articolo di Marco Mancini

Cari amici ed amiche.

Leggete questo articolo scritto da Marco Mancini, sul blog "Campari e De Maistre" che è intitolato "25 aprile, la ricorrenza che divide".
Che il 25 aprile sia una ricorrenza che divide è cosa nota.
Il 25 aprile non è una festa per tutti.
Purtroppo, come molte altre feste laiche, il 25 aprile viene strumentalizzato.
La sinistra comunista strumentalizza questa festa, per avere una legittimazione che in nessun altro modo può avere.
Così, essa (che ha una forte influenza sugli ambienti intellettuali) cerca di presentarsi sempre come la "liberatrice dell'Italia" o la "salvatrice della patria".
In realtà, la sinistra non fu liberatrice, né salvatrice.
Che la sinistra di estrazione comunista non sia libera né portatrice di libertà è cosa nota.
Già il fatto che tale parte politica abbia iniziato una campagna di boicottaggio contro quegli esercizi commerciali che in totale libertà hanno scelto di aprire i negozi nel giorno 25 aprile lo dimostra.
Questo è vergognoso, anche perché la sinistra non dice nulla riguardo ai negozi che aprono di domenica o nelle feste natalizie, che sono ben più importanti del 25 aprile.
Inoltre, vogliamo parlare dei partigiani?
Bene, su Facebook ho trovato questo testo di Paolo Deotto:

"Un martirologio del Novecento: i preti vittime della violenza comunista in Italia dopo il 1945
Paolo Deotto


Centotrenta uomini uccisi. Il primo omicidio è datato 7 agosto 1941, l’ultimo 4 febbraio 1951. In alcuni casi, rari, i killer sono stati perseguiti; ma su moltissimi altri casi regna il buio, anche perché l’omertà, sembra incredibile, copre ancora le colpe a tanti decenni di distanza. E quando non si tratta di omertà, c’è però una — non meno riprovevole — indifferenza su cose frettolosamente accantonate, perché ormai vecchie, passate. In molti casi all’omicidio si è aggiunto un ulteriore oltraggio, impedendo addirittura che si tenessero pubbliche esequie per le vittime, o anche propalando su di loro dicerie infamanti, quasi a giustificarne l’uccisione. La mano omicida ha colpito in tutta Italia, dalla Val d’Aosta al Friuli, arrivando fino alla Calabria. Tanti i sicari, pochi, come dicevamo quelli puniti, uno solo il mandante. Conosciuto, ma impunito.

Le vittime hanno una caratteristica che le accomuna: sono tutti sacerdoti, secolari o religiosi, parroci o cappellani militari, o semplici preti senza incarichi specifici, o cura d’anime. Molti, moltissimi di loro sono stati uccisi due volte: la prima volta dagli assassini materiali, la seconda volta dall’oblio e dalla negligenza di chi non può o non vuole ricordare.

Sembra la trama di un racconto poliziesco nato dalla fantasia un po’ troppo sbrigliata di qualche scrittore in vena di fornire emozioni «forti» ai lettori. E invece quanto ho descritto è tutto, purtroppo, realmente accaduto e lo racconta Roberto Beretta, giornalista di Avvenire e saggista.

Nella semplicità del suo titolo, diretto, chiarissimo, Beretta affronta uno dei capitoli più oscuri della storia nazionale nel periodo della Resistenza: la strage dei sacerdoti, operata da partigiani comunisti. Si tratta della prima opera che tratta in modo organico e approfondito una realtà, in verità arcinota, ma della quale «non» si doveva parlare, perché poteva minare l’immagine fin da subito oleografica della lotta di Liberazione, e soprattutto l’immagine del partito comunista quale vera avanguardia della lotta medesima.

Beretta tocca uno degli argomenti tabù, uno dei capitoli più tragici della tragica situazione in cui visse il Paese, dilaniato di fatto da due guerre, quella contro i tedeschi e quella civile scatenata dai comunisti. Questi ultimi non combattevano solo contro tedeschi e fascisti, ma anche contro i compatrioti antifascisti, se questi si opponevano alle loro pretese egemoniche e rivoluzionarie o se, comunque, sempre a insindacabile giudizio comunista, potevano essere considerati elementi sospetti. Porzus docet — potremmo dire — o, almeno, dovrebbe farci imparare che il Partito Comunista ebbe la «sua» politica da seguire e che i Gruppi di Azione Partigiana (Gap) e le Brigate «Garibaldi» agirono il più delle volte con assoluto disprezzo della pur ufficialmente accettata autorità del Cln.

I preti. Perché ucciderli? La guerra ha una sua spietata logica, nella quale rientra l’uccisione del nemico. Dal momento in cui si attua quella «sospensione della moralità» che è la situazione di conflitto, l’uccisione del nemico comporta però anche la difesa dell’amico, dell’alleato, e la fine delle ostilità comporta anche la fine di quella «licenza di uccidere». La società rientra nella normalità.

Perché dunque uccidere i preti? E perché le uccisioni andarono ben oltre la fine della guerra?

Roberto Beretta si pone, e ci pone, appunto, queste domande.

Nel primo capitolo, Gli epurati, leggiamo: «Erano colpevoli? E, se lo erano, meritavano di morire come sono stati uccisi, per giustizia sommaria, senza processo, talvolta “prelevati” e mai più ritrovati, tal altra seppelliti senza alcun funerale, fatti fuori anche vari mesi dopo la guerra sulla base di sospetti mai verificati, o anche di vendette personali fatte passare per motivi politici, diffamati in vita e ancor più in morte, perché più l’accusa era importante, più si sarebbe digerito il delitto? Non so, ciascuno giudichi. In me (che la guerra non ho vissuto) ha finito per prevalere la pietà per queste figure, tanto spesso innocenti o al massimo colpevoli quanto può esserlo qualunque uomo messo alle strette dalle circostanze della vita. Ma proprio per questo il viaggio vuol partire dagli “epurati”: ovvero dai sacerdoti uccisi per una colpa tutto sommato facile da comprendere, una collusione più o meno spinta col passato regime, che può lasciar capire (mai giustificare!) la loro eliminazione nella concitazione e tra le passioni di un contesto di guerra. Cominciamo dunque dai più “cattivi”, dai più “neri”» (p. 14).

Infatti il libro è redatto come una sorta di «catalogo» delle vittime.

Nel primo ci parla dei preti più compromessi con il fascismo, partendo proprio da quel don Tullio Calcagno (1899-1945), prima sospeso a divinis, poi addirittura scomunicato per la sua intensa attività politica di indiscutibile fede fascista, andata ben oltre il consentito dalle norme ecclesiastiche. La foto dei cadaveri di don Calcagno e dell’ex prefetto — medaglia d’oro, nonché cieco di guerra — Carlo Borsani (1917-1945), appena fucilati in piazzale Susa a Milano il 29 aprile 1945, dopo la condanna decretata da un tribunale del popolo, appare in prima di copertina, con opportuna crudezza, perché vale più di mille parole per introdurre al viaggio che Beretta propone di fare insieme a lui.

Per dieci capitoli, leggiamo episodi di cruda monotonia. Un nome, una data, una località, e poi la descrizione dell’evento, più o meno dettagliata, a seconda dei documenti esistenti, della memoria più o meno rimossa, della volontà, o meno, di parenti e amici, di ricordare l’ucciso. Leggiamo le vicende dei cappellani — due soli cappellani di milizia fascista, gli altri semplici assistenti spirituali dell’esercito —, dei «sospettati», dei «padroni» — preti ai quali si poteva imputare la colpa di essere possidenti —, dei «traditi» — preti che aiutavano i partigiani, alcuni addirittura cappellani di formazioni partigiane —; abbiamo i «dimenticati e gli insepolti», i «beatificati», fino ad arrivare ai preti «infoibati», uccisi nella terribile mattanza che vide partigiani comunisti e truppe titine «lavorare» insieme, riempiendo le cavità carsiche di migliaia di vittime, la cui colpa principale era l’italianità e l’anticomunismo.

Abbiamo parlato di episodi di «cruda monotonia» non certo perché il libro di Beretta sia monotono. Piuttosto colpisce la ripetitività di determinati atti: il prete che viene chiamato fuori casa con l’inganno — in genere, chiedendo l’assistenza per un morente —; le intimidazioni e le minacce, nel più classico stile malavitoso, contro chi può aver visto o sentito troppo; il divieto addirittura di celebrare un funerale in forma pubblica; la diffamazione postuma della vittima — con netta preferenza per le «questioni di donne» —, per rendere — come dice Beretta stesso — più «digeribile» il delitto.

Il tono volutamente dimesso con cui Beretta apre il suo lavoro potrebbe trarre in inganno il lettore più disattento. «Erano colpevoli? Non so, ciascuno giudichi», dice, come se volesse disfarsi del problema.

Ma poi pone davanti al lettore i fatti, l’unica cosa che conti laddove si voglia fare della storia e non dell’agiografia, di una parte o dell’altra. E i fatti parlano: parlano di una crudeltà cieca, non giustificata da alcuna esigenza militare, che trova nell’odio ideologico e nel fanatismo i suoi alimenti.

Un altro fatto è di estremo interesse: leggendo nelle «schede» che chiudono il libro la «Lista cronologica delle vittime» vediamo che le uccisioni continuano ben oltre il 25 aprile 1945. Fino al dicembre di quell’anno la lista è ancora lunga, così come è corposa anche la lista del 1946. Quattro uccisioni sono registrate nel 1947. L’ultimo prete ucciso per «motivi politici» è don Ugo Bardotti, pievano di Cevoli, nella diocesi di San Miniato in provincia di Pisa. Verso le ore 22 di domenica 4 febbraio 1951 tre persone bussano alla canonica e l’anziana zia del prete, che gli fa da perpetua, apre perché sente un cognome conosciuto in zona. Poi tre colpi di pistola: don Bardotti cade, ultima vittima di una malattia tremenda, l’odio, senza il quale, del resto, non possono sussistere le ideologie che hanno devastato il secolo appena trascorso.

Beretta, come si è visto, lascia parlare i fatti. Tuttavia il suo libro sarà di sicuro tacciato di «revisionismo», parola che per certa sinistra suona come infamante — ora che non è più di moda dare tout court del «fascista» all’avversario —, ma che per le persone di buon senso rappresenta l’atteggiamento che deve avere sempre lo storico, sempre pronto a riscrivere ogni riga, laddove nuovi documenti, nuove testimonianze, possano arricchire la conoscenza dei fatti. In questi ultimi anni si sono fatti passi avanti su questa strada, e il libro di Beretta rappresenta una tappa fondamentale per rileggere correttamente la nostra Storia patria. Egli stesso, nella conclusione del libro, parlando della Resistenza, mette in guardia contro i pericoli del mito e della falsificazione, che sono destinati comunque a crollare nel tempo, trascinando nella loro rovina anche quanto di buono e positivo vi fu in quel pur tragico periodo.

Roberto Beretta, sempre con la forza dei fatti e riportando anche le ricerche di altri studiosi — Norberto Bobbio (1909-2004), per citare il più illustre; e poi Claudio Pavone, Elena Aga Rossi, e altri ancora — dimostra la falsità anche di un altro assunto, fin qui ufficialmente cristallizzato come la «Verità»: le uccisioni di preti, non potendo essere negate, vengono contrabbandate come opera di pochi masnadieri, sconfessati dal Partito Comunista, che lealmente collaborava con gli altri partiti democratici per la costruzione della nuova Italia. Resta però da spiegare perché le formazioni comuniste furono le ultime a riconsegnare le armi dopo la fine delle ostilità; resta da spiegare perché la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, all’epoca paesi di stretta osservanza moscovita, furono generoso rifugio di quei «pochi masnadieri». Restano da spiegare tante cose, fra le quali il clima di terrore che si visse almeno fino al 1948 nel famoso «Triangolo rosso» o «Triangolo della morte», fra Emilia e Romagna, in città e regioni dove i comunisti avevano acquisito il controllo di prefetture e delle forze di polizia. E il discorso si allarga fatalmente, oltre ai poveri preti uccisi — che finalmente vengono restituiti alla memoria e, quindi, alla pietà —, per spostarsi su migliaia di altre vittime, anch’esse spesso cadute dopo la fine ufficiale del conflitto civile: quegli «sconosciuti 1945» (e oltre), di cui è tornato a occuparsi recentemente e con grande successo di pubblico Giampaolo Pansa. I «pochi masnadieri» in realtà non furono pochi, di certo per la massa di «lavoro» che riuscirono a sbrigare e per essere «pochi» furono anche molto ben organizzati.


Roberto Beretta, Storia dei preti uccisi dai partigiani, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2005, pp. 320."
.

Ringrazio l'amica Irene Bertoglio (una bravissima ragazza che si impegna tanto) che ha messo questo testo su Facebook.
Ciò è tutto documentato.
Chi cerca di sollevare questo tema, viene bollato come "eversivo", "fascista", "nazista", "antisemita" e quant'altro.
Questo è inaccettabile!
Se io fossi un prete, mi rifiuterei di celebrare la Messa per il 25 aprile.
Piuttosto, la celebrerei per San Marco ma non per la "Liberazione".
Per colpa di una parte politica che tutto voleva fare meno che liberare l'Italia, i nostri giovani non conoscono la storia e sono stati ideologizzati.
Questo è paragonabile ad un crimine, un crimine contro la verità.
Cordiali saluti.





mercoledì 25 aprile 2012

Il 25 aprile? Non è una festa per tutti!-atto II

Cari amici ed amiche.

Prima di tutto, esprimo la mia solidarietà alla governatrice del Lazio, Renata Polverini, che è stata contestata durante le celebrazione del 25 aprile.
Questo conferma quanto ho scritto questa mattina, l'articolo intitolato "Il 25 aprile? Non è una festa per tutti!".
Il 25 aprile non è una festa per tutti.
Al contrario, il 25 aprile è la festa della divisione del popolo italiano.
Vorrei che voi leggiate l'articolo del sito "Contro la leggenda nera" che è intitolato "La Resistenza cancellata".
Esso parla di quei partigiani che combatterono contro il nazismo ed il fascismo ma che vennero uccisi dai partigiani comunisti.
Oggi, i "nipotini di quei partigiani comunisti" bollano come "fascisti" coloro che oggi vogliono che la verità sulla "Resistenza" venga a galla.
Anche sottoscritto è stato attaccato.
Leggete i commenti  fatto all'articolo di questa mattina, quello intitolato "Il 25 aprile? Non è una festa per tutti!", e, in particolare, il commento di un tale Mirko.
Esso recita:

"Ricordati Gabriele che se tu sei qui su questo blog a scrivere certe cretinate è proprio grazie anche ai partigiani che liberarono l'Italia dal regime fascista ... regime in cui era vietato anche pensare cose che andavano contro l'ideologia fascista ... rinnegando il 25 aprile offendi le migliaia di morti che hanno combattuto, lottato e resistito contro i fascisti per permettere a gente come te, 67 anni dopo, di scrivere queste scemenze! Vergognati".

A Pasquale e Mirko, io rispondo in questo modo:

Primo, io non ho nulla di cui dovermi vergognare e non devo chiedere scusa a nessuno.
Non ho offeso nessuno e condanno senza se e senza ma tutti i crimini contro l'umanità, compresa la Shoah.
Secondo, io non sono fascista.
Il caro Pasquale e il caro Mirko non si azzardino mai più di dire certe cose e li diffido dal farlo di nuovo.
Loro non sanno nulla di me e non si permettano mai più di dire certe cose. Li invito caldamente a farsi una cultura e a non leggere solo ciò che interessa a lui.
I "caro amici" dovrebbero documentarsi.
Terzo, io non devo ringraziare i comunisti, che a loro piacciono tanto, anche se Pasquale nega.
I comunisti non combatterono per liberare l'Italia ma per portarvi il comunismo.
Quarto, il caro Pasquale ed il caro Mirko imparino a rispettare la gente.
Ricordo che io sono molto seguito su Facebook e non solo e molti condividono le mie idee.
Quindi, non faccio così schifo. Si vede che forse non scrivo delle "scemenze".
Quinto, le frasi di Pasquale e di Mirko dimostrano che quanto da me sostenuto ha del fondamento.
L'Italia non è un Paese unito e di questo ci dobbiamo vergognare.
Oggi, ero andato a casa del mio amico Ettore Alessi (PdL di Roncoferraro), che ha detto che oggi non ci sono più le ideologie.
Purtroppo, ad Ettore, vorrei dire che essa ci sono ancora, nei loro peggiori aspetti.
Il 25 aprile tira fuori i peggiori aspetti.
Mi chiedo se valga ancora la pena di festeggiarlo.
Comunque, oggi in un altro Paese c'è un'altra celebrazione importante che unisce un intero popolo.
Il Paese in questione è Israele ed oggi esso compie gli anni.
Su Facebook, ho letto questo testo di una mia amica e mi è piaciuto così tanto che ve lo faccio leggere.
Esso recita:

"Ho fatto un sogno. Già, noi ebrei non li interpretiamo solo, i sogni, a volte li facciamo, anche.Ho sognato che stanchi di essere accusati di essere la causa dell’instabilità mediorientale, di essere una minaccia per la pace mondiale e dell’origine di tutto il male che c’è nel mondo, gli ebrei abbiano deciso di togliere il disturbo. Ho sognato il governo di unità nazionale alla Knesset votare a favore dell’abbandono dello stato d’Israele.
Ho sognato religiosi piangere e aggrapparsi alle pietre di Gerusalemme, comunità di braccianti lasciare villaggi agricoli, colletti bianchi abbandonare i loro uffici moderni. Ho sognato carovane di gente incamminarsi come per un nuovo esodo, con un seguito chiassoso di bambini, vecchi e animali.
Ho sognato una giovane nazione intelligente, l’Australia, mettere a disposizione una vasta area di terra vuota per uno stato nuovo di zecca, dove poter ricominciare tutto da capo. Ho sognato le associazioni dell’ebraismo mondiale mettere fondi a disposizione per l’emigrazione. Le università israeliane raccogliere risorse e cervelli per la ricerca, e filantropi americani ed europei tassarsi per la ricostruzione.
Ho sognato i nostri nemici festeggiare nelle piazze, distribuire dolci, e intonare canti per la vittoria. Ho sognato i luoghi santi violati, i campi abbandonati, sinagoghe distrutte. Ho sognato il nemico contendersi la terra rimasta, innescare faide per rivendicare i meriti della “cacciata” e il diritto allo sfruttamento.
E ho sognato lo sguardo di nuovi pionieri accendersi come per la Palestina di 100 anni fa, ho sognato giovani desiderosi di mettere a disposizione anima e corpo per lavorare e difendere il suolo vergine, ho sognato giovani fantasticare su un nuovo socialismo e intellettuali teorizzare sull’opportunità data agli israeliti di risorgere ancore una volta.
Ho sognato le associazioni per la pace zittirsi per un attimo. Ho sognato le Nazioni Unite incredule di fronte a questa sorprendente decisione unilaterale. Ho sognato nazioni sospese nell’emissione di un giudizio, di fronte ad una cosa tanto nuova.
Ho sognato l’enorme costo umano sostenuto da tutti gli ebrei del mondo. Ho sognato il popolo sfiancato voltarsi e guardare gli altri come per dire: “Cos’altro volete da noi? Di più non possiamo fare. Non ci avete voluto e ce ne siamo andati, lontano”.
Ma il sogno è durato poco. Perché le immagini di indigeni armati di kalashnikov, di slogan del “ Fronte di liberazione del Queensland dall’internazionale sionista”, le accuse di corruzione al governo australiano, le formazioni militari aborigene “pronte anche alla morte pur di respingere l’oppressore” mi hanno svegliato per l’agitazione.
Accendo la luce. Guardo il calendario. Buon Compleanno Israele. Tu sei già la realizzazione di un sogno. Un sogno lungo quattromila anni.
Che il Signore benedica Israele. Am Israel Hai....
".

I nostri amici Israeliani sono un popolo, noi no!
Forse, avremmo qualcosa da imparare da Israele.
Loro,  gli Israeliani , si uniscono intorno ai propri valori.
Il compleanno di Israele merita di essere festeggiato più della "Liberazione". 
Noi Italiani,  infatti, ci accapigliamo e ci insultiamo. Dire che ciò sia uno schifo è poco!
Che razza di popolo siamo?
Sono veramente disgustato.
Ci sono pastori di Santa Romana Chiesa che trasformano le Messe in adunanze politiche (in cui si canta "Bella ciao") e le chiese, le case di Dio, in case del popolo.

Don Andrea Gallo (nella foto) è un esempio.
Ci sono persone che si dicono per la libertà ma che poi insultano gli altri che "osano" dire qualcosa di diverso dal loro pensiero. 
I veri fascisti, oggi, sono quelli che non vogliono conoscere la realtà e che sono schiavi dell propria ideologia e che, in nome di questa ideologia, attaccano gli altri, tacciandoli di fascismo e quant'altro o arrivando alla violenza fisica.
Vale ancora la pena di festeggiare il 25 aprile in questo modo? 
Ai posteri vada l'ardua sentenza.
Vergogna!
Vorrà dire che io festeggerò San Marco.
Cordiali saluti. 






La proclamazione della verità. Dal trattato «Contro le eresie» di sant’Ireneo, vescovo

Cari amici ed amiche.

Su Facebook, l'amico Giovanni Covino (SEFT)  ha messo questo nota presa da un testo di Sant'Ireneo:

"La Chiesa, sparsa in tutto il mondo, fino agli ultimi confini della terra, ricevette dagli apostoli e dai loro discepoli la fede nell’unico Dio, Padre onnipotente, che fece il cielo, la terra e il mare e tutto ciò che in essi è contenuto (cfr. At 4, 24). La Chiesa accolse la fede nell’unico Gesù Cristo, Figlio di Dio, incarnatosi per la nostra salvezza. Credette nello Spirito Santo che per mezzo dei profeti manifestò il disegno divino di salvezza: e cioè la venuta di Cristo, nostro Signore, la sua nascita dalla Vergine, la sua passione e la risurrezione dai morti, la sua ascensione corporea al cielo e la sua venuta finale con la gloria del Padre. Allora verrà per «ricapitolare tutte le cose» (Ef 1, 10) e risuscitare ogni uomo, perché dinanzi a Gesù Cristo, nostro Signore e Dio e Salvatore e Re secondo il beneplacito del Padre invisibile, «ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua lo proclami» (Fil 2, 10) ed egli pronunzi su tutti il suo giudizio insindacabile.Avendo ricevuto, come dissi, tale messaggio e tale fede, la Chiesa li custodisce con estrema cura, tutta compatta come abitasse in un’unica casa, benché ovunque disseminata. Vi aderisce unanimemente quasi avesse una sola anima e un solo cuore. Li proclama, li insegna e li trasmette all’unisono, come possedesse un’unica bocca. Benché infatti nel mondo diverse siano le lingue, unica e identica è la forza della tradizione. Per cui le chiese fondate in Germania non credono o trasmettono una dottrina diversa da quelle che si trovano in Spagna o nelle terre dei Celti o in Oriente o in Egitto o in Libia o al centro del mondo. Come il sole, creatura di Dio, è unico in tutto l’universo, così la predicazione della verità brilla ovunque e illumina tutti gli uomini che vogliono giungere alla conoscenza della verità. E così tra coloro che presiedono le chiese nessuno annunzia una dottrina diversa da questa, perché nessuno è al di sopra del suo maestro.Si tratti di un grande oratore o di un misero parlatore, tutti insegnano la medesima verità. Nessuno sminuisce il contenuto della tradizione. Unica e identica è la fede. Perciò né il facondo può arricchirla, né il balbuziente impoverirla.".

Con l'espansione del Cristianesimo, che abbandonò l'ambiente giudaico e divenne una religione autonoma, ci fu una sua inculturazione da parte delle popolazioni con ci esso venne a contatto.
Questo comportò anche dei rischi?
Sì, ciò comportò anche dei problemi e questi problemi furono le eresie.
Nacquero delle eresie, come (ad esempio) i nicolaiti, il marcionismo, l'arianesimo, l'adozionismo, il paulicianesimo o i tondrachiani.
Il marcionismo fu ripreso anche dai nazisti, per distruggere il Cristianesimo e la Chiesa.
Queste eresie non furono tali per i riti.
I riti possono essere diversi 
Queste eresie furono tali perché intaccarono tutti gli aspetti più profondi della dottrina, mettendo in discussione i dogmi fondamentali, come la divinità di Gesù Cristo, il fatto che egli fosse morto e risorto, il suo essere stato ebreo o altri aspetti sensibili della fede.
Ancora oggi ci sono delle eresie e sono rappresentate da quelle idee che, ad esempio, tendono a fare apparire Gesù come un personaggio politico, svilendone, ad esempio, la sua divinità e quindi il suo essere al di sopra della politica.
Queste sono eresie molto sottili perché si annidano anche entro le mura della Chiesa, purtroppo.
Allora, noi fedeli dovremmo cercare di conoscere meglio ciò in cui noi crediamo.
Cordiali saluti.

PS. Oggi è la ricorrenza di San Marco e l'amico Giovanni Covino mi ha lasciato anche il ritratto agiografico di questo grande apostolo:



Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama «figlio mio», lo ebbe certamente con sè nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di vita con l'apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sè il giovane nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l'ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: «Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». L'evangelista probabilmente morì nel 68.

Martirologio Romano: Festa di san Marco, Evangelista, che a Gerusalemme dapprima accompagnò san Paolo nel suo apostolato, poi seguì i passi di san Pietro, che lo chiamò figlio; si tramanda che a Roma abbia raccolto nel Vangelo da lui scritto le catechesi dell’Apostolo e che abbia fondato la Chiesa di Alessandria.



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Il peggio della politica continua ad essere presente

Ringrazio un caro amico di questa foto.