Cari amici ed amiche.
Su Facebook ho visto questa foto con questa didascalia:
"ATTENZIONE!!!!! DA CONDIVIDERE....
DOBBIAMO FARE TERRA BRUCIATA INTORNO A QUESTA GENTE, QUEST'UOMO E' EVASO DA REGINA COELI IL 14 GENNAIO ED E' ATTUALMENTE RICERCATO IN TUTTA LA NOSTRA PENISOLA.
CI SONO BUONE PROBABILITA' CHE SIA COINVOLTO NELLA RAPINA IN VILLA VICINO PERUGIA DOVE HANNO BARBARAMENTE UCCISO QUEL POVERO RAGAZZO DI 38 ANNI LUCA ROSI, CHE HA DIFESO CON TUTTE LE SUE FORZE LA MOGLIE DA UNA VIOLENZA SESSUALE.
CHIUNQUE LO VEDA AVVISI IMMEDIATAMENTE LE FORZE DELL'ORDINE, CONDIVIDETE VI PREGO USIAMO FACEBOOK PER QUALCOSA DI IMPORTANTE, AIUTIAMO A FARE GIUSTIZIA PER QUEL LUCA ROSI.".
Perciò, fate attenzione!
Cordiali saluti.
The Liberty Bell of Italy, una voce per chi difende la libertà...dalla politica alla cultura...come i nostri amici americani, i quali ebbero occasione di udire la celebre campana di Philadelphia nel 1776, quando fu letta la celeberrima Dichiarazione di Indipendenza. Questa è una voce per chi crede nei migliori valori della nostra cultura.
Il mio libro
Il mio libro
Il mio libro
Il mio libro
Il mio libro
Il mio libro
Il mio libro, in collaborazione con Morris Sonnino
Il mio libro
Il mio libro
Il mio libro
venerdì 27 aprile 2012
giovedì 26 aprile 2012
L'Unione Europea? E' in forte discussione!
Cari amici ed amiche.
Leggete l'articolo da me scritto su "Italia chiama Italia" ed intitolato "Dal governo Monti solo tasse".
In nome di questo viscerale europeismo del governo Monti, l'Italia sta affondando.
Purtroppo, l'Unione Europea non esiste.
Non ha un'istituzione politica e la sua moneta dipende dalle banche.
Inoltre, essa è in balia degli interessi di pochi Stati, Germania in primis.
In pratica, la Germania comanda e gli altri Stati devono comportarsi da satelliti.
Quello che sta accadendo in Italia è il paradigma di ciò.
Il governo Monti ha scelto una politica fiscale rigorosa (per non dire asfissiante) sotto dettatura della cancelliera tedesca Angela Merkel.
Così, mentre la Germania si salva, le nostre aziende chiudono, i nostri agricoltori (come gli allevatori del nord ed i coltivatori di agrumi in Sicilia) faticano, i nostri imprenditori si suicidano, noi giovani (me compreso) siamo disoccupati e le famiglie soffronto.
Questo è quello che sta portando questa Unione Europea.
Anche in Francia sta vincendo l'anti-europeismo.
Le recenti elezioni presidenziali l'hanno dimostrato.
La sinistra estrema di Jean Luc Melenchon e la destra estrema di Marine Le Pen vogliono la Francia fuori dall'Euro.
Il presidente uscente, Nicolas Sarkozy, vuole sospendere il Trattato di Schengen.
Solo il candidato socialista Francois Hollande vuole restare in Europa, anche se metterà in discussione alcune cose.
In Ungheria, sappiamo tutti quello che sta succedendo.
Nel Paese magiaro è stata fatta una Costituzione che riconosce le radici cristiane.
L'Unione Europea l'ha bocciata ed ora c'è una vera e propria "macchina del fango", come dice l'articolo de "Il Giornale" che è intitolato "Ungheria, è di nuovo il 1956 Macchina del fango su famiglia".
Anche gli Stati Uniti d'America guardano quanto sta succedendo nell'Unione Europea.
Se la crisi del 2008 fu generata dalla finanza tossica statunitense, quella attuale è causata da questa fantomatica Unione Europea.
Essa può scegliere se cambiare (e finalmente diventare una realtà dei cittadini) o restare così e fallire.
Ai posteri andrà l'ardua sentenza.
Cordiali saluti.
Leggete l'articolo da me scritto su "Italia chiama Italia" ed intitolato "Dal governo Monti solo tasse".
In nome di questo viscerale europeismo del governo Monti, l'Italia sta affondando.
Purtroppo, l'Unione Europea non esiste.
Non ha un'istituzione politica e la sua moneta dipende dalle banche.
Inoltre, essa è in balia degli interessi di pochi Stati, Germania in primis.
In pratica, la Germania comanda e gli altri Stati devono comportarsi da satelliti.
Quello che sta accadendo in Italia è il paradigma di ciò.
Il governo Monti ha scelto una politica fiscale rigorosa (per non dire asfissiante) sotto dettatura della cancelliera tedesca Angela Merkel.
Così, mentre la Germania si salva, le nostre aziende chiudono, i nostri agricoltori (come gli allevatori del nord ed i coltivatori di agrumi in Sicilia) faticano, i nostri imprenditori si suicidano, noi giovani (me compreso) siamo disoccupati e le famiglie soffronto.
Questo è quello che sta portando questa Unione Europea.
Anche in Francia sta vincendo l'anti-europeismo.
Le recenti elezioni presidenziali l'hanno dimostrato.
La sinistra estrema di Jean Luc Melenchon e la destra estrema di Marine Le Pen vogliono la Francia fuori dall'Euro.
Il presidente uscente, Nicolas Sarkozy, vuole sospendere il Trattato di Schengen.
Solo il candidato socialista Francois Hollande vuole restare in Europa, anche se metterà in discussione alcune cose.
In Ungheria, sappiamo tutti quello che sta succedendo.
Nel Paese magiaro è stata fatta una Costituzione che riconosce le radici cristiane.
L'Unione Europea l'ha bocciata ed ora c'è una vera e propria "macchina del fango", come dice l'articolo de "Il Giornale" che è intitolato "Ungheria, è di nuovo il 1956 Macchina del fango su famiglia".
Anche gli Stati Uniti d'America guardano quanto sta succedendo nell'Unione Europea.
Se la crisi del 2008 fu generata dalla finanza tossica statunitense, quella attuale è causata da questa fantomatica Unione Europea.
Essa può scegliere se cambiare (e finalmente diventare una realtà dei cittadini) o restare così e fallire.
Ai posteri andrà l'ardua sentenza.
Cordiali saluti.
Seminario di grafologia a Magenta.
Cari amici ed amiche.
Come avevo già scritto in precedenza, inizieranno i seminari di grafologia a Mangenta, in Provincia di Milano.
Essi saranno organizzati dall' associazione grafologi "Scriptorium".
L'amica Irene Bertoglio, grafologa e scrittrice, sarà tra coloro che dirigeranno questo seminario.
La grafologia si basa su metodi scientifici.
La scrittura può dire molto sulla psicologia di chi scrive.
Le date sono state cambiate.
Per maggiori avere informazioni, rivolgersi direttamente ad Irene Bertoglio, una persona che tra l'altro stimo, per il suo impegno nella società.
E' davvero una brava persona ed è anche molto competente nel suo mestiere.
La sua e-mail è i.bertoglio@libero.it.
Allora, spero che partecipiate in tanti.
Cordiali saluti.
CORDOGLIO PER VANESSA SCIALFA
Cari amici ed amiche.
Purtroppo, Vanessa Scialfa, la ragazza di 20 che è scomparsa martedì 24 aprile, è stata trovata morta.
Esprimo il mio cordoglio ai suoi cari che l'hanno cercata.
Lei, sicuramente, sarà con Dio e mi auguro che Dio sia ora con i suoi cari, che vivono questo immenso dolore.
Cordiali salutu.
Purtroppo, Vanessa Scialfa, la ragazza di 20 che è scomparsa martedì 24 aprile, è stata trovata morta.
Esprimo il mio cordoglio ai suoi cari che l'hanno cercata.
Lei, sicuramente, sarà con Dio e mi auguro che Dio sia ora con i suoi cari, che vivono questo immenso dolore.
Cordiali salutu.
Roger Scruton, "Del buon uso del pessimismo (e il pericolo delle false speranze)"
Cari amici ed amiche.
L'ottimo Filippo Giorgianni mi ha fatto avere questa nota di Roger Scruton su Facebook:
"«Il poeta e storico Robert Conquest in un’occasione parlò di tre “leggi della politica”, la prima delle quali affermava che tutti sono di destra in merito a ciò che conoscono meglio[1]. Con l’espressione “di destra”, Conquest intendeva un atteggiamento sospettoso nei confronti degli entusiasmi e delle novità, e di rispetto per la gerarchia, la tradizione e le consuetudini ben fondate. Un indice di ignoranza, sosteneva, è il preferire l’originalità alla consuetudine, le soluzioni radicali all’autorità tradizionale. Certo, abbiamo bisogno di originalità, proprio come possiamo aver bisogno di soluzioni drastiche quando le circostanze cambiano in maniera radicale. Ma queste cose ci servono solo in situazioni eccezionali, e Conquest ci voleva mettere in guardia contro il desiderio di considerare ogni circostanza come un’eccezione. […] Ma ciò che Conquest intendeva ha un significato più ampio. Quando si tratta della nostra vita, delle cose che conosciamo e sulle quali abbiamo acquisito sia conoscenza sia competenza, adottiamo un punto di vista misurato. […] La levatrice che conosce il proprio mestiere rispetta e pratica le soluzioni verificate dalle generazioni che l’hanno preceduta, riconoscendo in esse un’autorità alle quali istintivamente obbedisce. Tuttavia misura le proprie valutazioni di contro a un sapere accumulato dalla tradizione, e se si assume un rischio, perché il problema che si trova ad affrontare manca di precedenti chiari, presta attenzione ai costi dell’eventuale errore, e si assicura che possano essere sostenuti. Una persona di questo tipo non è pessimista; la potremmo definire un’ottimista con degli scrupoli, una persona cioè che valuta la dimensione di un problema e che per risolverlo consulta il bagaglio di conoscenze accumulate nel tempo, affidandosi all’iniziativa personale e all’ispirazione quando non trova altra guida, o quando “un qualcosa” nella difficoltà che si trova ad affrontare innesca una determinata reazione in lei. In tutte le cose che conosciamo meglio, e in tutte le relazioni che ci sono care, il nostro atteggiamento è, o lo è normalmente, altrettanto scrupoloso. Abbiamo acquisito tutta la competenza possibile e sappiamo dove cercare consiglio e guida. E quando andiamo incontro a debolezze, oppure commettiamo degli errori, ci sforziamo di migliorare. Siamo profondamente consapevoli di essere solo uno fra tanti nel nostro settore di competenza, siamo disposti a rivolgerci a chi ha conoscenza ed esperienza, e abbiamo più rispetto per il sapere accumulato dagli altri che per il piccolo contributo che potremmo apportare noi stessi. È con educato senso della prima persona plurale che dispieghiamo quella conoscenza che è il nostro bene personale più sicuro. Questo ottimismo scrupoloso conosce anche gli usi del pessimismo, e sa quando ricorrervi per moderare i nostri progetti. Ci incoraggia a tenere in considerazione il costo del fallimento, a formarci un’idea del peggiore scenario possibile e ad avere piena consapevolezza dei pericoli di ciò che accadrebbe se il rischio non pagasse. L’ottimismo senza scrupoli non è affatto così. Fa dei salti logici che non si basano su atti di fede, ma sul rifiuto di ammettere che manca il sostegno della ragione. Non tiene conto del costo del fallimento, né immagina il peggior scenario possibile. Al contrario, è caratterizzato da quella che potrei chiamare la fallacia della “migliore delle ipotesi”. Davanti alla necessità di operare delle scelte in condizioni d’incertezza, immagina il miglior risultato possibile e presume che non serva considerarne altri. Si vota a quell’unico risultato e, o dimentica di mettere in conto il costo del fallimento, oppure – e questo nel suo aspetto più pernicioso – fa in modo che tale costo ricada su qualcun altro. La fallacia della migliore delle ipotesi caratterizza la mentalità del giocatore d’azzardo. A volte si dice che i giocatori siano persone capaci di assumersi dei rischi e che questa loro qualità sia degna d’ammirazione, poiché hanno il coraggio di rischiare ciò che possiedono nel gioco che li appassiona. In realtà, ciò è tutt’altro che vero. I giocatori d’azzardo non sono persone capaci di assumersi dei rischi; giocano aspettandosi solamente di vincere, spinti dalle loro illusioni a bearsi di un senso di sicurezza irreale. Ai loro occhi, non si stanno affatto assumendo dei rischi, ma procedono semplicemente verso un obiettivo predeterminato con la piena collaborazione della loro abilità e della loro sacrosanta fortuna. Hanno preventivato il miglior scenario possibile, nel quale la fortuna è assicurata dalla loro maestria nel lancio dei dadi, ed è questo il risultato al quale tendono, inesorabilmente. Lo scenario peggiore, nel quale loro, e le loro famiglie, si ritrovano in rovina, qualora mai si affacci alla loro mente, la considerano una fatalità di cui loro non hanno colpa, un brutto colpo del destino che sarà certamente compensato da un successo futuro, e che in sé diviene quasi una fonte di piacere poiché rende ancora più inevitabile la futura vittoria. È il carattere del personaggio descritto da Dostoevskij ne Il giocatore, oltre che il suo stesso carattere, che causò la rovina sua e della famiglia. Ed è anche il carattere dell’ottimista senza scrupoli, in ogni ambito. Un esempio ancora più significativo lo troviamo nell’attuale “stretta creditizia”. Sono numerosi i fattori che hanno concorso a produrre questa crisi, ma non dobbiamo guardare troppo lontano per capire che al cuore di tutto c’è la fallacia della migliore delle ipotesi. Le prime avvisaglie si possono rintracciare nel Community Reinvestment Act, trasformato in legge dal presidente americano Carter nel 1977. Secondo questa legge, le banche e le altre istituzioni prestatrici devono offrire mutui ipotecari in modo da rispondere “ai bisogni delle comunità” nelle quali operano, e soprattutto ai bisogni delle famiglie a basso reddito e appartenenti alle minoranze. In breve, chiede loro di mettere da parte il normale modo di ragionare dei prestatori di denaro in merito alla sicurezza di un debito, e di offrire il credito come parte di una politica sociale e non come una transazione d’affari. Il ragionamento sottostante la legge era un impeccabile atto di ottimismo, a partire dallo scenario della migliore delle ipotesi, nel quale gruppi altrimenti svantaggiati sarebbero così ascesi al novero dei proprietari di casa, il primo passo verso la realizzazione del sogno americano. Tutti ne avrebbero tratto benefici, e nessun’altro più delle banche, che in tal modo aiutavano le proprie comunità a prosperare. Di fatto, ovviamente, le banche che avevano subito pressioni affinché ignorassero i vecchi requisiti della prudenza, e alle quali era stato proibito per legge di tener conto della peggiore delle ipotesi, finirono inesorabilmente con l’accumulare insolvenze, il che alla fine portò alla “crisi dei mutui subprime” del 2008. Nel frattempo, altri operatori avevano iniziato a immettere sul mercato questi debiti. Dopo tutto, la prospettiva del miglior scenario possibile ci dice che un mutuo, essendo basato su una casa, e quindi sul maggior investimento del mutuatario, non può non ripagare gli interessi. E un mutuo ipotecario a tasso fisso può essere venduto con un profitto, quando i tassi d’interesse scendono al di sotto del tasso concordato. Il peggior scenario possibile – talmente ovvio che nessuno si preoccupò di controllarlo – ci dice che, quando i tassi d’interesse scendono, il denaro perde il suo valore, e i tassi fissi diventano più difficili da pagare. Il debito si trasforma in insolvenza, indipendentemente da quanto fosse stato investito nella casa che gli fa da garanzia. Alcuni sosterranno che in questo caso il problema non sia nell’ottimismo in sé, ma nella visione irrealistica della natura umana che ne sta alla base. A me sembra, però, che l’errore sia ancora più profondo. Esiste una sorta di dipendenza da illusione che informa le tipologie più distruttive di ottimismo: il desiderio di cancellare la realtà come premessa dalla quale far partire il ragionamento pratico, e di sostituirla con un sistema d’illusioni compiacenti. Il “futurismo” è così. L’esaltata descrizione di possibilità future che troviamo negli scritti di Buckminster Fuller[3] e Ray Kurzweil, e nelle fantasie di trans-umanisti e cybernerds, deve la sua capacità d’attrazione alle irrealtà che evoca nella mente del lettore. In questi scritti troviamo il richiamo profondo del tempo futuro. Cambiando un “è” con un “sarà” permettiamo all’irreale di vincere sul reale, e a mondi senza limiti di cancellare quelle limitazioni che ben conosciamo. La stessa dipendenza dall’irrealtà può essere vista nell’atteggiamento nei confronti del credito. Una piccola dose di pessimismo ci avrebbe ricordato che, quando le persone finanziano i propri consumi ricorrendo a un prestito da ripagare in futuro, trattano un bene irreale – la promessa di una produzione futura – e che possono sorgere un migliaio di contingenze che impediscono che tale bene venga realizzato. Un’economia del credito, di conseguenza, dipende da una fiducia condivisa nella natura umana e dal potere delle promesse, in circostanze in cui l’obbligo di mantenerle è sempre meno riconosciuto, proprio perché le persone stanno prendendo l’abitudine di posporre i propri debiti. In queste circostanze subentra una particolare illusione. La gente smette di vedere il mondo finanziario come un mondo composto da esseri umani, con tutte le loro debolezze morali e gli schemi di tornaconto personale, e lo vede come un qualcosa composto da grafici e indici, cifre che a loro volta rappresentano quote, tassi d’interesse e valute, tutte cose che possono essere scambiate con l’energia umana, ma che di per sé sono solamente delle astrazioni, il cui valore economico dipende solo dalla fiducia che le persone ripongono in esse. Il mercato finanziario assume, nelle loro teste, le caratteristiche di un grande cartone animato, in cui le cose si muovono su uno schermo come se fossero sospinte da vita propria, e questo nonostante il fatto che lo schermo in sé sia solamente una lontana proiezione delle azioni e dei desideri delle persone. La verità morale fondamentale, che una piccola dose di pessimismo avrebbe reso d’importanza cruciale per tutte le decisioni dalle quali dipende il mercato, è che il credito si basa sulla fiducia, la fiducia dipende dal nostro senso di responsabilità e, in un’economia di credito nella quale la gente vuole godere subito del possesso di qualcosa e pagare in un secondo momento, il senso della responsabilità è in costante diminuzione, fuoriuscendo dal sistema attraverso lo stesso meccanismo che da esso dipende.»
[1] Le altre due leggi sono: 2. Qualsiasi organizzazione che non sia esplicitamente di destra prima o poi diviene di sinistra, e 3. Il modo più semplice per spiegare il comportamento di un’organizzazione burocratica è presumere che sia controllata da una cricca di suoi nemici.
[3] Oggi quasi dimenticato, questo trans-umanista avant la lettre negli anni ’60 era il beniamino di architetti progressisti, riformatori sociali e panglossiani. Si veda Buckminster Fuller, in Roger Scruton,The Politics of Culture and Other Essays, Carcanet, Manchester 1981.".
L'ottimo Filippo Giorgianni mi ha fatto avere questa nota di Roger Scruton su Facebook:
"«Il poeta e storico Robert Conquest in un’occasione parlò di tre “leggi della politica”, la prima delle quali affermava che tutti sono di destra in merito a ciò che conoscono meglio[1]. Con l’espressione “di destra”, Conquest intendeva un atteggiamento sospettoso nei confronti degli entusiasmi e delle novità, e di rispetto per la gerarchia, la tradizione e le consuetudini ben fondate. Un indice di ignoranza, sosteneva, è il preferire l’originalità alla consuetudine, le soluzioni radicali all’autorità tradizionale. Certo, abbiamo bisogno di originalità, proprio come possiamo aver bisogno di soluzioni drastiche quando le circostanze cambiano in maniera radicale. Ma queste cose ci servono solo in situazioni eccezionali, e Conquest ci voleva mettere in guardia contro il desiderio di considerare ogni circostanza come un’eccezione. […] Ma ciò che Conquest intendeva ha un significato più ampio. Quando si tratta della nostra vita, delle cose che conosciamo e sulle quali abbiamo acquisito sia conoscenza sia competenza, adottiamo un punto di vista misurato. […] La levatrice che conosce il proprio mestiere rispetta e pratica le soluzioni verificate dalle generazioni che l’hanno preceduta, riconoscendo in esse un’autorità alle quali istintivamente obbedisce. Tuttavia misura le proprie valutazioni di contro a un sapere accumulato dalla tradizione, e se si assume un rischio, perché il problema che si trova ad affrontare manca di precedenti chiari, presta attenzione ai costi dell’eventuale errore, e si assicura che possano essere sostenuti. Una persona di questo tipo non è pessimista; la potremmo definire un’ottimista con degli scrupoli, una persona cioè che valuta la dimensione di un problema e che per risolverlo consulta il bagaglio di conoscenze accumulate nel tempo, affidandosi all’iniziativa personale e all’ispirazione quando non trova altra guida, o quando “un qualcosa” nella difficoltà che si trova ad affrontare innesca una determinata reazione in lei. In tutte le cose che conosciamo meglio, e in tutte le relazioni che ci sono care, il nostro atteggiamento è, o lo è normalmente, altrettanto scrupoloso. Abbiamo acquisito tutta la competenza possibile e sappiamo dove cercare consiglio e guida. E quando andiamo incontro a debolezze, oppure commettiamo degli errori, ci sforziamo di migliorare. Siamo profondamente consapevoli di essere solo uno fra tanti nel nostro settore di competenza, siamo disposti a rivolgerci a chi ha conoscenza ed esperienza, e abbiamo più rispetto per il sapere accumulato dagli altri che per il piccolo contributo che potremmo apportare noi stessi. È con educato senso della prima persona plurale che dispieghiamo quella conoscenza che è il nostro bene personale più sicuro. Questo ottimismo scrupoloso conosce anche gli usi del pessimismo, e sa quando ricorrervi per moderare i nostri progetti. Ci incoraggia a tenere in considerazione il costo del fallimento, a formarci un’idea del peggiore scenario possibile e ad avere piena consapevolezza dei pericoli di ciò che accadrebbe se il rischio non pagasse. L’ottimismo senza scrupoli non è affatto così. Fa dei salti logici che non si basano su atti di fede, ma sul rifiuto di ammettere che manca il sostegno della ragione. Non tiene conto del costo del fallimento, né immagina il peggior scenario possibile. Al contrario, è caratterizzato da quella che potrei chiamare la fallacia della “migliore delle ipotesi”. Davanti alla necessità di operare delle scelte in condizioni d’incertezza, immagina il miglior risultato possibile e presume che non serva considerarne altri. Si vota a quell’unico risultato e, o dimentica di mettere in conto il costo del fallimento, oppure – e questo nel suo aspetto più pernicioso – fa in modo che tale costo ricada su qualcun altro. La fallacia della migliore delle ipotesi caratterizza la mentalità del giocatore d’azzardo. A volte si dice che i giocatori siano persone capaci di assumersi dei rischi e che questa loro qualità sia degna d’ammirazione, poiché hanno il coraggio di rischiare ciò che possiedono nel gioco che li appassiona. In realtà, ciò è tutt’altro che vero. I giocatori d’azzardo non sono persone capaci di assumersi dei rischi; giocano aspettandosi solamente di vincere, spinti dalle loro illusioni a bearsi di un senso di sicurezza irreale. Ai loro occhi, non si stanno affatto assumendo dei rischi, ma procedono semplicemente verso un obiettivo predeterminato con la piena collaborazione della loro abilità e della loro sacrosanta fortuna. Hanno preventivato il miglior scenario possibile, nel quale la fortuna è assicurata dalla loro maestria nel lancio dei dadi, ed è questo il risultato al quale tendono, inesorabilmente. Lo scenario peggiore, nel quale loro, e le loro famiglie, si ritrovano in rovina, qualora mai si affacci alla loro mente, la considerano una fatalità di cui loro non hanno colpa, un brutto colpo del destino che sarà certamente compensato da un successo futuro, e che in sé diviene quasi una fonte di piacere poiché rende ancora più inevitabile la futura vittoria. È il carattere del personaggio descritto da Dostoevskij ne Il giocatore, oltre che il suo stesso carattere, che causò la rovina sua e della famiglia. Ed è anche il carattere dell’ottimista senza scrupoli, in ogni ambito. Un esempio ancora più significativo lo troviamo nell’attuale “stretta creditizia”. Sono numerosi i fattori che hanno concorso a produrre questa crisi, ma non dobbiamo guardare troppo lontano per capire che al cuore di tutto c’è la fallacia della migliore delle ipotesi. Le prime avvisaglie si possono rintracciare nel Community Reinvestment Act, trasformato in legge dal presidente americano Carter nel 1977. Secondo questa legge, le banche e le altre istituzioni prestatrici devono offrire mutui ipotecari in modo da rispondere “ai bisogni delle comunità” nelle quali operano, e soprattutto ai bisogni delle famiglie a basso reddito e appartenenti alle minoranze. In breve, chiede loro di mettere da parte il normale modo di ragionare dei prestatori di denaro in merito alla sicurezza di un debito, e di offrire il credito come parte di una politica sociale e non come una transazione d’affari. Il ragionamento sottostante la legge era un impeccabile atto di ottimismo, a partire dallo scenario della migliore delle ipotesi, nel quale gruppi altrimenti svantaggiati sarebbero così ascesi al novero dei proprietari di casa, il primo passo verso la realizzazione del sogno americano. Tutti ne avrebbero tratto benefici, e nessun’altro più delle banche, che in tal modo aiutavano le proprie comunità a prosperare. Di fatto, ovviamente, le banche che avevano subito pressioni affinché ignorassero i vecchi requisiti della prudenza, e alle quali era stato proibito per legge di tener conto della peggiore delle ipotesi, finirono inesorabilmente con l’accumulare insolvenze, il che alla fine portò alla “crisi dei mutui subprime” del 2008. Nel frattempo, altri operatori avevano iniziato a immettere sul mercato questi debiti. Dopo tutto, la prospettiva del miglior scenario possibile ci dice che un mutuo, essendo basato su una casa, e quindi sul maggior investimento del mutuatario, non può non ripagare gli interessi. E un mutuo ipotecario a tasso fisso può essere venduto con un profitto, quando i tassi d’interesse scendono al di sotto del tasso concordato. Il peggior scenario possibile – talmente ovvio che nessuno si preoccupò di controllarlo – ci dice che, quando i tassi d’interesse scendono, il denaro perde il suo valore, e i tassi fissi diventano più difficili da pagare. Il debito si trasforma in insolvenza, indipendentemente da quanto fosse stato investito nella casa che gli fa da garanzia. Alcuni sosterranno che in questo caso il problema non sia nell’ottimismo in sé, ma nella visione irrealistica della natura umana che ne sta alla base. A me sembra, però, che l’errore sia ancora più profondo. Esiste una sorta di dipendenza da illusione che informa le tipologie più distruttive di ottimismo: il desiderio di cancellare la realtà come premessa dalla quale far partire il ragionamento pratico, e di sostituirla con un sistema d’illusioni compiacenti. Il “futurismo” è così. L’esaltata descrizione di possibilità future che troviamo negli scritti di Buckminster Fuller[3] e Ray Kurzweil, e nelle fantasie di trans-umanisti e cybernerds, deve la sua capacità d’attrazione alle irrealtà che evoca nella mente del lettore. In questi scritti troviamo il richiamo profondo del tempo futuro. Cambiando un “è” con un “sarà” permettiamo all’irreale di vincere sul reale, e a mondi senza limiti di cancellare quelle limitazioni che ben conosciamo. La stessa dipendenza dall’irrealtà può essere vista nell’atteggiamento nei confronti del credito. Una piccola dose di pessimismo ci avrebbe ricordato che, quando le persone finanziano i propri consumi ricorrendo a un prestito da ripagare in futuro, trattano un bene irreale – la promessa di una produzione futura – e che possono sorgere un migliaio di contingenze che impediscono che tale bene venga realizzato. Un’economia del credito, di conseguenza, dipende da una fiducia condivisa nella natura umana e dal potere delle promesse, in circostanze in cui l’obbligo di mantenerle è sempre meno riconosciuto, proprio perché le persone stanno prendendo l’abitudine di posporre i propri debiti. In queste circostanze subentra una particolare illusione. La gente smette di vedere il mondo finanziario come un mondo composto da esseri umani, con tutte le loro debolezze morali e gli schemi di tornaconto personale, e lo vede come un qualcosa composto da grafici e indici, cifre che a loro volta rappresentano quote, tassi d’interesse e valute, tutte cose che possono essere scambiate con l’energia umana, ma che di per sé sono solamente delle astrazioni, il cui valore economico dipende solo dalla fiducia che le persone ripongono in esse. Il mercato finanziario assume, nelle loro teste, le caratteristiche di un grande cartone animato, in cui le cose si muovono su uno schermo come se fossero sospinte da vita propria, e questo nonostante il fatto che lo schermo in sé sia solamente una lontana proiezione delle azioni e dei desideri delle persone. La verità morale fondamentale, che una piccola dose di pessimismo avrebbe reso d’importanza cruciale per tutte le decisioni dalle quali dipende il mercato, è che il credito si basa sulla fiducia, la fiducia dipende dal nostro senso di responsabilità e, in un’economia di credito nella quale la gente vuole godere subito del possesso di qualcosa e pagare in un secondo momento, il senso della responsabilità è in costante diminuzione, fuoriuscendo dal sistema attraverso lo stesso meccanismo che da esso dipende.»
[1] Le altre due leggi sono: 2. Qualsiasi organizzazione che non sia esplicitamente di destra prima o poi diviene di sinistra, e 3. Il modo più semplice per spiegare il comportamento di un’organizzazione burocratica è presumere che sia controllata da una cricca di suoi nemici.
[3] Oggi quasi dimenticato, questo trans-umanista avant la lettre negli anni ’60 era il beniamino di architetti progressisti, riformatori sociali e panglossiani. Si veda Buckminster Fuller, in Roger Scruton,The Politics of Culture and Other Essays, Carcanet, Manchester 1981.".
Innanzitutto, faccio i complimenti a Filippo Giorgianni e lo ringrazio dello spunto che mi ha dato.
Essere di destra non significa essere tetragoni di fronte ad ogni cosa nuova e grettamente conservatori.
Essere di destra significa essere attaccati ai valori più comuni di coloro che vivono nella propria realtà, senza trascurare i cambiamenti che avvengono.
Essere di destra significa dare delle speranze in base alle potenzialità della propria realtà, senza voli pindarici.
Questo distingue la destra dalla sinistra.
La sinistra (specialmente quella comunista) instilla false speranze, arrivando ad incitare all'odio e all'invidia sociale, per "fare un mondo migliore".
Questa è la peggiore delle false speranze
Questa è la peggiore delle false speranze
Io penso che oggi ci siano tante persone (politici in primis) che alimentano false speranze.
Un esempio è Barack Hussein Obama, il presidente degli Stati Uniti d'America.
Egli, ad esempio, aveva fatto una riforma della sanità di stampo europeo una riforma che "avrebbe stabilito una maggiore eguaglianza" del diritto alle cure mediche.
Purtroppo, con la crisi che c'è, quella riforma della sanità ha creato dei problemi perché ha pesato sulle casse del Paese.
Il discorso vale anche per i vari europeisti italiani che hanno visto nell'Unione Europea e nell'Euro la panacea.
Oggi, la storia li sta smentendo.
Allora, queste parole di Scruton sono molto attuali.
Riflettiamo.
AIUTATE A TROVARE QUESTA RAGAZZA!
Cari amici ed amiche.
Su Facebook mi è pervenuta questa foto con la seguente didascalia:
"A tutti gli amici di Facebook,vi prego di diramare questa foto,è mia figlia non abbiamo notizie da martedì 24 Aprile,vi prego di fare più annunci possibili in modo di potere scongiurare il peggio,eventualmente potete chiamare ai numeri qui di seguito 3476075351-3404664845 oppure direttamente ai carabinieri o qualsiasi altra forza dell'ordine. Vi ringrazio tutti per la collaborazione. ".
Su Facebook mi è pervenuta questa foto con la seguente didascalia:
"A tutti gli amici di Facebook,vi prego di diramare questa foto,è mia figlia non abbiamo notizie da martedì 24 Aprile,vi prego di fare più annunci possibili in modo di potere scongiurare il peggio,eventualmente potete chiamare ai numeri qui di seguito 3476075351-3404664845 oppure direttamente ai carabinieri o qualsiasi altra forza dell'ordine. Vi ringrazio tutti per la collaborazione. ".
Questa ragazza è figlia di Giovanni Scialfa. Egli non ha sue notizie da due giorni.
Chi sa qualcosa o ha visto qualcosa faccia sapere.
Cordiali saluti.
25 aprile, la ricorrenza che divide-commento all'articolo di Marco Mancini
Cari amici ed amiche.
Leggete questo articolo scritto da Marco Mancini, sul blog "Campari e De Maistre" che è intitolato "25 aprile, la ricorrenza che divide".
Che il 25 aprile sia una ricorrenza che divide è cosa nota.
Il 25 aprile non è una festa per tutti.
Purtroppo, come molte altre feste laiche, il 25 aprile viene strumentalizzato.
La sinistra comunista strumentalizza questa festa, per avere una legittimazione che in nessun altro modo può avere.
Così, essa (che ha una forte influenza sugli ambienti intellettuali) cerca di presentarsi sempre come la "liberatrice dell'Italia" o la "salvatrice della patria".
In realtà, la sinistra non fu liberatrice, né salvatrice.
Che la sinistra di estrazione comunista non sia libera né portatrice di libertà è cosa nota.
Già il fatto che tale parte politica abbia iniziato una campagna di boicottaggio contro quegli esercizi commerciali che in totale libertà hanno scelto di aprire i negozi nel giorno 25 aprile lo dimostra.
Questo è vergognoso, anche perché la sinistra non dice nulla riguardo ai negozi che aprono di domenica o nelle feste natalizie, che sono ben più importanti del 25 aprile.
Inoltre, vogliamo parlare dei partigiani?
Bene, su Facebook ho trovato questo testo di Paolo Deotto:
"Un martirologio del Novecento: i preti vittime della violenza comunista in Italia dopo il 1945
Paolo Deotto
Centotrenta uomini uccisi. Il primo omicidio è datato 7 agosto 1941, l’ultimo 4 febbraio 1951. In alcuni casi, rari, i killer sono stati perseguiti; ma su moltissimi altri casi regna il buio, anche perché l’omertà, sembra incredibile, copre ancora le colpe a tanti decenni di distanza. E quando non si tratta di omertà, c’è però una — non meno riprovevole — indifferenza su cose frettolosamente accantonate, perché ormai vecchie, passate. In molti casi all’omicidio si è aggiunto un ulteriore oltraggio, impedendo addirittura che si tenessero pubbliche esequie per le vittime, o anche propalando su di loro dicerie infamanti, quasi a giustificarne l’uccisione. La mano omicida ha colpito in tutta Italia, dalla Val d’Aosta al Friuli, arrivando fino alla Calabria. Tanti i sicari, pochi, come dicevamo quelli puniti, uno solo il mandante. Conosciuto, ma impunito.
Le vittime hanno una caratteristica che le accomuna: sono tutti sacerdoti, secolari o religiosi, parroci o cappellani militari, o semplici preti senza incarichi specifici, o cura d’anime. Molti, moltissimi di loro sono stati uccisi due volte: la prima volta dagli assassini materiali, la seconda volta dall’oblio e dalla negligenza di chi non può o non vuole ricordare.
Sembra la trama di un racconto poliziesco nato dalla fantasia un po’ troppo sbrigliata di qualche scrittore in vena di fornire emozioni «forti» ai lettori. E invece quanto ho descritto è tutto, purtroppo, realmente accaduto e lo racconta Roberto Beretta, giornalista di Avvenire e saggista.
Nella semplicità del suo titolo, diretto, chiarissimo, Beretta affronta uno dei capitoli più oscuri della storia nazionale nel periodo della Resistenza: la strage dei sacerdoti, operata da partigiani comunisti. Si tratta della prima opera che tratta in modo organico e approfondito una realtà, in verità arcinota, ma della quale «non» si doveva parlare, perché poteva minare l’immagine fin da subito oleografica della lotta di Liberazione, e soprattutto l’immagine del partito comunista quale vera avanguardia della lotta medesima.
Beretta tocca uno degli argomenti tabù, uno dei capitoli più tragici della tragica situazione in cui visse il Paese, dilaniato di fatto da due guerre, quella contro i tedeschi e quella civile scatenata dai comunisti. Questi ultimi non combattevano solo contro tedeschi e fascisti, ma anche contro i compatrioti antifascisti, se questi si opponevano alle loro pretese egemoniche e rivoluzionarie o se, comunque, sempre a insindacabile giudizio comunista, potevano essere considerati elementi sospetti. Porzus docet — potremmo dire — o, almeno, dovrebbe farci imparare che il Partito Comunista ebbe la «sua» politica da seguire e che i Gruppi di Azione Partigiana (Gap) e le Brigate «Garibaldi» agirono il più delle volte con assoluto disprezzo della pur ufficialmente accettata autorità del Cln.
I preti. Perché ucciderli? La guerra ha una sua spietata logica, nella quale rientra l’uccisione del nemico. Dal momento in cui si attua quella «sospensione della moralità» che è la situazione di conflitto, l’uccisione del nemico comporta però anche la difesa dell’amico, dell’alleato, e la fine delle ostilità comporta anche la fine di quella «licenza di uccidere». La società rientra nella normalità.
Perché dunque uccidere i preti? E perché le uccisioni andarono ben oltre la fine della guerra?
Roberto Beretta si pone, e ci pone, appunto, queste domande.
Nel primo capitolo, Gli epurati, leggiamo: «Erano colpevoli? E, se lo erano, meritavano di morire come sono stati uccisi, per giustizia sommaria, senza processo, talvolta “prelevati” e mai più ritrovati, tal altra seppelliti senza alcun funerale, fatti fuori anche vari mesi dopo la guerra sulla base di sospetti mai verificati, o anche di vendette personali fatte passare per motivi politici, diffamati in vita e ancor più in morte, perché più l’accusa era importante, più si sarebbe digerito il delitto? Non so, ciascuno giudichi. In me (che la guerra non ho vissuto) ha finito per prevalere la pietà per queste figure, tanto spesso innocenti o al massimo colpevoli quanto può esserlo qualunque uomo messo alle strette dalle circostanze della vita. Ma proprio per questo il viaggio vuol partire dagli “epurati”: ovvero dai sacerdoti uccisi per una colpa tutto sommato facile da comprendere, una collusione più o meno spinta col passato regime, che può lasciar capire (mai giustificare!) la loro eliminazione nella concitazione e tra le passioni di un contesto di guerra. Cominciamo dunque dai più “cattivi”, dai più “neri”» (p. 14).
Infatti il libro è redatto come una sorta di «catalogo» delle vittime.
Nel primo ci parla dei preti più compromessi con il fascismo, partendo proprio da quel don Tullio Calcagno (1899-1945), prima sospeso a divinis, poi addirittura scomunicato per la sua intensa attività politica di indiscutibile fede fascista, andata ben oltre il consentito dalle norme ecclesiastiche. La foto dei cadaveri di don Calcagno e dell’ex prefetto — medaglia d’oro, nonché cieco di guerra — Carlo Borsani (1917-1945), appena fucilati in piazzale Susa a Milano il 29 aprile 1945, dopo la condanna decretata da un tribunale del popolo, appare in prima di copertina, con opportuna crudezza, perché vale più di mille parole per introdurre al viaggio che Beretta propone di fare insieme a lui.
Per dieci capitoli, leggiamo episodi di cruda monotonia. Un nome, una data, una località, e poi la descrizione dell’evento, più o meno dettagliata, a seconda dei documenti esistenti, della memoria più o meno rimossa, della volontà, o meno, di parenti e amici, di ricordare l’ucciso. Leggiamo le vicende dei cappellani — due soli cappellani di milizia fascista, gli altri semplici assistenti spirituali dell’esercito —, dei «sospettati», dei «padroni» — preti ai quali si poteva imputare la colpa di essere possidenti —, dei «traditi» — preti che aiutavano i partigiani, alcuni addirittura cappellani di formazioni partigiane —; abbiamo i «dimenticati e gli insepolti», i «beatificati», fino ad arrivare ai preti «infoibati», uccisi nella terribile mattanza che vide partigiani comunisti e truppe titine «lavorare» insieme, riempiendo le cavità carsiche di migliaia di vittime, la cui colpa principale era l’italianità e l’anticomunismo.
Abbiamo parlato di episodi di «cruda monotonia» non certo perché il libro di Beretta sia monotono. Piuttosto colpisce la ripetitività di determinati atti: il prete che viene chiamato fuori casa con l’inganno — in genere, chiedendo l’assistenza per un morente —; le intimidazioni e le minacce, nel più classico stile malavitoso, contro chi può aver visto o sentito troppo; il divieto addirittura di celebrare un funerale in forma pubblica; la diffamazione postuma della vittima — con netta preferenza per le «questioni di donne» —, per rendere — come dice Beretta stesso — più «digeribile» il delitto.
Il tono volutamente dimesso con cui Beretta apre il suo lavoro potrebbe trarre in inganno il lettore più disattento. «Erano colpevoli? Non so, ciascuno giudichi», dice, come se volesse disfarsi del problema.
Ma poi pone davanti al lettore i fatti, l’unica cosa che conti laddove si voglia fare della storia e non dell’agiografia, di una parte o dell’altra. E i fatti parlano: parlano di una crudeltà cieca, non giustificata da alcuna esigenza militare, che trova nell’odio ideologico e nel fanatismo i suoi alimenti.
Un altro fatto è di estremo interesse: leggendo nelle «schede» che chiudono il libro la «Lista cronologica delle vittime» vediamo che le uccisioni continuano ben oltre il 25 aprile 1945. Fino al dicembre di quell’anno la lista è ancora lunga, così come è corposa anche la lista del 1946. Quattro uccisioni sono registrate nel 1947. L’ultimo prete ucciso per «motivi politici» è don Ugo Bardotti, pievano di Cevoli, nella diocesi di San Miniato in provincia di Pisa. Verso le ore 22 di domenica 4 febbraio 1951 tre persone bussano alla canonica e l’anziana zia del prete, che gli fa da perpetua, apre perché sente un cognome conosciuto in zona. Poi tre colpi di pistola: don Bardotti cade, ultima vittima di una malattia tremenda, l’odio, senza il quale, del resto, non possono sussistere le ideologie che hanno devastato il secolo appena trascorso.
Beretta, come si è visto, lascia parlare i fatti. Tuttavia il suo libro sarà di sicuro tacciato di «revisionismo», parola che per certa sinistra suona come infamante — ora che non è più di moda dare tout court del «fascista» all’avversario —, ma che per le persone di buon senso rappresenta l’atteggiamento che deve avere sempre lo storico, sempre pronto a riscrivere ogni riga, laddove nuovi documenti, nuove testimonianze, possano arricchire la conoscenza dei fatti. In questi ultimi anni si sono fatti passi avanti su questa strada, e il libro di Beretta rappresenta una tappa fondamentale per rileggere correttamente la nostra Storia patria. Egli stesso, nella conclusione del libro, parlando della Resistenza, mette in guardia contro i pericoli del mito e della falsificazione, che sono destinati comunque a crollare nel tempo, trascinando nella loro rovina anche quanto di buono e positivo vi fu in quel pur tragico periodo.
Roberto Beretta, sempre con la forza dei fatti e riportando anche le ricerche di altri studiosi — Norberto Bobbio (1909-2004), per citare il più illustre; e poi Claudio Pavone, Elena Aga Rossi, e altri ancora — dimostra la falsità anche di un altro assunto, fin qui ufficialmente cristallizzato come la «Verità»: le uccisioni di preti, non potendo essere negate, vengono contrabbandate come opera di pochi masnadieri, sconfessati dal Partito Comunista, che lealmente collaborava con gli altri partiti democratici per la costruzione della nuova Italia. Resta però da spiegare perché le formazioni comuniste furono le ultime a riconsegnare le armi dopo la fine delle ostilità; resta da spiegare perché la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, all’epoca paesi di stretta osservanza moscovita, furono generoso rifugio di quei «pochi masnadieri». Restano da spiegare tante cose, fra le quali il clima di terrore che si visse almeno fino al 1948 nel famoso «Triangolo rosso» o «Triangolo della morte», fra Emilia e Romagna, in città e regioni dove i comunisti avevano acquisito il controllo di prefetture e delle forze di polizia. E il discorso si allarga fatalmente, oltre ai poveri preti uccisi — che finalmente vengono restituiti alla memoria e, quindi, alla pietà —, per spostarsi su migliaia di altre vittime, anch’esse spesso cadute dopo la fine ufficiale del conflitto civile: quegli «sconosciuti 1945» (e oltre), di cui è tornato a occuparsi recentemente e con grande successo di pubblico Giampaolo Pansa. I «pochi masnadieri» in realtà non furono pochi, di certo per la massa di «lavoro» che riuscirono a sbrigare e per essere «pochi» furono anche molto ben organizzati.
Roberto Beretta, Storia dei preti uccisi dai partigiani, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2005, pp. 320.".
Ringrazio l'amica Irene Bertoglio (una bravissima ragazza che si impegna tanto) che ha messo questo testo su Facebook.
Ciò è tutto documentato.
Chi cerca di sollevare questo tema, viene bollato come "eversivo", "fascista", "nazista", "antisemita" e quant'altro.
Questo è inaccettabile!
Se io fossi un prete, mi rifiuterei di celebrare la Messa per il 25 aprile.
Piuttosto, la celebrerei per San Marco ma non per la "Liberazione".
Per colpa di una parte politica che tutto voleva fare meno che liberare l'Italia, i nostri giovani non conoscono la storia e sono stati ideologizzati.
Questo è paragonabile ad un crimine, un crimine contro la verità.
Cordiali saluti.
Leggete questo articolo scritto da Marco Mancini, sul blog "Campari e De Maistre" che è intitolato "25 aprile, la ricorrenza che divide".
Che il 25 aprile sia una ricorrenza che divide è cosa nota.
Il 25 aprile non è una festa per tutti.
Purtroppo, come molte altre feste laiche, il 25 aprile viene strumentalizzato.
La sinistra comunista strumentalizza questa festa, per avere una legittimazione che in nessun altro modo può avere.
Così, essa (che ha una forte influenza sugli ambienti intellettuali) cerca di presentarsi sempre come la "liberatrice dell'Italia" o la "salvatrice della patria".
In realtà, la sinistra non fu liberatrice, né salvatrice.
Che la sinistra di estrazione comunista non sia libera né portatrice di libertà è cosa nota.
Già il fatto che tale parte politica abbia iniziato una campagna di boicottaggio contro quegli esercizi commerciali che in totale libertà hanno scelto di aprire i negozi nel giorno 25 aprile lo dimostra.
Questo è vergognoso, anche perché la sinistra non dice nulla riguardo ai negozi che aprono di domenica o nelle feste natalizie, che sono ben più importanti del 25 aprile.
Inoltre, vogliamo parlare dei partigiani?
Bene, su Facebook ho trovato questo testo di Paolo Deotto:
"Un martirologio del Novecento: i preti vittime della violenza comunista in Italia dopo il 1945
Paolo Deotto
Centotrenta uomini uccisi. Il primo omicidio è datato 7 agosto 1941, l’ultimo 4 febbraio 1951. In alcuni casi, rari, i killer sono stati perseguiti; ma su moltissimi altri casi regna il buio, anche perché l’omertà, sembra incredibile, copre ancora le colpe a tanti decenni di distanza. E quando non si tratta di omertà, c’è però una — non meno riprovevole — indifferenza su cose frettolosamente accantonate, perché ormai vecchie, passate. In molti casi all’omicidio si è aggiunto un ulteriore oltraggio, impedendo addirittura che si tenessero pubbliche esequie per le vittime, o anche propalando su di loro dicerie infamanti, quasi a giustificarne l’uccisione. La mano omicida ha colpito in tutta Italia, dalla Val d’Aosta al Friuli, arrivando fino alla Calabria. Tanti i sicari, pochi, come dicevamo quelli puniti, uno solo il mandante. Conosciuto, ma impunito.
Le vittime hanno una caratteristica che le accomuna: sono tutti sacerdoti, secolari o religiosi, parroci o cappellani militari, o semplici preti senza incarichi specifici, o cura d’anime. Molti, moltissimi di loro sono stati uccisi due volte: la prima volta dagli assassini materiali, la seconda volta dall’oblio e dalla negligenza di chi non può o non vuole ricordare.
Sembra la trama di un racconto poliziesco nato dalla fantasia un po’ troppo sbrigliata di qualche scrittore in vena di fornire emozioni «forti» ai lettori. E invece quanto ho descritto è tutto, purtroppo, realmente accaduto e lo racconta Roberto Beretta, giornalista di Avvenire e saggista.
Nella semplicità del suo titolo, diretto, chiarissimo, Beretta affronta uno dei capitoli più oscuri della storia nazionale nel periodo della Resistenza: la strage dei sacerdoti, operata da partigiani comunisti. Si tratta della prima opera che tratta in modo organico e approfondito una realtà, in verità arcinota, ma della quale «non» si doveva parlare, perché poteva minare l’immagine fin da subito oleografica della lotta di Liberazione, e soprattutto l’immagine del partito comunista quale vera avanguardia della lotta medesima.
Beretta tocca uno degli argomenti tabù, uno dei capitoli più tragici della tragica situazione in cui visse il Paese, dilaniato di fatto da due guerre, quella contro i tedeschi e quella civile scatenata dai comunisti. Questi ultimi non combattevano solo contro tedeschi e fascisti, ma anche contro i compatrioti antifascisti, se questi si opponevano alle loro pretese egemoniche e rivoluzionarie o se, comunque, sempre a insindacabile giudizio comunista, potevano essere considerati elementi sospetti. Porzus docet — potremmo dire — o, almeno, dovrebbe farci imparare che il Partito Comunista ebbe la «sua» politica da seguire e che i Gruppi di Azione Partigiana (Gap) e le Brigate «Garibaldi» agirono il più delle volte con assoluto disprezzo della pur ufficialmente accettata autorità del Cln.
I preti. Perché ucciderli? La guerra ha una sua spietata logica, nella quale rientra l’uccisione del nemico. Dal momento in cui si attua quella «sospensione della moralità» che è la situazione di conflitto, l’uccisione del nemico comporta però anche la difesa dell’amico, dell’alleato, e la fine delle ostilità comporta anche la fine di quella «licenza di uccidere». La società rientra nella normalità.
Perché dunque uccidere i preti? E perché le uccisioni andarono ben oltre la fine della guerra?
Roberto Beretta si pone, e ci pone, appunto, queste domande.
Nel primo capitolo, Gli epurati, leggiamo: «Erano colpevoli? E, se lo erano, meritavano di morire come sono stati uccisi, per giustizia sommaria, senza processo, talvolta “prelevati” e mai più ritrovati, tal altra seppelliti senza alcun funerale, fatti fuori anche vari mesi dopo la guerra sulla base di sospetti mai verificati, o anche di vendette personali fatte passare per motivi politici, diffamati in vita e ancor più in morte, perché più l’accusa era importante, più si sarebbe digerito il delitto? Non so, ciascuno giudichi. In me (che la guerra non ho vissuto) ha finito per prevalere la pietà per queste figure, tanto spesso innocenti o al massimo colpevoli quanto può esserlo qualunque uomo messo alle strette dalle circostanze della vita. Ma proprio per questo il viaggio vuol partire dagli “epurati”: ovvero dai sacerdoti uccisi per una colpa tutto sommato facile da comprendere, una collusione più o meno spinta col passato regime, che può lasciar capire (mai giustificare!) la loro eliminazione nella concitazione e tra le passioni di un contesto di guerra. Cominciamo dunque dai più “cattivi”, dai più “neri”» (p. 14).
Infatti il libro è redatto come una sorta di «catalogo» delle vittime.
Nel primo ci parla dei preti più compromessi con il fascismo, partendo proprio da quel don Tullio Calcagno (1899-1945), prima sospeso a divinis, poi addirittura scomunicato per la sua intensa attività politica di indiscutibile fede fascista, andata ben oltre il consentito dalle norme ecclesiastiche. La foto dei cadaveri di don Calcagno e dell’ex prefetto — medaglia d’oro, nonché cieco di guerra — Carlo Borsani (1917-1945), appena fucilati in piazzale Susa a Milano il 29 aprile 1945, dopo la condanna decretata da un tribunale del popolo, appare in prima di copertina, con opportuna crudezza, perché vale più di mille parole per introdurre al viaggio che Beretta propone di fare insieme a lui.
Per dieci capitoli, leggiamo episodi di cruda monotonia. Un nome, una data, una località, e poi la descrizione dell’evento, più o meno dettagliata, a seconda dei documenti esistenti, della memoria più o meno rimossa, della volontà, o meno, di parenti e amici, di ricordare l’ucciso. Leggiamo le vicende dei cappellani — due soli cappellani di milizia fascista, gli altri semplici assistenti spirituali dell’esercito —, dei «sospettati», dei «padroni» — preti ai quali si poteva imputare la colpa di essere possidenti —, dei «traditi» — preti che aiutavano i partigiani, alcuni addirittura cappellani di formazioni partigiane —; abbiamo i «dimenticati e gli insepolti», i «beatificati», fino ad arrivare ai preti «infoibati», uccisi nella terribile mattanza che vide partigiani comunisti e truppe titine «lavorare» insieme, riempiendo le cavità carsiche di migliaia di vittime, la cui colpa principale era l’italianità e l’anticomunismo.
Abbiamo parlato di episodi di «cruda monotonia» non certo perché il libro di Beretta sia monotono. Piuttosto colpisce la ripetitività di determinati atti: il prete che viene chiamato fuori casa con l’inganno — in genere, chiedendo l’assistenza per un morente —; le intimidazioni e le minacce, nel più classico stile malavitoso, contro chi può aver visto o sentito troppo; il divieto addirittura di celebrare un funerale in forma pubblica; la diffamazione postuma della vittima — con netta preferenza per le «questioni di donne» —, per rendere — come dice Beretta stesso — più «digeribile» il delitto.
Il tono volutamente dimesso con cui Beretta apre il suo lavoro potrebbe trarre in inganno il lettore più disattento. «Erano colpevoli? Non so, ciascuno giudichi», dice, come se volesse disfarsi del problema.
Ma poi pone davanti al lettore i fatti, l’unica cosa che conti laddove si voglia fare della storia e non dell’agiografia, di una parte o dell’altra. E i fatti parlano: parlano di una crudeltà cieca, non giustificata da alcuna esigenza militare, che trova nell’odio ideologico e nel fanatismo i suoi alimenti.
Un altro fatto è di estremo interesse: leggendo nelle «schede» che chiudono il libro la «Lista cronologica delle vittime» vediamo che le uccisioni continuano ben oltre il 25 aprile 1945. Fino al dicembre di quell’anno la lista è ancora lunga, così come è corposa anche la lista del 1946. Quattro uccisioni sono registrate nel 1947. L’ultimo prete ucciso per «motivi politici» è don Ugo Bardotti, pievano di Cevoli, nella diocesi di San Miniato in provincia di Pisa. Verso le ore 22 di domenica 4 febbraio 1951 tre persone bussano alla canonica e l’anziana zia del prete, che gli fa da perpetua, apre perché sente un cognome conosciuto in zona. Poi tre colpi di pistola: don Bardotti cade, ultima vittima di una malattia tremenda, l’odio, senza il quale, del resto, non possono sussistere le ideologie che hanno devastato il secolo appena trascorso.
Beretta, come si è visto, lascia parlare i fatti. Tuttavia il suo libro sarà di sicuro tacciato di «revisionismo», parola che per certa sinistra suona come infamante — ora che non è più di moda dare tout court del «fascista» all’avversario —, ma che per le persone di buon senso rappresenta l’atteggiamento che deve avere sempre lo storico, sempre pronto a riscrivere ogni riga, laddove nuovi documenti, nuove testimonianze, possano arricchire la conoscenza dei fatti. In questi ultimi anni si sono fatti passi avanti su questa strada, e il libro di Beretta rappresenta una tappa fondamentale per rileggere correttamente la nostra Storia patria. Egli stesso, nella conclusione del libro, parlando della Resistenza, mette in guardia contro i pericoli del mito e della falsificazione, che sono destinati comunque a crollare nel tempo, trascinando nella loro rovina anche quanto di buono e positivo vi fu in quel pur tragico periodo.
Roberto Beretta, sempre con la forza dei fatti e riportando anche le ricerche di altri studiosi — Norberto Bobbio (1909-2004), per citare il più illustre; e poi Claudio Pavone, Elena Aga Rossi, e altri ancora — dimostra la falsità anche di un altro assunto, fin qui ufficialmente cristallizzato come la «Verità»: le uccisioni di preti, non potendo essere negate, vengono contrabbandate come opera di pochi masnadieri, sconfessati dal Partito Comunista, che lealmente collaborava con gli altri partiti democratici per la costruzione della nuova Italia. Resta però da spiegare perché le formazioni comuniste furono le ultime a riconsegnare le armi dopo la fine delle ostilità; resta da spiegare perché la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, all’epoca paesi di stretta osservanza moscovita, furono generoso rifugio di quei «pochi masnadieri». Restano da spiegare tante cose, fra le quali il clima di terrore che si visse almeno fino al 1948 nel famoso «Triangolo rosso» o «Triangolo della morte», fra Emilia e Romagna, in città e regioni dove i comunisti avevano acquisito il controllo di prefetture e delle forze di polizia. E il discorso si allarga fatalmente, oltre ai poveri preti uccisi — che finalmente vengono restituiti alla memoria e, quindi, alla pietà —, per spostarsi su migliaia di altre vittime, anch’esse spesso cadute dopo la fine ufficiale del conflitto civile: quegli «sconosciuti 1945» (e oltre), di cui è tornato a occuparsi recentemente e con grande successo di pubblico Giampaolo Pansa. I «pochi masnadieri» in realtà non furono pochi, di certo per la massa di «lavoro» che riuscirono a sbrigare e per essere «pochi» furono anche molto ben organizzati.
Roberto Beretta, Storia dei preti uccisi dai partigiani, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2005, pp. 320.".
Ringrazio l'amica Irene Bertoglio (una bravissima ragazza che si impegna tanto) che ha messo questo testo su Facebook.
Ciò è tutto documentato.
Chi cerca di sollevare questo tema, viene bollato come "eversivo", "fascista", "nazista", "antisemita" e quant'altro.
Questo è inaccettabile!
Se io fossi un prete, mi rifiuterei di celebrare la Messa per il 25 aprile.
Piuttosto, la celebrerei per San Marco ma non per la "Liberazione".
Per colpa di una parte politica che tutto voleva fare meno che liberare l'Italia, i nostri giovani non conoscono la storia e sono stati ideologizzati.
Questo è paragonabile ad un crimine, un crimine contro la verità.
Cordiali saluti.
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